Ricordiamo un grande federalista italiano, la sua vita e azione politica

Luigi Vittorio “Gino” Majocchi, ricordo di un federalista

, di La redazione di Eurobull

Luigi Vittorio “Gino” Majocchi, ricordo di un federalista

Vogliamo dedicare questo spazio ad un militante venuto a mancare da poco, Luigi Vittorio “Gino” Majocchi, attraverso il ricordo di due sue allieve davvero d’eccellenza: la prof.ssa Antonella Braga e la prof.ssa Daniela Preda. Gino non era solo un professore universitario o uno dei più importanti leader del federalismo organizzato. Negli ultimi anni è stato una presenza costante per tutti i giovani che volevano studiare, discutere o imparare. Un intellettuale straordinario e un interlocutore critico con cui le ore passavano rapidamente in discussioni da cui c’era sempre qualcosa da apprendere. Con Gino se ne va un maestro, un punto di riferimento, un amico, un compagno e un pezzo di storia insostituibile. Per comprendere cosa ha rappresentato per generazioni di federalisti, vi lasciamo ai ricordi di chi senz’altro lo ha conosciuto meglio di noi.

La militanza federalista di Gino Majocchi

La storia di Luigi Vittorio Majocchi (Gino) è una storia emblematica, in cui si rispecchiano e attraverso la quale possiamo leggere le tante storie di giovani militanti avvicinatisi al federalismo negli anni Cinquanta e in particolar modo dopo la caduta della CED.

Nato a Vigevano l’11 ottobre 1937, alla fine della guerra il suo bagaglio di ricordi e di esperienze in attesa di un principio coordinatore che permettesse il superamento degli errori di cui erano testimoni era già pesante: vi sono il primo bombardamento su Milano, di cui a Vigevano arrivavano gli echi in lontananza e si stagliavano le immagini di fuoco all’orizzonte, il bombardamento sul ponte del Ticino, che per i ragazzini rappresentava una sorta di ‘divertimento’ del tutto inusuale, le corse nel rifugio di casa. Poi, ancora, il 9 settembre del ’43, essendosi la famiglia trasferita a Montebelluna, presso Treviso, il ricordo del ponte della Libertà che collega Venezia a Mestre coperto di abiti militari, di ragazzi che scappavano e delle dieci interminabili e indimenticabili ore di viaggio da Venezia a Milano con il treno che a ogni stazione rallentava per permettere ai giovani di fuggire alla legge dei tedeschi. Sfollato in Valsesia con la famiglia, verrà a contatto, seppur ancora fanciullo, con il mondo dei partigiani, vedendo morire persone conosciute. Episodi di guerra che il tempo avrebbe collegato, dapprima alla consapevolezza, poi alla paura della morte e infine al desiderio di pace.

Alla ricerca di un modello di comprensione del solco profondo che aveva diviso il popolo italiano e che era sfociato nella spaventosa guerra appena conclusa, approda in un primo tempo alla cultura crociana e in particolare alla Storia d’Europa, in cui trova l’unità culturale dell’Europa. Comincia a interessarsi fattivamente di politica durante le elezioni del ’53: partecipa ai comizi, parteggiando per il fronte atlantico ma senza legarsi ad alcun partito, è un amico del “Mondo”, la rivista diretta da Mario Pannunzio, espressione del liberalismo di sinistra.

Ma sarà l’incontro con il federalismo e quel legame che Kant aveva formulato tra pace, diritto e istituzioni, ad andare incontro, naturalmente, al suo anelito di pace.

Il suo primo contatto con il federalismo avviene durante il secondo anno del Liceo classico, a Vigevano, in occasione della Giornata europea della Scuola. Questo spiega anche, almeno in parte, al di là dello spirito di servizio che lo contraddistingueva, la sua prontezza nel rispondere positivamente alle richieste di partecipazione a conferenze, dibattiti, convegni, che gli venivano rivolte dalle scuole, dalle associazioni, dai gruppi della GFE e del MFE un po’ in tutta Italia. Sempre era pronto a prendere la valigia e andare a parlare d’Europa.

Poi era venuto il primo tema sui problemi europei, occasione per la lettura del giornale “Giovane Europa” di Ivo Murgia prestatogli da un compagno di classe il cui padre era federalista. Habent sua fata libelli, e anche le riviste. Lo colpisce in particolare l’immagine dell’incontro, sul ponte di Kehl, tra giovani tedeschi e giovani francesi, che dava corpo concretamente e visivamente a quella riconciliazione franco-tedesca imperativo del dopoguerra. Da qui l’immediata ricerca della sezione federalista di Vigevano, chiusa, per il trasferimento del suo segretario, Giulio Cesoni, a Milano.

È questo il primo impatto con un mondo volontaristico, quello delle sezioni del MFE e ancor più della GFE, che procedono per continui rilanci. Una sezione nasce quando ci sono persone convinte dell’idea e disposte a sacrificare una parte del loro tempo libero per mantenere i contatti, organizzare riunioni e conferenze, occuparsi dell’elementare amministrazione. Gino Majocchi era ormai pronto ad assumersi questi impegni.

Nel 1957, si dedicherà alla ricostruzione della sezione federalista di Vigevano. Alla sua costituzione, la sezione ha undici componenti, per la maggior parte reclutati fra i compagni di liceo del fratello Alberto, sui quali aveva lasciato una forte impronta l’insegnamento di rigorosa intonazione etico-politica del prof. Pernice, docente dalla forte coscienza civile e morale. Oltre a Gino, Alberto e Maria Luisa (Misa) Majocchi, fanno parte della sezione Ezio Caso, Silvia Zaverio, i fratelli Bertazzoni, Marco Balocco (che morirà nel 1962 e a cui la sezione verrà intitolata), Maria Carla Gallazzi, Vanio Vannini. L’attività della sezione si esplica su due piani: da una parte, settimanalmente, al sabato, incontri sui temi più scottanti del momento, vere e proprie scuole-quadri per i giovani federalisti vigevanesi; dall’altra, ogni due settimane, incontri di propaganda aperti a tutti. La sezione vigevanese, brillante esempio di gruppo costituito secondo il modello del ‘nuovo corso’ impostato da Spinelli e Albertini nell’immediato post-CED, diventerà ben presto un punto di forza sia del Congresso del Popolo europeo (CPE) che di “Autonomia federalista” e sarà la culla in cui muoveranno i primi passi anche altri federalisti destinati ad avere ruoli di primo piano nel Movimento, quali Giovanni Vigo, Dario Velo e Guido Montani.

La consapevolezza della sezione come centro culturale di primaria importanza, luogo di dibattito politico e teorico, cellula viva del Movimento e della storia, rimarrà sempre forte in Majocchi, che all’interno del MFE si occuperà costantemente della formazione dei quadri giovanili, diventando parte attiva della fondazione di diverse sezioni o semplicemente spronando a riattivarle. Fino alla costituzione, nel 2009, della sezione di Belgioioso, di cui è stato punto di riferimento fondamentale sino agli ultimi giorni della sua vita.

Era già avvenuto nel frattempo, nell’autunno 1955, il suo trasferimento a Pavia, al Collegio Ghislieri, dove la prospettiva del federalismo europeo stava suscitando in quegli anni, attorno a Mario Albertini, le simpatie e la massiccia adesione dei giovani studenti universitari. Nel ’55, assieme a Majocchi, entrano in Collegio anche altri giovani destinati a diventare militanti federalisti, anche di primissimo piano, quali Francesco Rossolillo, Alberto Rimini, Marco Vitale, Giuseppe Pedeferri, Giorgio Spinolo, Franco Gasparini; l’anno successivo, Antonio Padoa-Schioppa; e l’anno successivo ancora Alberto Majocchi, Giannino Pagliaga, Aurelio Soldi, Max Malcovati, Elio Cannillo e Giuseppe Rossi, per citare solo coloro che presto avrebbero assunto responsabilità direttive all’interno della GFE, del MFE o dell’UEF.

Quei giovani erano attratti da una proposta politica e culturale nuova e convincente, alternativa a quella tradizionale (laica, socialista o cattolica che fosse) ancora legata allo Stato nazionale, che li proiettava in una prospettiva europea. Un gruppo coeso, quello ghislieriano, che, pur essendo formato principalmente da intellettuali, ben presto s’impegnerà con entusiasmo nel duro lavoro dell’organizzazione politica, reso ancor più duro dall’appartenenza a un movimento che fieramente si fregiava di non appartenere a nessun partito. Quando Albertini teorizzerà la natura del militante federalista sarà a quei giovani che farà concreto riferimento.

Continuando per il momento a considerare l’impegno europeo come un semplice corollario rispetto alla lotta politica nazionale, Majocchi entra a far parte attivamente dell’ASUP e dell’ORUP, si impegna nel campo della ‘terza forza’ di ispirazione laica, perseguendo la ricerca di una mediazione tra cattolici e comunisti; interviene anche a un congresso nazionale dell’UNURI, a Roma, venendo eletto nel Consiglio nazionale. Ma la politica universitaria lo delude per il suo vuoto verbalismo, lo snobismo, l’aperta contraddizione tra i valori professati e i costumi di squallida goliardia.

Entrato nella GFE pavese, tramite Domenico Maselli, nel dicembre 1956, partecipa con la delegazione pavese al terzo congresso regionale lombardo della GFE e qui si avvede dello stato di crisi in cui versa l’organizzazione, sottolineando la necessità della formazione di quadri federalisti.

Oltre ad Albertini, che lo introduce negli aspetti più profondi della cultura federalista, e a Giulio Guderzo, che lo conferma in una nuova lettura della storia contemporanea, a Pavia Majocchi incontra anche Gerardo Mombelli, ma soprattutto Altiero Spinelli (studiava in quegli anni a Pavia, anche la figlia di Spinelli, Eva Colorni), che lo porta a lottare per il federalismo e l’unità europea.

L’incontro con Albertini e Guderzo, le quotidiane discussioni con i federalisti ghislieriani in Collegio o nelle osterie del Borgo basso, l’insegnamento di Spinelli, lo convincono, nell’inverno del 1957, proprio dopo una lunga conversazione protrattasi fino a tarda sera con Albertini che lo esortava ad abbandonare la politica nazionale per impegnarsi a tempo pieno nel federalismo, a prendere la decisione, definitiva e radicale, di diventare militante federalista. E militante federalista rimarrà per tutta la vita, dando all’impresa un apporto straordinario sia intellettuale, per come sapeva affrontare le tematiche politiche con cristallina consequenzialità, sia pratico.

Entra nel MFE del dopo CED, quello del “nuovo corso” spinelliano che punta su un nuovo soggetto della storia – il popolo europeo –, quello della rottura con i partiti e dell’opposizione cosciente e organizzata allo stato nazionale, che sarebbe presto evoluta verso la teorizzazione e l’esperienza dell’autonomia federalista. Un federalismo intransigente, una strada ardua e controcorrente, che implicava la creazione di una forte e capillare organizzazione indipendente e un lungo periodo di approfondimento teorico, senza promettere nessuna ribalta politica né tantomeno gratificazioni di breve periodo. Alla creazione della “ribelle coscienza federalista” auspicata da Spinelli si dedica con impegno, a partire dalla partecipazione agli stages in preparazione del Congresso del Popolo europeo, là dove, come a Salice Terme nell’aprile ‘57, sulla base delle teorie elaborate da Albertini, si formavano politicamente i militanti – l’avanguardia del popolo europeo –, e dalle campagne per le elezioni del CPE, a Milano nel 1957 e per le elezioni primarie lombardo-ticinesi nel 1959. Nel 1958, affianca Guderzo nella lotta autonomista all’interno della GFE al IV congresso di Castellammare di Stabia, in seguito al quale farà il proprio ingresso nella Giunta esecutiva della GFE, assieme, tra gli altri, al genovese Franco Praussello.

Dopo pochi anni, al Congresso di Lione del febbraio 1962, è tra le figure di spicco dell’opposizione guidata da Albertini, che proprio a Lione costituirà la corrente di “Autonomia federalista”, una compagine politica autonoma intesa a ‘forzare’ i governi alla scelta del federalismo europeo, sulla base di alcuni principali assunti: autonomia culturale, attraverso un’opera di approfondimento teorico del federalismo; autonomia politica, suggellata dal distacco deciso dai partiti e dalle compagini politiche tradizionali; autonomia organizzativa, tramite una rigida formazione e selezione dei militanti; autonomia finanziaria, attraverso la pratica dell’autofinanziamento.

I saldi presupposti teorici albertiniani – l’eclisse di fatto degli stati nazionali europei, la critica all’azione della Comunità, l’esistenza di un “europeismo diffuso” da federare – si tradurranno ben presto nell’avvio di un’azione prepolitica – il Censimento volontario del popolo federale europeo – in cui Majocchi s’impegna con convinzione. “Fare l’Europa dipende anche da te”: l’appello lanciato ai cittadini durante la campagna per il Censimento credo che riassuma icasticamente l’impegno a 360 gradi di una vita spesa per un ideale che non si limitava agli aspetti ideologici e politici, ma sapeva concretizzarsi nella vita di tutti i giorni. Una cultura, quella del federalismo, che in Gino Majocchi si coniugava strettamente con l’affermazione della democrazia a tutti i livelli, dal quartiere alla città, dalla regione allo Stato, dall’Europa al mondo, nella promozione dello sviluppo economico e della qualità della vita.

Dalla fine degli anni Sessanta è in prima fila nella campagna, decisa dalla Commissione italiana del MFE sovrannazionale nel gennaio 1967, per l’elezione a suffragio universale diretto dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo e in quella decisa nel marzo 1975 a livello europeo, in cui si chiedeva di affidare al Parlamento europeo eletto un mandato costituente.

Diventa segretario generale del MFE al congresso di Bari del febbraio 1980, dove viene approvata la linea politica “Unire l’Europa per unire il mondo”, presentata il mese successivo al congresso di Strasburgo dell’UEF da Albertini, che dell’organizzazione federalista continentale era diventato presidente nel 1975. In giugno, anche il Comitato federale dell’UEF riunito a Lussemburgo approva una mozione in cui veniva affermata la centralità della riforma istituzionale nel processo d’integrazione europea e una risoluzione in cui lo stesso Comitato proclamava il proprio sostegno all’iniziativa di Spinelli, chiedendo la creazione di un “governo europeo capace di agire”. In agosto, l’“Unità Europea” lanciava una campagna di mobilitazione popolare a favore di un “governo europeo”.

In quegli anni, come già era accaduto fecondamente nella prima metà degli anni Cinquanta, s’instaurano, a sostegno del tentativo Spinelli, rapporti di collaborazione feconda tra i movimenti per l’unità europea, in particolare MFE e ME ma anche il CCRE di Umberto Serafini, diventando il Movimento federalista europeo, nella prospettiva già auspicata da Albertini in uno scritto del 1976, centro d’irradiamento della prospettiva federalista nei confronti dell’europeismo organizzato. Assieme al Gruppo di Milano, Majocchi sostiene l’elezione di Giuseppe Petrilli alla presidenza del Movimento europeo internazionale, elezione che avverrà nel gennaio 1981, un’azione mirata a far cambiare rotta al ME in vista della battaglia per il governo europeo. L’accesso alla presidenza del ME di Petrilli, federalista di antica milizia, portava il ME su posizioni meno legate ai partiti, più federaliste: anche per quel movimento diventava prioritaria l’azione a sostegno dell’iniziativa istituzionale del Parlamento europeo. Dal 1984 al 1987, Majocchi è nominato segretario generale del Movimento europeo internazionale.

Sono gli anni in cui collabora attivamente a quella che rievocherà come l’“esaltante avventura” di Spinelli al Parlamento europeo, sostenendolo nella sua lotta al fine di ottenere l’approvazione – dapprima del Parlamento stesso e poi degli Stati membri della Comunità europea – del progetto di Trattato che adotta una Unione europea, approvato dal PE nel febbraio 1984.

La sua collaborazione è significativa sul piano sia teorico che pratico, con una costante e impegnativa opera di sensibilizzazione della classe politica europea sul tema costituente. Dall’aprile 1981 entra a far parte della Commissione per le istituzioni del ME, sotto la presidenza di Martin Bangemann, collaborando attivamente alla stesura del documento di lavoro sulle Istituzioni europee da questa elaborato per contribuire ai lavori della Commissione istituzionale del Parlamento europeo. Un tema, quello delle istituzioni e in particolare delle istituzioni europee, su cui si muove con grande competenza. Si era laureato in Giurisprudenza a Pavia, nel 1959, con lode, con una tesi intitolata “The U.S. Supreme Court procedural due process of law doctrine. Un approccio storico”, che mirava a identificare la connessione teorica tra stato di diritto e governo federale, da un lato, e ragion di Stato, dall’altro, attraverso lo studio della posizione insulare degli Stati Uniti e la sua crisi connessa con il coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari mondiali. La questione centrale era il maccartismo. La tesi avrebbe vinto il primo premio offerto, nel mese di ottobre 1961 dall’Italian-American Association, per il miglior lavoro nel campo della storia americana. Nel 1962-‘63, vincitore di una borsa Fullbright, aveva avuto poi la fortuna d’incontrare e studiare con alcuni tra quei professori (Sutherland, McClosky; Freund) che avevano collaborato con Carl Friedrich e Robert Bowie alla stesura degli Studi sul federalismo e avevano quindi partecipato, seppur indirettamente, a quel Comité d’études pour la Constitution européenne che, sotto la guida di Paul-Henri Spaak, Fernand Dehousse e Altiero Spinelli, aveva preparato tra il 1952 e il 1953 materiale utile ai lavori dell’Assemblea ad hoc e del suo progetto di Comunità politica europea, il primo progetto costituzionale della Comunità europea, indubbia fonte di ispirazione per il progetto di Spinelli degli anni Ottanta.

Mi sono sempre chiesta come abbia trovato il tempo per seguire passo passo, parola per parola, assieme al prof. Guderzo, anche la mia tesi di laurea! Mi riceveva al Cesfer, il Centro Studi sul federalismo, il regionalismo e l’unità europea che aveva fondato nel 1971 e dove era stata trasferita la sezione di Pavia, alla Casa degli Eustachi, un luogo che ben lo rappresenta: un piccolo palazzetto in mattoni a vista, di epoca medievale, che forse gli ricordava un po’ l’amata Toscana. All’ingresso, sulla destra, c’era l’archivio, il luogo della storia del Movimento federalista, dei documenti a lui cari. Al primo piano, sulla sinistra, l’emeroteca, il luogo della lettura silenziosa, ma anche della riflessione comune, del commento, dell’elaborazione di idee; a destra, il grande salone della politica e delle strategie. Intorno, il giardino. Ricordo che il Professore sognava la piccola comunità federalista prendersi cura di quel giardino, come res publica dei cittadini, a partire proprio dal quartiere. Nell’androne, le amate biciclette. Entrare in quel luogo era un po’ come allontanarsi da Pavia, dalle sue frenesie, dalle sue chiacchiere ed essere proiettati in un mondo diverso, nel mondo hegeliano, dove si cercava di dare concretezza alla massima “tutto ciò che è razionale è reale”, cioè deve divenirlo e occorre operare in tal senso.

Per tutti coloro poi che, come me, hanno seguito il dottorato in “Storia del federalismo e dell’unificazione europea”, coordinato dal prof. Giulio Guderzo e attivo presso l’Università di Pavia dal 1988, il punto di riferimento del contatto quotidiano con il Professor Majocchi, che nell’‘89 aveva ottenuto la Cattedra europea Jean Monnet di Storia dell’integrazione europea e dalla fine degli anni Settanta era stato chiamato da Guderzo proprio per seguire il filone di ricerca sulla storia dell’integrazione europea, è diventato lo studiolo che si affaccia centralmente dal primo piano del San Tommaso verso piazza del Lino. Lì sono approdati tanti giovani, che di quel contatto si sono nutriti e da quel contatto hanno preso vigore. Lì, come in una fucina feconda dove si forgiavano negli anni idee, ingegni e personalità, passavamo le giornate immersi nello studio, nella stesura di testi, nella ricerca e nella raccolta di documenti (oggi nella maggior parte conservati presso l’Archivio storico dell’Università di Pavia), ma anche della forma più adeguata per comunicare i contenuti, formulando e riformulando il pensiero e la sua espressione finché questo non diventava chiaro e immediato alla comprensione di tutti. Giorno dopo giorno, il Professore non si limitava a trasmetterci il suo vasto sapere, ma ci spingeva a un faticoso e fecondo sforzo di chiarificazione, insegnandoci un metodo che era nel contempo uno stile di vita. È nata così una vera e propria Scuola, innovativa, di studi sulla storia dell’integrazione europea, una generazione di studiosi che sono oggi dispersi in vari Istituti e Università, ma in cui si riflettono, comuni, le stesse radici.

“Più che un insegnante è stato un educatore – ha affermato in un’intervista recente su “La Provincia Pavese” Vittorio Poma, un suo vecchio allievo del Liceo scientifico “Taramelli” di Pavia, dove Majocchi è stato professore di Storia e Filosofia negli anni Sessanta e Settanta –. Intelligente, ironico, dal tratto umano non comune. Aveva la capacità di parlare ai giovani con un linguaggio vicino a loro. Comunicava motivazioni e passioni”. Platonicamente convinto che la verità è essenzialmente dialogica, considerava il dialogo come lo strumento più efficace per prender coscienza e dar forma compiuta al proprio pensiero e non risparmiava mai il proprio tempo nel dialogo con i giovani.

Una capacità di empatia umana, la sua, con i tanti giovani che lo attorniavano, che non dipendeva solo dalla sua straordinaria cultura e dalla sua abilità comunicativa, ma anche dalla sua capacità di ascolto, di mettersi ogni giorno in discussione, di essere Maestro nel senso più alto, socratico, del termine.

Per tutto questo gli siamo grati e sappiamo che resterà ancora con noi.

Daniela Preda

Ricordo di Gino Majocchi

Vorrei ricordare alcune qualità umane di Gino Majocchi, qualità che spesso non sono adeguatamente riconosciute in questo nostro difficile mondo, ma che fanno invece la differenza nel definire il valore di una persona e delle sue relazioni.

Vorrei ricordare la sua autentica gentilezza e disponibilità, la cura che sempre aveva verso le persone che incontrava e nello svolgere le azioni che promuoveva.

Penso alla cura che metteva nel suo insegnamento, nel far crescere i suoi studenti in autonomia, nel farli sentire importanti, davvero al centro del percorso formazione, nello sviluppare in loro una coscienza morale e una vocazione politica, nell’appassionarli alla conoscenza della storia, come scienza rigorosa ma anche come studio sempre connesso a un sentire civile, entusiasmandoli verso quell’ideale kantiano di pace e unità tra i popoli che per lui costituiva un vero imperativo categorico della ragione morale e politica.

Per generazioni di studenti, al liceo e all’università, per me come per molti altri più giovani di me, Gino è stato un punto di riferimento fondamentale per la nostra crescita. Da lui abbiamo imparato che cosa significhi, nella quotidianità della vita, fare della contraddizione tra fatti e valori una questione personale.

Così è stato anche per generazioni di militanti federalisti sparsi un po’ in tutta la penisola, perché Gino non si tirava mai indietro, era sempre disponibile con la sua squisita gentilezza ad andare a tenere una conferenza, un seminario, una lezione nelle scuole, anche nelle località più periferiche e impervie.

Ha così contribuito a far crescere generazioni di nuovi militanti e, dopo averli aiutati a crescere, non li chiamava presso di sé, per farne dei discepoli di un chiuso cerchio magico, ma li invitava a muoversi autonomamente e responsabilmente, ad andare sul territorio, a far nascere nuove sezioni.

Sapeva infatti che la forza di un movimento non è data da capi, gerarchie, dogmi, ma dalla fede e dalla libera volontà di apostoli desiderosi, come lui, di trasformare la loro fede in una parola operante, in grado di avvincere gli animi e di smuovere le montagne, e in una strategia razionale, di volta in vota lucidamente adattata alle mutevoli circostanze, per sforzarsi di incidere dialetticamente sulla dura scorza del mondo.

Per questo Gino è stato un grande militante e un grande dirigente politico. Con lui se ne va una parte importante e significativa della storia delle organizzazioni federaliste. Nell’impegno politico sapeva mettere quella tenacia e quella sopportazione alla fatica e alle cadute che, forse, solo i veri ciclisti come lui sanno coltivare nelle salite solitarie o nelle volate di gruppo.

Ricordo la sua cura nel preparare ogni iniziativa nei minimi dettagli, anche quelli meno appariscenti, quelli più umili. Lo rivedo mentre, già dirigente nazionale ed europeo del movimento, spazzava e riordinava da solo la sede prima di un incontro cui dovevano partecipare con lui importanti personaggi.

Da lui ho imparato molto e gli ho voluto bene come a un padre perché aveva verso di me, come verso molti e molte altre, quella cura paterna che si mette nel seguire, anche a distanza, la vita di una figlia fragile, che ogni tanto bisogna andare a recuperare quando si sta perdendo.

Per questo lascia in molti di noi un vuoto incolmabile, che ci unisce tutti in un comune dolore.

Gino però non ci lascia soli perché i semi gettati da lui e attraverso di lui nel cuore di molti e molte continueranno a germogliare per lungo tempo a venire.

Antonella Braga

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