Una riflessione sulla presenza femminile nel contesto sociale

Una donna come amico o leader?

, di Giulia Sulpizi

Una donna come amico o leader?
Fonte: Wikimedia Commons, «Il Giudice della Corte Costituzionale Marta Cartabia con il suo collega Giuliano Amato, durante una conferenza presso La Sapienza, 2018», https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marta_cartabia_con_giuliano_amato.jpg

Eurobull, nella settimana dall’8 al 14 marzo 2021, rilancia il progetto European HerStory, sottolineando l’importanza delle donne nella costruzione di un’Europa democratica e federale.

Oggi, una riflessione più ampia sul ruolo della Giornata Internazionale della Donna e sulla posizione femminile nel contesto sociale italiano, tra passi in avanti ma anche ancora tanti metri da recuperare nella corsa alla parità.

È da poco passata la Giornata Internazionale della Donna, che in tutto il mondo si celebra l’8 marzo, e, come ogni anno, le strade italiane sono state invase da mimose e dolci a tema, piccoli pensieri per quella parte dell’universo tinto di rosa.

Non mi dilungherò sulle ragioni che hanno portato all’istituzione di tale ricorrenza, né mi interrogherò su quali passi siano stati compiuti lungo il cammino dell’emancipazione femminile.

Rifletterò, piuttosto, sul significato che questa celebrazione assume oggi e sulle motivazioni per cui l’International women’s day sia una data da ricordare.

Le donne, nell’Italia contemporanea, si sono affermate in molteplici campi: dal mondo della finanza a quello della politica, dalla letteratura alle aule universitarie, dai vertici delle imprese ai social media.

È un cammino in divenire quello cui stiamo assistendo in questi ultimi anni, ma non per questo risulta meno significativo osservare che un personaggio come Chiara Ferragni sia ricca e famosa tanto quanto – se non di più – il marito Fedez e che siano state molte donne in carriera le protagoniste delle serate dell’ultima edizione di Sanremo.

Non si deve, d’altro canto, dimenticare che, all’indomani della pandemia Covid-19, sono le donne coloro che hanno maggiormente sofferto di tali avvenimenti: molte di loro hanno perso il lavoro o sono state costrette a rinunciarvi per dedicarsi con maggiore attenzione alla cura dei figli, altrimenti abbandonati a loro stessi con le scuole rimaste chiuse.

Il genere femminile è, dunque, diviso, spaccato: tra chi è riuscita – con costanza, tenacia, determinazione e, si consenta, una buona dose di fortuna – ad affermare il proprio ruolo e la propria indipendenza e chi resta schiava del potere maschile e degli stereotipi di genere.

Quante volte ci siamo sentite dire “Questo ruolo non è adatto ad una donna” o “Com’è difficile lavorare con le donne” o “Questa professione è ancora più difficile se porti la gonna e non i pantaloni”?

Personalmente ho sentito pronunciare – anche nei miei confronti – frasi di questo genere, parole che mi hanno non tanto ferita, quanto spaventata e rattristata.

Provengo da una famiglia in cui il potere femminile è sempre stato all’ordine del giorno. La mia bisnonna (classe 1922) si vedeva pari rispetto al marito e ha improntato il suo rapporto con il coniuge all’assoluta eguaglianza, prendendo tutte le decisioni che riteneva più adatte per i figli insieme all’uomo che aveva scelto – per amore – come compagno di vita.

Un’altra mia bisnonna – che non aveva potuto accedere, agli inizi del Novecento, agli studi universitari ma che coltivava un profondo amore per le scienze mediche e per la scrittura – ha accompagnato il marito, professore universitario, ai suoi convegni a Londra, Parigi e Bruxelles, discorrendo con i colleghi del suo partner come se fossero suoi pari, non sentendosi mai “seconda” a nessuno.

Sarà perché ho vissuto all’ombra di personalità tanto forti e maestose che mi sono sempre sentita privilegiata nella mia condizione, proprio perché donna. Non ho mai percepito il mio genere come un deficit, ritenendo di poter giungere – con impegno, serietà e forza d’animo – agli stessi risultati delle mie controparti maschili. Per queste ragioni dichiarazioni di “minorità” femminile mi hanno sempre lasciata attonita e stupita: vivendo in una casa a netta dominanza “rosa” non ho mai creduto che la mia opinione valesse di meno o che il mio apporto alla società potesse essere considerato come di minor valore.

Mi sono resa conto, però, con mio sommo rammarico, che tale convinzione non è diffusa come credevo. In molti ambienti, infatti, mi è capitato di sentire ragazzi – anche giovani – affermare la propria superiorità rispetto alle compagne di corso o alle fidanzate, associate a semplici ancelle degli uomini.

Per questo non mi stupisce leggere sui giornali titoli che, nel giorno della festa della donna, riportano la sussistenza di un consistente gender gap in molte professioni o che denunciano – come è accaduto recentemente – la scarsa presenza femminile in ruoli politici di rilievo.

Un episodio che mi ha particolarmente colpita riguarda, non a caso, il tema delle nomine a Ministro della Repubblica degli esponenti del sesso femminile. È stato fatto notare, infatti, come fossero poche le donne presenti nella nuova compagine di governo e come molte di esse siano state designate come Ministri senza portafoglio, prive, dunque, di autonomia di spesa e di risorse proprie. Così è avvenuto per il Ministro per il sud e la coesione territoriale, il Ministro per gli Affari regionali e le autonomie, il Ministro per le Politiche giovanili, il Ministro per le Pari opportunità e la famiglia e per il Ministro per la Disabilità.

Ci si è, però, dimenticati che tre Ministeri molto importanti – quello dell’Interno, della Giustizia e dell’Università e della ricerca – sono stati assegnati proprio a tre donne, Luciana Lamorgese, Marta Cartabia e Maria Cristina Messa.

Ciò che ha destato la mia attenzione è stato, quindi, il fatto che ci si sia scordati che, forse, più che guardare al numero delle donne che siedono nelle stanze di Palazzo Chigi si dovrebbe osservare la qualità degli incarichi loro affidati e il curriculum e la preparazione che le stesse dimostrano.

Non serve, dunque, invocare le “quote rosa” o la parità di genere per porre in essere un’azione – politica e non solo – improntata alla vera eguaglianza. Basta volgere lo sguardo a cosa le donne siano in grado di fare concretamente e fare in modo di metterle nelle condizioni di competere – alla pari e senza pregiudizi – con gli uomini.

Tale obiettivo risulta, però, più facile a dirsi che a farsi. La ragione alla base di questa difficoltà è da ritrovare in una mentalità che crede ancora che i maschi siano superiori alle femmine. Una mentalità che, purtroppo, è in Italia forse più presente nelle donne che negli uomini.

Ho sentito molte mie coetanee e non solo sperare – in futuro – di avere “il maschio”, augurandosi di non trovarsi mai a stringere tra le braccia figlie femmine. Questo – sembra assurdo, ma è così – è il pensiero di molte ragazze laureate del nord-Italia. Parole del genere mi hanno sempre fatta rabbrividire personalmente. Mi hanno fatta riflettere su come siamo abituati a pensare alle persone come ad “obiettivi” o a “cose da avere”, accomunando la “scelta” del sesso del figlio – come se fosse possibile – a quella di una caciotta al banco dei formaggi al supermercato.

Un figlio è di per sé una scelta e il genere dello stesso non dovrebbe influire sull’amore dei genitori per la propria creatura. Il loro lavoro dovrebbe, piuttosto, consistere in una vera educazione alla parità, raccontando ai propri pargoli, come fiabe della buonanotte moderne, le storie di Samantha Cristoforetti e Vittorio Gassman, di Steve Jobs e Ruth Bader Ginsburg, ricordando loro che possono essere e diventare tutto ciò che vogliono.

Solo così potremo effettivamente giungere a dare applicazione alle parole di Lucio Battisti, affinché gli uomini e le donne possano guardare al genere femminile come ad amiche ed alleate e non come ostacoli o rivali.

In tal modo finiremo di stupirci di avere o meno donne al Governo o di vederle sedere nei consigli di amministrazione di grandi imprese o nelle aule giudiziarie, da una parte e dall’altra della sbarra.

La parità è un cammino che interessa tutti, certamente. Ma è un cammino che parte, innanzitutto, dalle donne stesse, che devono prendere consapevolezza del fatto che – se vorranno competere alla pari – non potranno contare su scorciatoie o mezze misure e che dovranno imporre ai loro partner le medesime scelte che si trovano a fronteggiare loro.

Recuperare i figli a scuola, fargli fare i compiti, portarli a calcio o a pianoforte, preparare il pranzo, curarsi dei propri parenti anziani non sono “mestieri” prettamente femminili. È dal caso Moritz del 1972 che si chiarisce che tali occupazioni siano – in maniera erronea e discriminatoria – pensate come tipiche del “sesso debole”. Oggi, per fortuna, c’è maggiore attenzione sul punto e le scuole – superiori e non solo – cercano di sconfiggere tali pregiudizi.

Ma non si deve dimenticare che i veri mutamenti della società nascono alla luce di esempi e di esperienze concrete. Per questo sono certa che se in tante famiglie vi fossero state le donne che hanno caratterizzato la mia molte cose sarebbero diverse.

In questo senso, dunque, il ruolo delle donne è non solo fondamentale, ma assolutamente centrale e primario nell’Italia contemporanea. Perché, per dirla con le parole di Oriana Fallaci, “essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse una mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine, avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che urla d’essere ascoltata”.

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