In un intervento apparso su Bloomberg View Jacob Kirkegaard e Thomas Philippon valutano che se l’Europa vuole garantire la sicurezza delle frontiere esterne dell’Unione e integrare gli immigrati e rifugiati che sono stati accettati negli Stati membri, i costi da sopportare eccedono largamente le disponibilità del bilancio europeo. La loro stima è che siano necessari 20 miliardi di euro per la sicurezza delle frontiere e fra 10 e 20.000 euro pro-capite per integrare i nuovi immigrati, per un ammontare complessivo di circa 40 miliardi. Gli Stati Uniti spendono per il solo controllo alle frontiere 32 miliardi di dollari a fronte di un finanziamento europeo di 143 milioni di euro per Frontex (su un bilancio complessivo di 140 miliardi di euro).
Per fronteggiare l’emergenza migranti Kirkegaard e Philippon propongono l’emissione di Security and Mobility Bonds (SMB), ricordando come negli Stati Uniti Alexander Hamilton abbia avuto la possibilità di mettere in comune l’eredità debitoria della Guerra di Indipendenza proprio perché quei debiti erano visti come la conseguenza di una lotta comune. Così oggi la gestione del problema dell’immigrazione deve essere vista sempre di più come un tema di interesse per tutti gli europei. Lungo linee analoghe si è espressa in un editoriale sul Corriere della Sera Lucrezia Reichlin che, dopo aver osservato come nessun paese sia in grado di far fronte al problema dell’immigrazione e della sicurezza senza infrangere le regole del Patto di Stabilità, rilevava che “sia non solo auspicabile, ma anche inevitabile, percorrere una seconda strada e aumentare la capacità di spesa dell’Unione emettendo debito federale”.
In un successivo Commento pubblicato dal Centro Studi sul Federalismo avevo espresso un forte apprezzamento per la posizione assunta da Reichlin, ma osservavo che, mentre sembra del tutto giustificato l’utilizzo di eurobonds per finanziare spese di investimento che hanno durata pluriennale, “una parte residua della spesa per la gestione dei fenomeni migratori e per garantire la sicurezza contro il terrorismo ha natura di spesa corrente e deve quindi essere finanziata attraverso il prelievo di risorse fiscali”.
In questa prospettiva, di grande rilievo è la posizione assunta dal Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble che, in un‘intervista al quotidiano Süddeutsche Zeitung ha affermato che “se i bilanci nazionali o il budget europeo non fossero sufficienti, allora potremmo metterci d’accordo per introdurre ad esempio una tassa su ogni litro di benzina per avere i mezzi per una risposta europea alla crisi dei rifugiati”. Si tratta di un’indicazione importante in quanto lega la creazione di nuove risorse proprie, e quindi il rafforzamento del bilancio europeo, a un tema che rischia di creare nuove fratture e divisioni all’interno dell’Unione, con la rottura della libertà di movimento garantita dal Trattato di Schengen, e che è fortemente sentito dall’opinione pubblica europea, soprattutto dopo la recente ondata di attentati terroristici.
Il 12 dicembre scorso si è conclusa a Parigi la 21ma sessione annuale della Conferenza delle Parti (COP21) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. La valutazione sui risultati della COP21 è riassunta nel titolo di un Commento di Roberto Palea pubblicato dal Centro Studi sul Federalismo il 7 gennaio scorso: “obiettivi ambiziosi, strumenti inadeguati”. In particolare, il finanziamento del Green Climate Fund appare dotato di mezzi monetari insufficienti. E non sono previste sanzioni per i paesi che non dovessero rispettare gli impegni assunti.
Ma c’è un punto che lega il tema dei cambiamenti climatici e la provvista di mezzi finanziari per gestire il problema delle migrazioni e della sicurezza esterna in Europa. È sempre più evidente che lo strumento utilizzato nell’Ue per gestire il problema dei cambiamenti climatici, ossia il sistema dei diritti di emissione negoziabili (Emission Trading System - ETS), debba essere sostenuto con l’istituzione di una carbon tax. L’ETS garantisce in modo efficiente il controllo del 45% delle emissioni, che provengono soprattutto dagli impianti di produzione di energia elettrica e dall’industria manifatturiera energy-intensive. Ma dal sistema resta escluso il 55% delle emissioni prodotte da quattro importanti settori: domestico, trasporti, agricoltura ed edilizia. Inoltre, il prezzo dei permessi di emissione si è progressivamente ridotto nel tempo, con un prezzo di chiusura al 22 gennaio 2016 pari a 6,31 euro e un prezzo medio degli ultimi 12 mesi è pari a 7,69 euro.
La carbon tax dovrebbe colpire i settori non inclusi nell’ETS, e verrebbe prelevata con gli strumenti di accertamento delle accise sul consumo di combustibili fossili e commisurata sulla base del contenuto di carbonio di ciascuna fonte di energia, in sostanza una proxy di un’imposta sul consumo di carbonio. Nell’ipotesi di un’aliquota di carbon tax molto contenuta, quale quella avanzata nella proposta di Direttiva della Commissione del 13 aprile 2011, di €20 per tonnellata di anidride carbonica, il prelievo sarebbe pari a €6 per barile e soltanto a €0,0377 per litro di benzina. Eurostat stima che nel 2014 le emissioni di CO2 siano ammontate a 3.184 milioni di tonnellate, di cui il 55%, pari a 1.751 milioni di tonnellate, afferenti ai settori su cui verrebbe a gravare la carbon tax. Anche con un’aliquota molto ridotta (la proposta della Commissione del 1992 prevedeva un’aliquota di 10 dollari per barile di petrolio, al cambio attuale circa €9, pari a una volta e mezzo la tassa proposta attualmente di € 6 al barile), si potrebbe ottenere un gettito pari a circa 35 miliardi di euro.
La proposta di Schäuble di introdurre una tassa sulla benzina per finanziare il controllo delle migrazioni e la gestione della sicurezza può essere integrata commisurando al contenuto di carbonio il prelievo sui combustibili fossili nei settori non inclusi nell’ETS e fornendo così le risorse addizionali necessarie per il bilancio dell’Unione. Queste nuove risorse di bilancio potrebbero inoltre consentire all’Unione di aumentare il finanziamento del Piano Juncker con emissioni di eurobonds, garantite dalle accresciute dimensioni del bilancio europeo. Al contempo, l’introduzione della carbon tax aiuterebbe a raggiungere obiettivi ambiziosi di contenimento delle emissioni CO2, secondo quanto previsto nelle conclusioni della COP21 di Parigi.
In Europa una commissione interistituzionale presieduta dal Sen. Mario Monti è stata incaricata di riformare la struttura di finanziamento del bilancio comunitario. Un incarico di grande prestigio, ma anche molto complesso, considerati i vincoli imposti dai Trattati alla creazione di nuove risorse proprie. D’altra parte, se il bilancio venisse finanziato in misura significativa con risorse proprie, si avvierebbe finalmente il processo destinato a portare al completamento dell’Unione fiscale e, in prospettiva, dell’Unione politica. Ma per introdurre un’imposta europea devono essere soddisfatte almeno due condizioni: che l’imposta venga destinata a finanziare un bene comune europeo e che ci sia un consenso diffuso nell’opinione pubblica. Con una carbon tax, destinata a ridurre l’uso di combustibili fossili e, al contempo, a finanziare le misure sulle migrazioni e la sicurezza esterna dell’Unione, sembra possibile soddisfare entrambe queste condizioni.
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