I recenti attentati di Hamas e la violenta risposta israeliana sulla Striscia di Gaza hanno riacceso la luce su un conflitto che è stato un crimine trattare con tanta superficialità negli ultimi anni. Ma non solo. Hanno anche rimesso in bocca a politici, saggisti, opinionisti, esperti e inesperti in materia otto parole pronunciate nel mese di maggio da Papa Francesco: [“viviamo una Terza Guerra Mondiale combattuta a pezzi”-https://www.rainews.it/articoli/2023/05/papa-francesco-viviamo-la-terza-guerra-mondiale-combattuta-a-pezzi-b6b0c330-806c-437e-8a08-848078f7b18b.html].
Si tratta magari di una frase fatta, magari di un’esagerazione, ma è difficile negare come oggi agli occidentali basterebbe uscire di pochissimo dalla propria comfort zone per trovarsi davanti a numerosi conflitti armati non dissimili da quelli del Novecento per quantità di sangue versato. Oltre che tra Palestina e Israele, le armi si imbracciano tra Ucraina e Russia, tra Pakistan e India, in Mali, in Yemen, e fino a pochi giorni fa anche tra Armenia e Azerbaijan.
Pomo della discordia, il Nagorno-Karabakh, territorio a maggioranza armena geograficamente posizionato in Azerbaijan, che fa valere una sua particolare storia e cultura, una sua nazione, un suo popolo. Ecco perché, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, chiese di essere riconosciuto quale repubblica indipendente, con il nome di Repubblica di Artsakh. Se da parte armena c’è sempre stato un pressoché totale appoggio alla causa, certificato dall’autonomia concessa alla regione, lo stesso non è avvenuto dall’altro lato, con l’Azerbaijan che ne ha reclamato il controllo sulla base del disegno delle repubbliche sovietiche compiuto da Iosif Stalin nel 1923.
Cento anni più tardi, è possibile dire che il Nagorno-Karabakh è azero. Il 19 settembre 2023, il Governo di Baku ha issato la propria bandiera nella regione dopo un attacco lampo, ultimo atto di un piano disumano cominciato nove mesi prima. Un piano, con ogni probabilità, studiato da molto più tempo.
Nel tardo 2020, quando il mondo occidentale era troppo occupato a cercare soluzioni di ripresa dalla pandemia di Covid-19, ci fu un primo tentativo, dopo decenni di apparente tranquillità, dell’Azerbaijan di guadagnarsi il territorio. Furono due mesi di battaglie tra schieramenti nettamente squilibrati, con l’esercito in attacco più numeroso, più ricco e forte di armamenti forniti da Turchia e Israele, che terminarono solo quando intervenne la Russia, con il posizionamento di proprie forze di peacekeeping nelle aree contese. Già allora nessuno credette a una posizione neutrale di Putin, che si espresse solo a seguito della riconquista azera dei territori persi nei primissimi scontri - quelli seguiti alla dissoluzione dell’Unione Sovietica - e dopo che il conflitto aveva causato la morte di almeno 4.000 militari e lo sfollamento di 100.000 civili.
Gli interventi di ammodernamento nella regione, promessi nell’incontro risolutorio di inizio 2021 - il trilaterale coinvolgente il Presidente azero İlham Aliyev, il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan e il Presidente russo Vladimir Putin - non sono avvenuti, anzi, lo sfruttamento delle risorse del Nagorno-Karabakh, a vantaggio tanto di Baku quanto di Mosca, è andato aumentando. Le stesse forze militari russe individuate come i migliori soggetti possibili al mantenimento della pace e della sicurezza sul territorio sono state poco più che un miraggio. L’Azerbaijan ha dunque avuto vita facile nell’appropriarsi dell’intero territorio, gli è bastato far maturare i tempi.
La prima mossa azera, nella ripresa del conflitto, è stata il blocco del corridoio di Lachin, unica via per il rifornimento di viveri e beni di prima necessità del Nagorno, proveniente dall’Armenia. Questa soluzione, adottata a dicembre 2022, ha scatenato una lunga crisi umanitaria. Per mesi, la popolazione armena dell’enclave non ha ricevuto né cibo, né medicine, né carburante; Yerevan ha quindi accusato l’Azerbaijan di fame indotta, tecnica di pulizia etnica di cui si parla nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Conseguenza, è stata l’emigrazione di oltre 100.000 abitanti del Nagorno-Karabakh (che, dopo le bombe del 2020, contava una popolazione di appena 120.000 persone) verso l’Armenia, la quale pure non può essere considerata un grande Paese, con solo 2.7 milioni di cittadini.
È stata dunque poco più di una formalità per l’esercito azero sbaragliare le difese karabakhe il 19 settembre di quest’anno, permettendo al Presidente Aliyev di accedere a Step’anakert, ex capitale della Repubblica di Artsakh, di ribattezzarla Xankəndi e di annunciare come, entro il 2025, la regione sarà ripopolata di 140.000 cittadini azeri.
Capitolo finale che accontenta alcuni e scontenta altri? Tutt’altro. La crisi nel Caucaso, ennesima prova dell’instabilità dell’ordine internazionale degli ultimi decenni, non sembra arrestarsi. Sono infatti forti le voci che vorrebbero una prossima occupazione azera dei territori meridionali della Repubblica di Armenia. In tal modo vi sarebbe una continuità territoriale dell’Azerbaijan con il Nakhchivan, la sua provincia occidentale, quella confinante con la Turchia.
Accadesse davvero, non sarebbe più possibile per le grandi potenze mondiali ignorare la situazione. Quella che si verificherebbe non sarebbe più una guerra per un territorio conteso con due parti che fanno valere ognuna le proprie ragioni storiche e culturali, ma un’aggressione verso uno Stato sovrano sulla falsariga di quanto vediamo da un anno a questa parte con Russia e Ucraina. Se fino a oggi, anche per il rapporto più amicale che tanto Azerbaijan quanto Armenia hanno proprio con la Russia - sapendo o meno di non essere veri alleati, ma direttamente aree di possibile godimento di Mosca - non c’è stato diretto intervento di ONU e Unione europea, lo stesso non potrebbe ripetersi con quest’altro scenario.
Se è vero che l’Unione europea ancora non abbia una vera e propria politica estera, lo è anche che la promozione della pace sia il suo obiettivo primario. Per Bruxelles, dunque, non possono esistere “conflitti nascosti” come è stato dichiarato quello del Nagorno-Karabakh, tutt’al più nel momento in cui gli Stati coinvolti rientrano del partenariato orientale che l’UE ha voluto per tessere e rafforzare le relazioni a est. L’ignoranza non può essere consentita, specialmente davanti a una possibile escalation.
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