Una giungla di carta: competitività e università

, di Davide Emanuele Iannace

Una giungla di carta: competitività e università

È arrivato quel particolare momento dell’anno in cui le università italiane si ritrovano a dover fare i conti con il processo di valutazione universitario, il temuto ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) che investiga sui punti di forza e di debolezza degli atenei, delle facoltà e dei corsi di studio che popolano il panorama universitario italiano.

Non vogliamo scendere nel merito della valutazione in sé, su cui abbondano articoli di giornale e testi specialistici che più o meno ampiamente hanno trattato del come si fa valutazione, dei problemi del percorso di valutazione e di come i dati che vengano fuori debbano inoltre essere soggetti ad una ulteriore fase di interpretazione e di confronto. Perché è soprattutto di questo ultimo aspetto che si vuole qui discutere brevemente. Il confronto e l’interpretazione dei dati che fuoriescono dai rapporti CENSIS, ANVUR e del MIUR, ma non solo. Estendendo brevemente il nostro orizzonte, c’è un mondo di rating e rapporti che mette a confronto università da parti diverse del mondo, facendone liste e classifiche tra chi è meglio in cosa e in come.

Uno degli ultimi esempi ci viene dallo scorso febbraio, l’ultimo rapporto QS Ranking pubblicato per il 2019, ripreso dalle principali testate giornalistiche italiane tra cui anche La Repubblica e AGI. In questo rapporto, straordinariamente favorevole per l’Italia, vengono messe in evidenza i principali punti di forza e di competitività delle università che hanno raggiunto risultati migliori rispetto al passato, come l’Università di Roma “La Sapienza” o “Bicocca” di Milano, elogiandone lo sforzo per creare candidati sempre più competitivi sul mercato.

Competitivo è il termine che più di tutti appare nel corso del rapporto, nel sito di QS e negli articoli che vi si riferiscono. Competitività del mercato, competitività dei laureati, competitività degli atenei. La competitività nell’essere rappresentate come le migliori, per attirare un maggior numero di studenti (e dove le rette sono molto alte, un buon rating può fare la differenza) e nell’attirare fondi pubblici e privati per restare in cima. Una giungla, insomma, dove le università devono produrre e avere impatti per contare di più, così da avere le risorse per contare ancora. In Italia l’ANVUR svolge la medesima funzione, modificando con i propri rapporti il modo in cui i fondi vengono ripartiti tra gli atenei pubblici del Bel Paese.

Questo tipo di valutazioni e di ranking è giudicato necessario, o deve essere giudicato necessario, visto l’impegno che viene dispiegato nel suo svolgimento, per poter ottimizzare la distribuzione di risorse. La cultura diventa in pratica una parte del sistema economico, che deve ricevere i giusti input, sotto forma di investimenti, a loro volta distribuiti in base alla virtuosità, per poter mettere tutti su un’unica carreggiata. Questo, soprattutto, per la scarsità degli investimenti che vengono devoluti alle istituzioni devote alla formazione scolastica di qualsiasi livello, rendendo necessario, essendo la coperta sempre più corta, decidere chi merita di dormire al caldo e chi no.

Una valutazione non è di per sé negativa, sia chiaro. Non si vuole lanciare una critica gratuita a tutto il sistema delle valutazioni. Sono uno strumento importante, come molti altri, che però non dovrebbero sostituire un’analisi attenta e puntuale della qualità del lavoro svolto all’interno dei laboratori di ricerca e degli istituti di alta formazione, delle scuole superiori e delle università non solo italiane, ma mondiali ed europee. Perché non è solo questione di quanta ricerca viene fatta, di quanto si diffonde e di quanto possa attirare fama e ricchezza, ma anche di come si possa contribuire a creare cultura, non per forza spendibile immediatamente sul mercato e di come sostenere questo settore nel nome del vero progresso scientifico e culturale. Usiamo con cautela ovviamente anche la parola progresso. Vogliamo intendere che la spinta del sapere di più è di per sé, in tal caso, progresso. Rating e valutazioni possono aiutare a controllare il sistema universitario, ma non possono, né devono, diventare censori assoluti su cui si giocano battaglie spesso più legate alla politica che alla cultura in sé. Possono essere spunti di critica di un sistema che cade facilmente nell’autoreferenzialità di titoli, compiti e competenze, offrendo così spunti esterni anche per migliorare.

Non eliminare le valutazioni, né i ranking, ma renderli migliori. Su questo, come in molte cose, una struttura europea potrebbe venire incontro le necessità dei singoli paesi del continente e il bisogno, in virtù di una sempre maggiore internalizzazione dei flussi di studenti tra i confini dell’Unione, di rendere i sistemi universitari più simili, ma non uguali. Se in tal senso, per la semplificazione del passaggio da una struttura all’altra all’interno dell’area europea esiste il sistema di conversione ECTS dei voti e in un certo senso il famoso 3+2 della struttura dei corsi universitari classici (triennale e magistrale) sta diventando uno standard, nella realtà un passaggio ulteriore lo potrebbe fare solo un sistema di controllo delle istituzioni. Sulla falsa riga dell’ANVUR e dei suoi simili, a livello europeo, un sistema che possa centrare però il suo occhio non tanto sulla produttività e sulla competitività come valori assoluti, ma piuttosto sulla capacità di creare innovazione, qualunque questa sia, e garantire un’equa possibilità di studio a tutti gli studenti europei.

Se i singoli sistemi di welfare (eccetto che in alcuni paesi) non sono capaci da soli di affrontare il problema delle istituzioni universitarie e la crisi che stanno vivendo attualmente, una coordinazione europea a livello di valutazione prima (e di fondi in futuro) potrebbe riequilibrare la situazione. Dopotutto, gli scambi universitari a livello sia di staff didattico che studenti sono molto frequenti ed è sempre più una scelta attuabile l’andare a studiare per un intero corso di laurea, o un master o anche un dottorato, al di fuori dei propri “confini nazionali”. Solo nel 2017, per dare un’idea, quasi 800.000 studenti hanno partecipato al programma dell’Erasmus+, finanziati da un budget di 2.6 miliardi di euro. Si può fare di più, a patto di comprendere che un sistema universitario europeo integrato è una ricchezza di culture, dottrine e stili diversi che può realmente arricchire tutti.

Fonte immagine: Picpedia.

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