Cos’è il lavoro? Domanda le cui risposte potrebbero essere molteplici. Potremmo semplicemente dire che il lavoro è una generica attività umana. Anche gli hobby lo sono, quindi il lavoro non è solo essere attivi. Il lavoro allora, potremmo dire che è una attività, che può essere sia dipendente che indipendente, che porta alla produzione di un generico valore – economico o no che sia – e che sia retribuito.
Sulla questione della retribuzione, vista la diffusione di tantissimi, troppi stage sottopagati, potremmo dire che sta venendo a mancare sempre un po’. Oggi, che è 1° Maggio, Festa dei Lavoratori, non possiamo esimerci anche noi dal parlare di lavoro. Lavoro è una parola che compare spesso, nella vita quotidiana e nel policy making sia nazionale che no. Il lavoro è la spina dorsale dell’economia di un Paese, ma anche della vita quotidiana.
Il lavoro tende a diventare un po’ l’ossatura di una persona. Tendiamo a considerare le persone per la professione che compiono, o anche per quella che non compiono o che affermano di non compiere. Specie nella società del XXI secolo, nonostante una emergente fluidità nel lavoro in sé e per sé, la moltiplicazione di terminologie descrittive che sembrano lasciare in un vuoto la stessa definizione di un lavoro - cos’è un Data Analyst? Cosa fanno la metà dei consultant su LinkedIn? -, il lavoro in sé per sé continua a essere una sfera rilevante della vita umana. Siamo i nostri orari, i nostri lavori, siamo il nostro tempo libero – ovvero il tempo non occupato dal lavoro.
Eppure, vediamo un po’ cosa succede. Il lavoro è comparso nella maggior parte dei programmi politici delle scorse elezioni. Il lavoro è sembrato essere una priorità degli attori politici nazionali. Nonostante ciò, nonostante gli attori nazionali siano i principali responsabili delle politiche sul lavoro e occupazione, nulla sembra essere cambiato nei mesi della nuova legislatura. L’approccio al mondo del lavoro segue i paradigmi del XX secolo, a fronte di una nuova era che ha sparpagliato le carte in tavola.
Un grande, primo, problema, è legato probabilmente al tipo di mondo lavoro che si è venuto creando. Solo in apparenza, sembrerebbe che il mondo si sia girato completamente sulle materie STEM, quelle appartenenti al mondo delle scienze “dure”, dalla fisica alla chimica passando per informatica e matematica e così via.
L’avanzamento di strumenti di digitalizzazione dell’azione umana, nonché di elevata informatizzazione dei lavori in sé per sé e in quasi ogni singolo ambito dell’azione umana, sembrerebbero supportare questo tipo di riflessione e di approccio. I recenti progressi in ambito di intelligenze artificiali - per quanto non siano così intelligenti - ci spingono a pensare che il lavoro stia finendo, che siamo arrivati all’apocalisse del costrutto lavorativo così come lo conoscevamo.
Già qui, dovremmo prendere un momento di pausa e pensare: per chi, dove, per cosa? Difficile immaginare che il recente ChatGPT, di cui abbiamo parlato anche noi, possa aiutare i bambini sottopagati e sfruttati nei paesi del Sudest asiatico che producono le nostre preziose collezioni di SHEIN [1].
Certamente, per un code writer un assistente come ChatGPT può fare la differenza sui tempi e modalità di utilizzo dei tool che si vuole sfruttare. Certamente, poter accedere in maniera rapida a informazioni tramite altri assistenti virtuali come quelli di Bing o di Google, il recente Bard, spingono sulla possibilità di ridurre il numero di necessaria manodopera per diversi tipi di professione che potrebbero osservare un incremento dell’automatizzazione, non diversamente da quanto avvenuto in alcuni ambiti lavorativi di tipo industriale grazie al progresso dell’industria 3.0 e 4.0.
E questo, possiamo dire, è una preoccupazione non da poco nel momento in cui tanto viene fatto sul lato della formazione individuale, universitaria soprattutto, la cui elevata iper-specializzazione rischia di lasciare quei tipi di soggetti altamente educati ma molto specializzati fuori da un mercato del lavoro che si scopre aver corso più dell’istruzione accademica stessa.
Il progresso tecnologico ha sempre inciso sul mondo del lavoro, ha sempre mescolato e cambiato le carte in tavola in maniera scarsamente prevedibile. La rivoluzione digitale, sotto questo aspetto, non è diversa. Certamente, è diversa l’ampiezza del fenomeno e il suo portato in termini quantitativi e di balzo qualitativo che si potrebbe fare in avanti. Sempre, ricordiamocelo, tenendo l’occhio fisso sulla condizione delle cosiddette nazioni europee e a quel gruppo di mestieri e mestieranti che si ritrovano coinvolti nel nuovo flusso tecnologico.
Davanti un mondo del lavoro che cambia, è indubbio che le reazioni di policy fanno la fondamentale differenza. Non è un fenomeno che si può lasciare banalmente correre, o a cui rispondere con politiche banali e affermazioni talmente idiotiche da rasentare la parodia, come quelle dell’attuale Ministro Lollobrigida, legate a vecchie concezioni tanto del mondo del lavoro che dell’agricoltura, nello specifico.
Il 1° Maggio è quindi un giorno che, all’ombra degli assistenti virtuali, dei prodigi della tecnica e della tecnologia, ci deve ricordare comunque il ruolo importante che ha il concetto e il lavoro stesso all’interno della società contemporanea. Viviamo in un mondo di iper-competizione in cui, contemporaneamente, abbiamo iniziato a dare possibilità minori e lavori peggiori ad ultra-qualificati individui. In un mondo simile, come si poteva non sospettare un aumento di stress, ansia, problemi psicologici e tutto ciò che ne consegue, lieve o più grave che sia?
Il 1° Maggio può essere occasione di riflessione su questo, riflessione su cosa voglia dire in Italia e in Europa lavorare, ma lavorare meglio e bene, per appagare sé stessi, anche la propria comunità, e per vivere – e non per essere solo il proprio lavoro come sempre di più si finisce per diventare in assenza di qualsiasi altra possibilità.
L’assenza della politica dalla discussione è inquietante, e una mancanza che le società contemporanee soffriranno in futuro. Discussioni come quella della settimana lavorativa da 4 giorni, o anche decisioni come quelle di costringere le aziende a pubblicare i salari negli annunci di lavoro, sono simboliche di una riflessione in corso tra operatori pubblici e privati su come adattare il mercato del lavoro alle nuove generazioni, ma sono passi e non sono forme definitive di azione pubblica capaci di reagire alle contemporanee tendenze.
Un primo passo deve essere fatto su scala europea per contrastare la politica dell’ultra-competizione che si va insinuando nella società. Si parla di ultra-competizione perché non è ideale parlare della competizione tour court come un problema. La competizione, quella sana, può stimolare un senso di sfida e di progresso. A patto però di concedere il lusso ai giovani, e non solo, di perdere e di vivere sereni anche con sconfitte – se di sconfitte possiamo parlare.
Combattere l’ultra-competizione non è il solo necessario tassello d’azione. C’è anche un profondo ragionamento che va compiuto sul lato antecedente il lavoro in sé per sé, che riguarda la scuola. L’educazione non può, e non deve essere, una semplice via di accesso ai più diversi posti di lavoro. Fare il liceo classico non vuol dire non poter aprirsi una libreria o lavorare come meccanico appena dopo. Fare un istituto tecnico non preclude una carriera futura come professore di lettere classiche. In nessun caso, fare un qualsiasi tipo di liceo superiore dovrebbe diventare una strada granitica verso un futuro che, forse, a 13-14 anni non è neanche realizzato nella mente di un* ragazz* in piena esplorazione del suo personale senso di esistenza.
Sperimentazioni, sempre più diffuse, come quelle dei partneriati tra regioni, istituti e aziende sotto forma di IFTS, sono strumenti utili anche a reagire a una imprenditoria che certamente cerca e richiede competenze specifiche. Nessuno, degli stakeholder in campo, ha nella realtà torto. Gli eccessi, al contrario - tanto da un lato quanto dall’altro - tendono a distruggere un sistema che fa dell’equilibrio la chiave per il successo, equilibrio tra quello di cui c’è bisogno e le naturali aspirazioni degli esseri umani ad essere quello che si vuole.
Anche la trasformazione dell’università nella fiera dell’utile e del dovuto al mondo economico sta diventando una tendenza sempre più dannosa per la crescita culturale degli studenti e la qualità dell’accademia in sé per sé.
Questa digressione sul mondo pre-lavoro è essenziale, perché non si può pensare a un equilibrato e sano mondo del lavoro, senza considerare un equilibrato e sano mondo dell’educazione. Non potremo avere lavoratori sani senza una educazione a sua volta sana e volta a stimolare gli individui, a concedergli delle capacità pratiche – dove necessarie – per lavori che spaziano in tutti e tre i settori. Al contempo, ciò non basta. Una società giusta è quella in cui il lavoro è giusto ed è equilibrato. Un lavoro in cui uomini e donne, ancora oggi pagati in maniera diseguale, siano invece sul medesimo piano economico. Non meno rilevante, la presenza di congedi di paternità, maternità, la possibilità di rendere più flessibili gli orari di lavoro per andare incontro alle naturali necessità umane in un mondo in cui sempre meno lavori hanno bisogno di tempi costanti come nel capitalismo fordista e post-fordista, dovrebbero essere passaggi da tenere in considerazione nella trasformazione del mondo del lavoro.
Parafrasando “Il Gattopardo”, tutto deve cambiare perché solo qualcosa cambi. Il lavoro rimarrà, ma lo farà con forme nuove. In questo 1° Maggio all’ombra di ChatGPT e delle IA, della tecnologia rampante, delle abnormi differenze tra i salari dei top manager e quelli dei dipendenti, non possiamo non pensare che vi sia bisogno, in Europa, una radicale trasformazione del concetto di lavoro stesso.
Non bastano vaghe promesse di settimane corte, né politiche pensionistiche alla francese, su cui, comunque, visto l’invecchiamento della popolazione, bisognerà pur riflettere. C’è bisogno di cambiare la concezione che abbiamo del lavoro stesso, radicalmente. I lavori 9-17 potrebbero scomparire, e mai più tornare. Parlare con un cassiere al supermercato potrebbe essere cosa del passato, così come anche parlare con un tassista umano durante la traversata Fiumicino-Piazza Venezia.
L’automazione cambierà lentamente, e a volte in maniera del tutto radicale, il nostro approccio del mondo. Le attività umane dovranno parallelamente evolversi, adeguarsi davanti la scomparsa dei mestieri, non la prima volta che succede nella storia della specie umana. La scala, in questo caso, è molto più ampia, e ci sono fattori da considerare come le trasformazioni non repentine in altri sistemi economici e continentali.
Il 1° Maggio è una festa nata in un’epoca diversa, che però rimane un faro per ricordarci di riflettere fondamentale sul lavoro, sul diritto delle persone a vivere con il proprio lavoro - non per esso - e di difendere i diritti dei lavoratori tutti, anche in un’epoca in cui apparentemente dell’uomo nel lavoro sembrerebbe poter fare a meno.
Forse, in un prossimo futuro, faremo a meno dell’uomo nel lavoro, e il lavoro sarà una azione astratta che sosterrà una razza creativa, diversa. O forse ci ritroveremo ad affrontare lavori che oggi nemmeno immaginiamo, ma sicuramente, per ora, dovremo solo affrontare un grande periodo di transizione in cui sarà necessario da un lato fare in modo che i lavoratori stessi possano godere dei frutti del loro lavoro – equo, ben pagato, rispettato – mentre il mondo naturalmente transita in una nuova era.
Abbiamo sia le competenze che la tecnologia per garantire una just transition, e non è impensabile strutturare l’azione pubblica in maniera tale da affrontarla in tal senso.
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