L’inizio del conflitto in Yemen è indicativamente segnato verso il 9 marzo 2015, oramai oltre quattro anni fa. Una guerra complessa, che ha visto al suo interno schieramenti differenti sia dal punto di vista ideologico che politico, all’interno e all’esterno dello Yemen.
Come in altri conflitti, la comunità internazionale non è rimasta del tutto neutrale. Alcune nazioni hanno preso parte con uno dei numerosi fronti in campo, sia Al-Qaeda che l’IS hanno offerto supporto ad alcune delle fazioni in campo, o schierando direttamente i propri miliziani, come ha fatto la sezione della Penisola Araba del primo gruppo (AQAP, Al-Qaeda Arab Peninsula).
In questo conflitto, in cui si contano moltissime vittime civili, l’intervento occidentale è stato più o meno variegato. Da un lato vi è stata la condanna di moltissime ONG e stati occidentali del conflitto, mentre allo stesso tempo nazioni come gli Stati Uniti hanno continuato le loro campagne a base di droni per assassinare ed eliminare leader e cellule di organizzazioni terroristiche. Altre nazioni europee sono invece entrate all’interno del difficile panorama yemenita tramite scambi commerciali soprattutto con la vicina Arabia Saudita.
È particolare questo legame a doppio filo tra il regno saudita e le nazioni occidentali, legame che passa per numerosi contratti commerciali con compagnie fornitrici di mezzi, armi e servizi nell’ambito della Difesa. Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) nel 2017 l’Arabia Saudita ha importato armi per 4 miliardi di dollari, principalmente dal suo partner principale, gli Stati Uniti, ma almeno un altro mezzo miliardo è di importazione britannica, con un centinaio di milioni tedesco e solo trenta milioni francesi.
Guardando solo alle nazioni europee, sono dati che dimostrano una certa decrescita dal 2015, inizio della guerra, del volume dell’export europeo in ambito della difesa verso l’Arabia Saudita, a differenza di quello americano che dopo una prima flessione ha subito un’impennata, rispondendo agli interessi geopolitici della potenza atlantica.
Quello su cui ci si vuole soffermare è però il ruolo che i venditori europei stanno avendo nel conflitto, continuando a rifornire l’Arabia Saudita con armi portatili, droni e missili, nonostante molte di queste armi, come certificato da Amnesty International, il SIPRI e altri operatori internazionali indipendenti, finiscano regolarmente in Yemen. In un approfondimento del novembre 2018 del Guardian è stato messo in risalto come, nonostante dei formali impegni internazionali nel limitare l’afflusso di armi nella regione e un memorandum delle Nazioni Unite del 2016 riguardo la vendita di armi nella regione e il controllo del loro flusso nell’area, i gruppi terroristici, miliziani e irregolari locali continuano ad usare anche armi europee nel conflitto. In alcuni video diffusi dall’AQAP i miliziani portano con sé armi di manifattura tedesca. Abu al-Abbas ha ricevuto rifornimento di armi e veicoli nel momento in cui a Taiz si è unita alle forze del governo yemenita a supporto saudita. Il gruppo, è indicativo, è nella watchlist americana delle organizzazioni terroristiche. A febbraio 2018, nel Sud Yemen, sono stati avvistati veicoli prodotti dalla BAE System, compagnia britannica attiva nel settore della difesa, ufficialmente venduti agli Emirati Arabi Uniti.
Sono pochi esempi che però delineano perfettamente lo scenario: armi europee che vengono dispiegate e usate in un conflitto, spesso nelle mani di gruppi terroristici ufficialmente nemici delle stesse nazioni venditrici. È un caso emblematico di scarso controllo sul flusso delle proprie armi, anche a fronte di legislazioni diversificate tra i paesi fornitori e dei diversi rapporti che i governi intrattengono con le stesse compagnie fornitrici. È un panorama variegato, a livello di rapporti ministeriali e di legislazione corrente, che non permette di disegnare un quadro uniforme a livello europeo e che ha evidentemente delle falle nel garantire che le armi vendute siano effettivamente utilizzate dagli acquirenti ufficiali. La mancanza di una vera delibera ONU riguardo la guerra in Yemen e la compravendita di armi evidenzia in questo caso il limite dell’organizzazione internazionale, limite che, dal lato europeo, potrebbe essere coperto da un quadro comune di riferimento nell’ambito.
Nonostante, ufficialmente almeno e verso l’Arabia Saudita, il flusso di vendita ha visto una certa diminuzione a partire dal 2015, lasciando in questo caso spazio ai venditori americani spazio di manovra (o alle consociate americane di compagnie europee, dato da non sottovalutare e che dal lavoro del The Guardian non viene messo in rilievo), troppe armi europee, veicoli e bombe, sono in mano a gruppi terroristici e milizie nel conflitto nella Penisola Arabica.
Laddove i singoli sistemi di controllo dei paesi esportatori hanno o stanno fallendo, la soluzione potrebbe venire dal livello europeo. Se già, attraverso i PESCO e i progetti lanciati all’interno del contesto europeo della difesa, qualcosa si sta muovendo in un’ottica di cooperazione, scambio e condivisione di informazioni e tecnologie tese all’uniformare in qualche modo il livello delle forze di difesa, in termini sia di capacità che di expertise generale, il prossimo passo potrebbe riguardare proprio le compagnie private o semi-private (modello prevalente nell’Europa Continentale) teso al controllo dell’export non solo nei termini di guida politica nazionale, ma piuttosto di politica comunitaria.
La vendita di armi, veicoli e tecnologie belliche non si può equiparare a un qualsiasi settore della produzione economica. Si tratta di un interesse economico che ha strette relazioni con la politica degli stati-nazione e che ha ripercussioni, non solo economiche e politiche, ma sociali, culturali e, banalmente, di vita e di morte in paesi terzi. L’esempio d Trump che commenta il problema delle armi americane in mano ai gruppi terroristici, citando la possibilità che nella penisola entrino sia i russi che i cinesi, dimostra la complessità del fenomeno.
Le nazioni europee non possono permettersi, da un semplice punto di vista etico, che le proprie armi, i veicoli ma anche tecnologie banali come radio e GPS, finiscano nelle mani di gruppi terroristici o delle parti in campo in un conflitto civile condannato per la sua brutalità e il suo impatto sui civili. Se i singoli paesi non riescono, o non vogliono, regolare le rispettive aziende, forse il Parlamento Europeo, che più di tutti avrebbe il diritto donatogli dall’elezione, e il dovere, per lo stesso motivo, potrebbe legiferare perché siano più stretti i controlli sugli acquirenti e, esattamente come i parlamenti nazionali, dare delle direttive alle compagnie semi-pubbliche e pubbliche su a chi e come offrire i propri servizi e prodotti.
Non è pensabile che le nazioni europee, nonostante le condivisioni in politica estera (non sufficienti ancora, ma un inizio per una vera politica estera comune), continuino a decidere in ambito di produzione e commercio bellico in maniera del tutto autonoma e slegata, in alcuni casi anche contrastante. La Germania che cerca di limitare le proprie vendite nella penisola e la Gran Bretagna che, tramite la BAE System, vende a tutte le parti in campo, ne sono un esempio (almeno fino alla Brexit ufficiale).
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