Quattro anni senza Giulio: la battaglia politica è la migliore commemorazione

, di Francesco Iury Forte

Quattro anni senza Giulio: la battaglia politica è la migliore commemorazione

Alle 19,41 del 25 gennaio 2016 il cellulare di Giulio Regeni, ventottenne dottorando di ricerca dell’Università di Cambridge, ha inviato per l’ultima volta un sms, alla sua fidanzata in Ucraina, prima di sparire nel nulla, come se non fosse mai esistito, in un modo che ci appare tanto impossibile quanto insensato. Quattro anni fa Giulio Regeni è stato rapito al Cairo, dove stava svolgendo una ricerca assegnatagli dalla sua tutor. Il corpo fu ritrovato il 3 febbraio successivo, massacrato, con evidenti segni di tortura, in un fossato lungo un’autostrada, non lontano da un luogo che si suppone essere una prigione utilizzata dai servizi segreti egiziani.

Regeni era un dottorando dell’Università di Cambridge e stava svolgendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto, sulla loro difficile situazione e limitata capacità di azione, a causa della repressione che il regime egiziano di Al-Sisi, instaurato in seguito alla rivoluzione del 2011, esercita su di loro. Dopo il ritrovamento, la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta (tuttora in corso) ma, malgrado il loro impegno costante, i magistrati italiani che indagano sull’accaduto si sono scontrati contro un muro di gomma eretto dal governo di Al-Sisi, che ha cercato di depistare l’inchiesta con ogni mezzo, tra cui l’esecuzione di cinque innocenti, falsamente accusati di essere gli autori dell’omicidio, per impedire l’accertamento della verità e l’affermarsi della giustizia. Non è stato possibile infatti collegare con certezza i servizi egiziani all’accaduto, ipotesi tuttavia più che plausibile sia per l’atteggiamento del governo egiziano, che nega anche la possibilità di verificare il rispetto dei diritti umani nelle carceri, che per la delicatezza della ricerca di Regeni, che metteva potenzialmente in luce gli abusi del regime.

Le autorità egiziane hanno fornito da subito una scarsissima collaborazione, negando finanche l’accesso alle prove agli inquirenti italiani. Il governo italiano decise quindi di ritirare l’ambasciatore Maurizio Massari dall’Egitto, ma l’azione diplomatica non sembra aver ottenuto alcunché: nell’agosto del 2017, viste l’assenza di risultati e la “ragion di stato” dovuta al complesso di rapporti economici con l’Egitto, il governo Gentiloni si vide costretto a inviare nuovamente l’ambasciatore al Cairo, rinunciando così ad utilizzare strumenti diplomatici diretti nella querelle. In questo scenario, anche l’Università di Cambridge è stata sovente accusata di scarsa collaborazione con i magistrati italiani, poiché la docente di riferimento di Regeni non ha mai completamente chiarito i confini della ricerca che aveva assegnato al suo dottorando né quali misure siano state attuate dall’Università britannica a tutela del ricercatore che era stato inviato in un contesto evidentemente pericoloso.

Giova a questo punto ricordare che Giulio Regeni era un cittadino europeo, oltre che italiano. Che era un ricercatore come migliaia di nostri connazionali spinto a cercare fortuna nelle università europee dalla carenza di finanziamenti alla ricerca e alle barriere all’ingresso di cui la nostra accademia soffre: ognuno di noi si può rivedere in Giulio o conosce persone che svolgono attività di ricerca ai quattro angoli del globo, spesso con risorse e retribuzioni insufficienti.

l’Italia non ha avuto alcun supporto da altri paesi europei nell’affrontare il problema: è emblematica in questo senso la dichiarazione dell’allora presidente francese François Hollande, che, durante un viaggio ufficiale al Cairo, aveva sì evocato la questione dei diritti umani in Egitto, ed in particolare il caso Regeni, ma precisando immediatamente che la «relazione speciale», economica e militare, tra Francia ed Egitto, non sarebbe stata messa in alcun modo in discussione.

L’Unione Europea si è dimostrata incapace di attivarsi per far chiarezza sulla morte di un proprio cittadino ed ancora una volta priva di una politica estera e diplomatica in grado di far valere la questione dei diritti umani nel mondo. Questa tragedia dimostra quanto l’incapacità di agire con un’unica voce danneggi in primis gli stessi cittadini europei, rendendo l’Unione succube dei singoli interessi nazionali, talvolta tra loro in contrasto, e non in grado perciò di affermarsi con una voce unitaria che potrebbe essere ben più autorevole ed efficace di quanto possa esserlo quella di un solo paese. Le istituzioni dell’Unione, molto spesso, non solo non riescono ad affermare i valori e i diritti che fondano l’Europa e che dovrebbero essere ispiratori per il mondo intero, ma neanche a difendere i propri cittadini ed interessi strategici.

Noi della Gioventù Federalista Europea abbiamo quindi ritenuto di aderire alle manifestazioni che in tutta Europa si terranno il 25 gennaio ed all’appello degli amici di Europa Now! proprio per lanciare questo messaggio politico: l’Unione può e deve fare meglio di così e dotarsi degli strumenti propri di una federazione di stati che parli con una sola voce al mondo, una voce che sia in grado di affermare i diritti umani e quelli dei propri cittadini.

Ogni anno, da 4 anni, alle 19,41 del 25 gennaio il freddo è pungente: non solo per il clima rigido che solitamente accompagna la commemorazione in strada che in tantissime città si svolge grazie all’opera di Amnesty International, ma anche perché ognuno di noi sente dentro di sé il gelido ricordo di una giovane vita brutalmente spezzata: il modo migliore per ricordare Giulio e commemorare la sua prematura scomparsa è lottare perché in futuro ci sia un potere europeo in grado di tutelare i diritti umani dei cittadini ovunque siano nel mondo e di ristabilire la verità e la giustizia quando ciò sia necessario.

Fonte immagine: Amnesty International.

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