Nuovi capri espiatori di turno, i laburisti hanno dovuto fare i conti con il malcontento nelle elezioni locali di maggio, stravinte dagli euroscettici di Reform. Con il 6% solamente dei seggi alle amministrative, dopo solo un anno di legislatura a livello nazionale, il partito di Starmer sembra vecchio, stanco, e nonostante abbia la maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, paralizzato in ogni intento di riforma. I riflettori, dal 2 luglio, sono in particolare puntati sulla Cancelliera allo Scacchiere, Rachel Reeves, scoppiata in lacrime durante una seduta della Camera dei Comuni. La sua legge di austerità, che mirava ad un taglio di cinque miliardi di sterline allo stato sociale britannico, è stata duramente ridimensionata da deputati del suo stesso partito, che precedentemente avevano perfino proposto un emendamento per affossare la riforma.
Pochi mesi prima, a maggio, il governo aveva fatto retromarcia sul taglio dei sussidi invernali ai pensionati, ripristinandoli. Il 3 luglio 2025, invece, un giorno dopo la fronda in parlamento contro Rachel Reeves, il governo ha finalmente approvato la riforma di salvataggio per il Servizio Sanitario Nazionale, prevedendo investimenti di 29 miliardi di sterline supplementari entro il 2029. Dopo più di anno al governo, le politiche laburiste prendono atto dell’impossibilità di varare riforme di consolidamento budgetario di vasta scala, vista l’inflazione e il pietoso stato dei servizi pubblici. Queste difficoltà, nonostante gli aumenti delle tasse, hanno di recente spinto ad un ulteriore rialzo i tassi d’interesse decennali dei Gilt, le obbligazioni decennali britanniche. La vendita massiccia dei buoni del tesoro rischia di degradare la sterlina, aumentando i prezzi di importazione e il peso strutturale dell’inflazione.
Questi episodi si iscrivono nella continuità degli ultimi anni, caratterizzati da stagnazione, prezzi al rialzo e un cronico deficit pubblico nonostante i tentativi rigoristi. Le ragioni della crisi britannica, più che nella politica interna dei laburisti, vanno cercate nell’attuale situazione internazionale del paese e nelle sue debolezze costitutive.
Una potenza in declino
Di recente, Oltremanica, non è solo l’economia ad infiammare gli spiriti. La cessione alle Mauritius delle isole Chagos, a fine maggio, è stata percepita in patria come l’epilogo di una lunga tradizione imperiale. In seguito ad una sentenza emessa nel 2019 dalla Corte Internazionale di Giustizia, la sovranità britannica sull’arcipelago dell’Oceano Indiano è stata dichiarata illecita, provocando il suo trasferimento verso Port Louis.
Il Regno Unito, che ha ormai perso de jure il controllo sulle Chagos, dovrà pagare alle Mauritius una retta di 101 milioni di dollari all’anno per continuare ad utilizzare la base militare Diego Garcia, situata nell’arcipelago. Quest’episodio, benché simbolico, descrive bene la decadenza di quel che fu l’impero più esteso al mondo. E benché il Regno Unito cerchi tutt’ora di conservare il suo posto al sole, questo inevitabile declino si esprime proprio nei suoi tentativi di rimediare.
Sullo scenario ucraino in particolare, da Johnson a Starmer, la Gran Bretagna si dimostra alquanto irrilevante. Nonostante più di 21 miliardi di sterline in aiuto a Kiev, i recenti richiami ad un cessate il fuoco e le promesse riguardanti l’invio di forze di pace, gli ultimi governi britannici non sono riusciti minimamente ad influire sull’esito del conflitto (né diplomaticamente, né militarmente). Più interessanti ancora, però, sono le interazioni con l’Unione Europea. Prima ancora del recente accordo su Gibilterra, i quali confini saranno ora controllati dagli agenti di frontiera spagnoli, il summit di Lancaster tenutosi il 19 maggio ha rivelato le febbrilità del Regno.
Pur di ottenere un accesso facilitato al mercato europeo, Starmer ha fatto concessioni su sovranità e pesca. Oltre ad accettare il principio dell’allineamento dinamico alla legislazione UE, Londra si è frettolosamente giocata la sua unica leva negoziale. Estendendo fino al 2038 l’accesso delle acque territoriali britanniche ai pescherecci europei (e in particolare francesi), i laburisti hanno scatenato l’ira dei pescatori scozzesi. Il ritorno sbrigativo al mercato europeo esprime, più dell’urgenza, un duro risveglio. A cinque anni dal Brexit, sembra che Londra stia finalmente prendendo atto del proprio isolamento internazionale. Il ridimensionamento del Commonwealth, il distacco dall’Unione Europea e l’incostanza dello storico alleato statunitense stanno duramente pesando sul Regno Unito. E oggi più che mai, oltre ai calcoli congiunturali e agli elettoralistici, l’economia britannica fa solamente da sfondo a quel che è lo scenario estero.
Un’economia vulnerabile
Finanza, finanza, finanza. Da ormai trent’anni, un paese intero campa di finanza. Ultimo stato del G7 per tasso di investimenti, il Regno Unito vive da fine anni ’80 un perenne deficit commerciale. La crescente dipendenza alle importazioni e la scarsa produttività, abbinata dal 2008 ad un prolungato fenomeno di stagnazione, sono compensate dal solo afflusso di capitali esteri.
Quarant’anni fa, la deregolazione bancaria ha trasformato Londra in un gigantesco hub finanziario, rendendo sostenibile un vertiginoso processo di deindustrializzazione. Mentre il deficit corrente tendeva al deprezzamento della sterlina, spingendo al rialzo i prezzi delle merci importate, la domanda estera per i titoli finanziari britannici consentiva di riequilibrare la bilancia dei pagamenti, sostenendo il pound .
Si evince bene, da questa dinamica, il fragile equilibrio internazionale sul quale si è poggiato per decenni il Regno Unito. Dopo il Brexit, Londra ha perso l’accesso al passaporto finanziario dell’Unione Europeo, creando incertezza e ridimensionando l’importanza della City (nel 2024, si stimavano a 40000 i posti di lavoro andati persi, in seguito alle delocalizzazioni, nella finanza londinese). Negli ultimi anni, infatti, l’afflusso di capitali finanziari è calato: secondo l’UKTPO, think tank dell’Università di Sussex, il Brexit avrebbe ridotto di quasi il 20% gli investimenti esteri . Questa dinamica ha incoraggiato il deprezzamento della sterlina, provocando, tramite le importazioni, un aumento dell’inflazione.
La bassa produttività dell’industria britannica, irrigidita da decenni di stagno, impedisce alle esportazioni di crescere a sufficienza e invertire la tendenza. La produzione nazionale è ferma, con una nuova contrazione registrata a maggio, mentre i recenti accordi commerciale con Stati Uniti e l’Unione Europea rischiano di colpire interi settori di attività: ad agosto, la concorrenza americana ha già spinto alla chiusura del più grande produttore di bioetanolo britannico. Decenni di smantellamento dell’apparato produttivo britannico, assieme all’elevazione della City ad unico motore di ricchezza nazionale, hanno fatto dell’economia britannica un gigante di cartapesta. Vista la dipendenza strutturale ai mercati internazionali, il riavvicinamento a Bruxelles dovrebbe consentire a Londra di rilanciare i suoi servizi finanziari, oltre che ad usufruire di più stabilità commerciale (una stabilità comunque contraddistinta da un ampio deficit corrente).
Questo naturalmente non risolve le problematiche strutturali del Regno Unito, né pone rimedio al profondo disagio sociale che attraversa il paese. Per chi vive fuori dai grandi centri urbani, e in particolar modo nelle zone rurali dell’est e nelle vecchie regioni minerarie del nord, un ritorno allo status quo ante Brexit non è una soluzione. Pur senza l’affluenza della mano d’opera a basso costo di allora, caratteristica del tempo in cui vigevano gli accordi di libera circolazione, il malcontento non si tedierà. Dato che un paese di 70 milioni di abitanti non può reggersi sulla sola economia di servizi, sono necessari investimenti nel settore primario e secondario, così come in ricerca e innovazione. Senza una base produttiva forte, il Regno Unito rimarrà in balia di instabilità monetaria, lunghi squilibri congiunturali e disagio sociale.
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