La grande integrazione che già ora i paesi dell’Unione vivono quotidianamente ha visto quindi le istituzioni europee dover lavorare in sintonia con i governi nel combattere la pandemia, la diffusione del virus ma soprattutto il mix di conseguenze sociali, economiche e politiche che hanno ovviamente fatto eco alla malattia. Lo abbiamo trattato più volte, qui su Eurobull ma nel discorso pubblico in generale. La crisi ha messo in luce, come precedentemente nella crisi finanziaria del 2008, i limiti dell’attuale costrutto europeo. Né confederazione, né federazione, né semplice unione, l’attuale assetto europeo è un miscuglio dovuto all’evoluzione, particolare, che ha subito il processo di integrazione europeo, che non ha mai visto il suo completo compimento politico.
La crisi ha quindi messo in luce i limiti attuali, ma anche aperto la via alla discussione sul passo ulteriore che le nazioni e le popolazioni europee devono fare. C’è chi ha continuato a gridare che ci sia bisogno di più potere agli stati, di limitare il potere di Bruxelles e delle sue sedi; c’è chi, al contrario, afferma che i passi in avanti debbano muoversi verso quell’assetto federale scritto da Spinelli, Rossi e tutti coloro che hanno fin dall’inizio visto nell’Europa la base per una futura federazione europea, finanche mondiale.
Qui ci attestiamo esattamente su questa seconda posizione, è meglio che ciò sia palese. L’inizio del nuovo anno è l’occasione per tracciare la linea del futuro e del tirare le somme di quanto successo. La crisi sanitaria globale ha messo in luce storture e debolezze della struttura comunitaria attuale. Efficace, una volta messasi in moto, ma terribilmente lenta nell’accendere i motori. Una struttura, inoltre, che possiede plance di comando che sembrano essere incapaci di prendere direzioni univoche a causa di differenze di opinioni, visioni politiche, di istinti nazionalisti sprezzanti del rischio e rinchiusi nella propria stretta visione del mondo come un insieme di nazioni a sé stanti, autonome, libere, e come si è visto, terribilmente inefficienti nell’affrontare una minaccia che supera i confini e che non tiene conto di visti e passaporti, etnia e colore della pelle. La sfida proposta è stata, possiamo dire obbligatoriamente, accolta dalle istituzioni europee. Recovery Funds, insieme a Next Generation EU, ma anche contemporaneamente una comune strategia per le vaccinazioni, una comune strategia di contenimento, un sostegno nel prendersi cura dei malati e nello scambiarsi know-how, medicinali ed equipaggiamenti. L’Unione, seppur con i suoi tempi, è riuscita nella sua funzione di coordinare e guidare gli sforzi, eppure, non si può dire che si sia fatto abbastanza. Troppo, troppo è stato lasciato in mano ai singoli stati, in balia di eventi e di decisioni le cui conseguenze non son sempre state visibili a prima vista.
Quello che sicuramente abbiamo compreso è che non solo c’è bisogno di Europa, ma c’è piuttosto bisogno di più Europa, nel senso più federale del termine. Sfide come quella del COVID ritorneranno, in altre forme. Abbiamo già le avvisaglie, sempre più presenti, della futura sfida ambientale. Non casualmente già in NGEU si trovano disposizioni atte a facilitare la famosa transizione verde. Una transizione non facile per sistemi industriali e dei servizi come quelli europei, ma necessaria. Una sfida, anche questa, che si può vincere con uno stato europeo, non semplicemente con una unione di stati slegati tra di loro. La crisi politica che si sta vivendo ai confini del Vecchio Mondo, in Medio Oriente e in Nord Africa, ma anche in Europa dell’Est, in Sahel, nella stessa Europa, non può essere affrontata pensando alla nazione come entità a sé stante, isolata, capace di vivere e prosperare. Non perché questo non sia possibile, ma perché la stessa nazione, lo stesso concetto di nazione, di questi confini dentro cui c’è l’amico e oltre cui c’è, se non il nemico, il rivale, è la chiave stessa che apre la porta del problema. Vivere e affrontare le crisi come stati-nazioni non solo porta a soluzioni spesso solo a breve termine, ma acuisce la competizione e spesso le crisi stesse. Semplicemente, le nazioni sono la base della crisi stessa. Non che la futura Federazione ne sarà esente. L’utopia non ci è ancora concessa. Ma sappiamo già dove lo schema del Novecento porta. Sappiamo già qual è il termine del filo. Come lo stato nazione ha rotto con il sistema precedente, superandone le crisi e le problematiche, risolvendole e creandone di nuove, così la Federazione diventa risposta ai problemi che abbiamo ora, probabilmente creatrice di nuove sfide ma anche di nuove soluzioni.
Ma, alla fine, che tipo di stato si vorrà nel futuro? Che tipo di Europa si vuole disegnare? Abbiamo in precedenza visto esempi di come creare l’Europa del futuro, secondo quale cornice ideologica. Alcuni hanno visto la Federazione come il possibile baluardo del neoliberismo, del privato anzitutto. Guardando a quanto successo, una delle prime cose che verrebbe in mente è che ci sia piuttosto una falla nel sistema ordo-capitalista contemporaneo. La produzione non solo di massa ma perenne, continua, che ha bisogno di un continuo consumo non è né sostenibile a livello ambientale né a livello socioeconomico. La crisi pandemica ha messo in luce come questo attuale sistema di produzione e consumo non sia, in maniera indipendente, capace di difendersi da shock estremi ma che ci sia bisogno sempre di una mano, non tanto invisibile per dirla alla Smith, che possa aiutare a integrare perdite e rischi, mentre poi i profitti e i vantaggi vengono equamente distribuiti tra gli investitori. Un sistema come questo, che ha arricchito globalmente la società contemporanea che definiamo come occidentalee che sta cominciando ad avere i suoi effetti anche in Cina, non è però né equo né, come già detto, sostenibile a lungo termine. Le disparità create non possono essere dimenticate e messe sotto il tappetto in nome del generale progresso e sviluppo, di un incremento del PIL complessivo.
C’è bisogno di un rinnovamento, che riveda al centro la politica, intesa non semplicemente come classe politica, o come élite. Politica intesa come un processo decisionale che rimetta al centro le persone come cittadini attivi, rappresentati nelle istituzioni ma pur sempre, di fatto, pilastro basilare del sistema democratico.
Non che ciò voglia essere un inno all’economia di stato. È indubbio però che, se da un lato vi siano settori il cui essere privati garantisce una maggiore efficienza, da un lato vi siano settori come quello della salute che devono saldamente rimanere pubblici affinché svolgano la loro ragion d’essere, che non è, e assolutamente non deve essere, il profitto.
D’altro canto, è evidente che ci sia bisogno di un nuovo modo di consumare, di produrre, in una maniera che sia sostenibile sia a livello generazionale che ambientale. Questo richiede già ora e richiederà in futuro ancora di più, massicci investimenti da parte del settore pubblico, in modo coordinato, organizzato, pianificato. Investire non tanto per un generico rilancio dei consumi, ma con in mente un preciso orizzonte, temporale e ideale, da raggiungere.
Perfino le città, come è stato visto, hanno bisogno di una loro ristrutturazione. Le megalopoli grigie, in cui i servizi sono diffusi e divisi tra gli spazi non possono essere il futuro. La città dei venti minuti è ciò che molti architetti e pianificatori urbani si stanno auspicando. Anche questo necessita però di un lavoro fuori la portata delle nazioni europee, che rimane ad ora il nostro campo di analisi.
Se c’è qualcosa che potrà farsi campione del cambiamento necessario, di questi passi in avanti nel settore dell’urbanistica, della mobilità, di consumo e produzione, questa è l’Europea. È l’Europa perché non solo come organo nuovo il futuro è di fatto il campo in cui opera. Non un organo conservatore, come gli stati, tesi al mantenimento puro dei loro status quo e dei lenti cambiamenti non rivoluzionari, ma piuttosto una organizzazione nuova, che ha bisogno del futuro come sua stessa base dell’azione. Disegnare il futuro però non vuol dire semplicemente riconoscere che vi sia l’esistenza di un futuro. L’Unione, nella sua futura evoluzione verso la Federazione - un passo necessario più che mai a conti fatti, specie dinanzi crisi ambientali, sanitarie e finanche politiche nella sua perenne sfida con entità esterne come la Cina, la Russia o gli stessi Stati Uniti – deve fare i conti con come si vuole immaginare. Si vuole immaginare come un caposaldo del neoliberismo, nella sua pratica più dura e cruda? O vuole piuttosto riuscire a disegnare i contorni di una realtà diversa, che possa in qualche modo diventare una rivoluzione, pacifica, verso un mondo più inclusivo, sostenibile, equo?
Si vuole propendere per il secondo caso. Politiche di stampo keynesiano, il controllo di quei settori dove il profitto non può fare da chiave di volta (e viene subito da pensare al sistema sanitario, ma anche al mondo della difesa e della sicurezza), nonché la capacità di guardare a lungo termine al futuro, in termini di sviluppo ma anche di una guida dello sviluppo in chiave che sia equamente sostenibile dalla generazione presente e da quelle future, sono tratti che devono essere tracciati qui ed ora, come in parte si sta facendo con Next Generation EU, ma che devono diventare scritte nella pietra, non nella sabbia.
Devono diventare dei capisaldi dell’azione perché non è possibile immaginare una Federazione Europea come una mera entità politica. È, dovrà essere, più di questo, esattamente come nel XVIII secolo le Tredici Colonie hanno disegnato il prototipo di lotta per la libertà e per i diritti. Al di là di ciò che gli Stati Uniti hanno poi fatto nel corso della loro storia come entità statuaria, è innegabile che la loro nascita ha sancito un divario storico, insieme alla Rivoluzione Francese. L’unione degli stati europei, con tutte le loro differenze ideologiche, politiche, sociali, economiche, la loro varietà perfino climatica, non può che essere visto come una pietra miliare della storia, e proprio per questo bisogna fare di tale pietra miliare un simbolo che possa essere, nel corso del tempo, al di là della semplice cultura europea, come l’opportunità di fare qualcosa di più.
Non che si possa ovviamente creare dall’oggi al domani. Non che improvvisamente, in seduta plenaria, i governi europei lasceranno le redini delle loro nazioni. Mancano dei passi, che devono essere fatti, a livello sia economico che politico affinché si possa parlare di una vera e propria struttura federale. Questi passi, di cui i federalisti in particolare hanno già parlato ampiamente, non saranno privi di ideologia e quello che si vuole qui dire è che proprio tale spinta, anche ideologica, dovrà riuscire a essere incanalata in dei binari chiari.
L’economia non può essere considerata un mondo a sé stante. La politica non può essere più un paravento per l’azione economica. La società non può essere deresponsabilizzata del suo ruolo come base del sistema democratico, reale, né tanto meno della necessità che essa sia informata, capace di prendere decisioni che siano non diciamo razionali, impossibile, ma il più vicino possibili a un prototipo di razionalità limitata. C’è, bisogno, insomma di far propri i principi già espressi dagli Illuministi francesi duecentocinquanta anni fa, ma integrandoli in un mondo che non è più eurocentrico, ma in cui l’Europa è solo un pezzo, fondamentale certamente, ma pur sempre solo un pezzo di un puzzle multicolore, multietnico, che ha spostato la sua dimensione chiave al di là del Vecchio Mondo.
I passi in avanti nel 2020 si son fatti. La mutualizzazione comune di parte del debito ne è un esempio. Ne sono esempi abbondanti Next Generation e il suo Recovery Funds, ne sono elementi comuni dichiarazioni anche di politica estera prese dal Parlamento Europeo, quell’unico organo davvero eletto dai suoi cittadini, davvero espressione democratica di una volontà popolare europea. Non basta. Questo è sicuro, e lo si vuole scrivere bianco su nero. Le nazioni europee, e l’Unione stessa, portano con sé un pesante bagaglio con cui bisogna fare i conti. La loro storia, che viene vista come una ricchezza, è in parte anche un fardello ricco di errori, come il colonialismo tristemente ci insegna. Farne i conti, e riuscire ad affrontare questo passato guardando al futuro, sarà altrettanto necessario. Viene subito in mente, ad esempio, che non sarà possibile e non bisognerà guardare all’Africa come un continente vuoto da sfruttare, ma come una controparte con cui cooperare, non da sfruttare. Oltre a tale bagaglio certamente rilevante, sarà necessario affrontare lo stesso rapporto degli europei con le istituzioni europee. I recenti sondaggi hanno visto alcuni drastici cali nel rapporto di fiducia tra i cittadini e l’Unione. Colpa certo di alcuni movimenti politici che, dal loro estremismo, cercando di scaricare le colpe sulle istituzioni di Bruxelles e di arricchirsi delle loro vittorie. Anche colpa però di istituzioni troppo spesso incapaci di aprirsi al processo di trasparenza democratica e di reagire in maniera omogenea, per loro stessa natura, alle sfide. Incapaci di restare ancorate ai loro stessi valori, scritti e sanciti negli accordi fondativi. Una ambivalenza in parte imperdonabile, che potrà essere superata solo nel momento che quegli attori politici che si approfittano dell’Unione saranno costretti a giocare in essa come giocherebbero in un ambiente politico nazionale. Solo spezzando questo perverso meccanismo che permette di prendere il meglio dall’Unione e di scaricarle ogni colpa e responsabilità, si potrà compiere un ulteriore passo in avanti. Ultimo, ma non davvero ultimo, Bruxelles non può diventare una voce fuori campo che viene poi ignorata dalle stesse nazioni europee. La politica estera, e questo sarà più che mai fondamentale ora che la Cina si sta assestando come davvero nuova superpotenza globale, non può essere affidata a singole nazioni che hanno già in passato sbagliato e che continuano a essere incapaci, per colpa o per incapacità, di costruire e tessere dei rapporti che non siano sempre su una base dominio-dominato. Ha funzionato questo meccanismo nell’Ottocento e per quanto molti potrebbero dire che è quel meccanismo che è sempre stato incardinato nella natura, hobbesiana, delle relazioni umane, è arrivato il momento di sradicare. Una bestemmia, sicuro, per i principali studiosi di geopolitica, ma una bestemmia che è necessario dire. Non succederà ora, ma dovrà succedere se semplicemente vorremo superare i soliti problemi che affliggono il modello geopolitico contemporaneo. Ci sarà bisogno di re-immaginare il futuro, se vogliamo sperare di averlo un futuro.
I danni ambientali sempre meno reversibili, gli scontri etnici e politici, il sovrappopolamento, l’esiguità sempre maggiore delle risorse, stanno conducendo il pianeta sul baratro, inutile girarvi intorno e inutile sperare in una salvezza all’ultimo per un qualche miracolo scientifico. La scienza, senza indirizzo politico, è come una bellissima supercarsenza volante. Le generazioni passate, rialzatesi dagli orrori del Secondo conflitto mondiale, si sono adagiate sugli allori di un sistema che sembrava, comunque, poter funzionare. Questo sistema non funziona. La Federazione Europea può rappresentare un modo per affrontare le storture di questo sistema malfunzionante, del meccanismo inceppato. Certo, ci sono anche altri modi di affrontarli, altri che si rifanno alla tradizione dello stato nazionale, che si rifanno ai vecchi meccanismi. Abbiamo visto dove conducono e forse, oggi, è il momento di provare a cambiare davvero le cose.
Buon inizio degli anni ’20 a tutti, sperando (concedeteci una battuta nerd) che il 2020 non fosse l’inizio e la fine di un loop di Dark. Speriamo di essere all’ultimo ciclo, e di poter andare avanti, ovunque questo avanti voglia dire.
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