Un salto, quello di Canberra, che ha portato il presidente francese Macron a ritirare i propri ambasciatori dalle nazioni coinvolte, a rinvangare più volte la necessità di una difesa europea, a rilanciare un nuovo posizionamento militare che sia complementare ma non dipendente dal più grande ombrello della NATO. Parole, quelle di Macron, che non suonano nuove, e che pure appaiono particolarmente ironiche se poi, proprio nel Mediterraneo, continua spietata la concorrenza, ad esempio, tra Italia e Francia per i contratti in ambito navale, aeronautico e non solo. Il recente salto della Grecia da Fincantieri a quelli francesi per l’ammodernamento della flotta – e anche l’aggiornamento del comparto aereo con i vecchi Rafale francesi – dimostra come a parole l’europeismo di Macron prenda la scia di progetti nuovi e vecchi, ma nei fatti la Francia continua con una propria geopolitica nel Mediterraneo sia meridionale che orientale, orientata ancora ai vecchi schemi che sanno di grandeur post-seconda guerra mondiale e che finiscono per cozzare con la realtà dei fatti.
Il Sahel, non si smetterà mai di dirlo, ha messo bene in luce come la politica estera delle singole nazioni europee rischi di confrontarsi alla fine con sfide che risultano troppo ardue, al punto da dover richiedere il supporto da un lato degli Stati Uniti – specie in ambito di utilizzo droni e di rifornimento a lunga distanza – che di altre forze europee, come in Barkhane prima e in Eclipse dopo.
Certamente, l’Unione e i suoi membri stanno notando sempre di più che lo scudo americano, ancora essenziale vista la disparità di mezzi e budget messi in campo dagli USA, non rimarrà per sempre al suo posto. Se un tempo l’Europa era un pezzo essenziale delle scacchiere globali, in particolare nella sfida tra i due blocchi, ora che il mondo multipolare prende forma sempre di più su una scala globale, gli USA non possono permettersi la stessa attenzione di un tempo tutta su un medesimo continente. Troppo grande è lo spazio che devono coprire, il loro primato è messo perennemente in discussione da Russia e soprattutto dalla Cina, le cui manovre di hard e soft-power nel Pacifico preoccupano Washington, soprattutto preoccupano Taiwan e il Giappone, che necessitano di rassicurazioni continue – e spesso vuol dire spendere milioni per muovere le navi fino all’altro capo del Pacifico stesso.
I 27 stati membri, orfani della Gran Bretagna, si ritrovano in una posizione di svantaggio rispetto al prossimo futuro. La disorganizzazione degli apparati industriali e di sviluppo è palese. Già ora danneggia il presente delle forze europee, ma in futuro potrebbe diventare un handicap ancora più grave. Il confronto è impietoso, ad esempio, se si pensa alle risorse che stanno venendo dispiegate e sprecate per lo sviluppo dei futuri caccia di VI generazione FCAS e Tempest, in parallelo, quando tanto i russi, che i cinesi e gli americani stanno concentrando i loro sforzi su un solo progetto, pur disponendo di risorse molto più ampie degli stati membri presi singolarmente.
I nuovi caccia sono uno dei tanti esempi a disposizione. Le piattaforme militari europee sono tante, variegate, spesso incompatibili tra di loro, sviluppati in contesti geopolitici vari e spesso con budget non sufficienti a renderli dei progetti realmente competitivi tra di loro. I tentativi fatti con la PESCO e con CARD si sono mossi spesso su una maggiore razionalizzazione delle risorse, visto gli scopi spesso condivisi dei progetti diverse nazioni.
Il problema europeo è, essenzialmente, di una divisione di intenti e mezzi che rende impossibile pensare a lungo termine. Secondo i dati della World Bank, complessivamente i paesi europei nel 2020 hanno spesso circa 232 miliardi di dollari, contro i 252 dei cinesi e i più di 700 invece americani.
Trenta in meno dei cinesi, ma una sostanziale differenza a livello tanto di prospettive future sia di organizzazione, la era differenza tra la capacità cinese di proiettarsi globalmente e quella che possiamo definire come invece l’incapacità europea di proiettarsi, militarmente e politicamente, poco fuori i propri bacini di carenaggio.
Il vero problema europeo, alla luce di quanto successo in Australia e recentemente in Grecia, sembra essere l’incapacità europea di proiettarsi nel futuro in maniera sistematica. Progetti confliggenti e spreco di risorse sembrano essere già sotto l’occhio della commissione e della sua nuova DF DEFIS, che mirerebbe a rendere il processo di sviluppo di nuove tecnologie e tecniche omogeneo grazie ai fondi proprio dell’UE nel settennale 2021-2027. Certo, un piccolo passo se si pensa all’esiguità dei fondi – si parla di meno di 18 miliardi di euro – specie se comparati ai budget comuni degli stati membri.
Ancora, il solo sviluppo di nuove capacità è solo uno dei numerosi passi possibili. Per quanto l’operato dell’UE in ambiti non sempre coperti dalle nazioni stesse, come il campo cyber, tutti i tradizionali domini della guerra – quali cielo, mare e terra – posseggono ancora una loro rilevanza che conflitti come la Siria, l’Ucraina o lo Yemen hanno messo perfettamente in luce.
Ma non basta creare una DG per farlo, né basterebbe tantomeno unificare i budget di tutti gli stati membri. Manca una chiara direzione di cosa fare con il budget, la tecnologia, lo sviluppo di nuove soluzioni. Le parole di Macron sembrerebbero, in apparenza, essere un primo passo su una buona strada. Solo che, allo stato attuale, la Francia non è stata pronta a mettere da parte i suoi interessi nazionali – né, tantomeno, lo sono state molte altre nazioni come l’Italia – e né il processo potrebbe essere immediato come molti spererebbero. L’ombrello NATO, americano per l’esattezza, rimane ancora oggi uno degli strumenti migliori a disposizione della difesa delle nazioni europee, per quanto le storture e le fratture interne allo stesso Patto Atlantico – come quella greca-turca – sono ben chiare sulla scena internazionale.
Né, tantomeno, si potrà mai parlare di una attiva difesa in mancanza di organismi politici capaci di darvi obiettivi e una relazione chiara, cosa che nessuna nazione europea potrà mai fare individualmente. Per quanto le parole del presidente francese siano state di sospinto europeismo, se non quasi federalismo, il loro impatto è chiaro: mettere pressione sugli Stati Uniti, di per sé già sotto scacco dopo la fallimentare operazione di evacuazione dell’Afghanistan. Mettere pressione e soprattutto non farsi mettere all’angolo, come invece è successo in Australia e nel Pacifico. Nonostante ciò, forse i mezzi delle forze francesi – e il Sahel lo ha dimostrato – non sono sufficienti a reggere le aspirazioni politiche sottointese. Può l’Unione nel suo insieme esserlo? Anche questo è difficile da dire. I numeri, e le possibilità, esistono. Tentativi come i progetti PESCO orientano l’industria e gli sforzi per nuovi sviluppi in ambito della difesa su progetti che coinvolgono più partner europei. Resterà, caso isolato ma non troppo, il successo delle corvette europee, ma anche altri progetti della PESCO hanno dimostrato la potenzialità del miscelare i diversi expertise, fondi e competenze di diversi stati-membro.
Certamente, un singolo progetto non dimostra l’efficacia dell’intero programma, soprattutto perché senza una visione a lungo termine, questi rischiano di rimanere semplicemente degli esemplari casi di successo, ma isolati. La differenza principale con la Cina non è tanto quanto si investe in difesa, ma come si investe. Le singole nazioni europee non dispongono delle risorse né per reggere la competizione né tantomeno per mantenere una strategia a lungo termine, cosa che ad ora nemmeno l’Unione riesce a garantire.
Le parole di Macron, non accompagnate da fatti reali – che si profilano all’orizzonte e che bisognerà tenere sotto attenta osservazione – rimangono solo parole. Certamente, ad oggi, la Francia continua a giocare tenendo cara la sua politica estera stretta nelle proprie mani, con tutte le dovute conseguenze. Difficile immaginare un seguito alle parole del presidente francese senza anche una seria revisione sia delle priorità in ambito estero che industriale. Per ora, il futuro dell’Unione rimane ancorato a ciò che le singole nazioni decideranno di fare nel prossimo futuro.
Perché si possa cominciare seriamente a parlare di difesa comune all’interno dell’Unione Europea c’è bisogno, in sintesi, principalmente di: progettare a lungo termine l’ammodernamento dei mezzi e degli strumenti a disposizione degli eserciti europei perché siano comuni tra i 27 stati membri e condivisi; spingere i budget della difesa a convergere sotto un unico tetto che possa garantire un miglio rapporto costi-benefici sia in quanto a sviluppo che mantenimento delle attuali capacità operative; intervenire, tramite i budget propri dell’UE, in quei campi che sono il futuro dei conflitti - soprattutto, droni e le loro capacità autonome e l’ambito cyber.
Non solo servirebbe però che tali competenze siano sotto la guida di un organo come la DG DEFIS, europea e non all’unanimità, ma anche che vi siano progetti politici di più ampio respiro e non solo di mera sopravvivenza-resistenza ai disastri e alle emergenze che via via esplodono nelle aree circostanti l’Unione. Fino a che, anche in ambito estero, l’Unione sarà vista come l’ultima sponda per resistere a urti irrefrenabili, le parole di Macron - così come anche qualsiasi progetto qui descritto - resteranno solo belle parole.
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