Lo SCAF europeo: una svolta politico-industriale per l’UE, ma non per l’Italia

, di Domenico Moro

Lo SCAF europeo: una svolta politico-industriale per l'UE, ma non per l'Italia

Nel luglio del 2017, due mesi dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica francese, Macron e Merkel annunciavano di voler «développer un système de combat aérien européen, sous la direction des deux pays”. Il progetto assumeva una forma più precisa poco meno di un anno dopo, quando, il 25 aprile 2018, Airbus e Dassault affermavano d’“avoir signé un accord pour développer et réaliser le Système de Combat Aérien Futur” (SCAF nell’acronimo francese, oppure FCAS nell’acronimo inglese di Future Combat Air System).

Benché Macron, nell’occasione, abbia parlato di “una profonda rivoluzione” e le due imprese europee di “accordo storico”, pochi commentatori ne hanno sottolineato l’importanza. L’intesa tra i due paesi è, in effetti, storica. Essa sana una frattura, sul piano politico e industriale, che aveva diviso l’industria aeronautica europea per circa mezzo secolo. Prima di questa intesa, l’industria francese produceva i propri velivoli militari e il resto dell’industria europea, sotto la regia dell’industria aeronautica britannica, i suoi, come il Tornado e l’Eurofighter Typhoon.

A seguito dell’iniziativa franco-tedesca, il 14 febbraio di quest’anno la Spagna ha aderito ufficialmente al progetto, e il Ministro della Difesa belga, Didier Reynders, ha recentemente annunciato davanti al Parlamento che sono state avviate le trattative per la partecipazione del Belgio. Rispetto ad un’iniziativa europea a tutti gli effetti, l’Italia è orientata a partecipare al programma del velivolo di nuova generazione annunciato lo scorso anno dalla Gran Bretagna, il progetto Tempest.

Poiché può essere utile valutare la sostenibilità finanziaria dell’investimento in un progetto di questa portata, un buon punto di riferimento è l’F-35 americano, limitandoci a prendere in considerazione gli investimenti in ricerca, sviluppo, test e valutazione (RDT&E), per una ragione fondamentale: l’importanza di questi investimenti in “materia grigia” non è un fatto episodico, legato allo specifico velivolo preso in considerazione: è l’indicatore del passaggio dal modo di produzione industriale a quello scientifico-tecnologico, in cui essi peseranno sempre di più rispetto a quelli in capitale fisso.

Secondo il Rapportodella Corte dei Conti dell’agosto 2017, gli investimenti in RDT&E dell’F-35 sono stati stimati in 55,3 miliardi di dollari. I dati più recenti del Congressional Research Service (CRS), portano la cifra a 59,8 miliardi di dollari. Non è chiaro se il CRS comprenda o meno i 10,8 miliardi di dollari relativi allo sviluppo del software, l’innovazione più rilevante, oltre alla tecnologia stealth, del velivolo. In ogni caso, poiché, come sostiene l’esperto Keith Hartley, le nuove piattaforme militari sono sempre più costose di quelle precedenti e se il Tempest è un velivolo di generazione successiva a quella dell’F-35, occorrerebbe attendersi un volume di investimenti in RDT&E superiore al precedente: qui si ipotizza invece un valore costante e pari a 60 miliardi di dollari.

Se, come nel caso americano, oltre i tre quarti della spesa in RDT&E sono a carico dei governi inglese ed italiano, rapportandola al rispettivo volume di risorse finanziarie disponibili per la difesa, si può avere un’idea della sua sostenibilità: la cifra è pari a circa il 10% del bilancio annuo della difesa degli USA, mentre è quasi tre volte l’intero bilancio della difesa dell’Italia. L’investimento sembra dunque alla portata dei primi, ma non della seconda, anche se suddiviso con lo UK.

Hartley ha spesso sostenuto che quello aeronautico è un settore in cui le economie di scala sono decisive. Perciò, la vera domanda cui occorrerebbe rispondere è: chi comprerà il Tempest e, quindi, quanti se ne potranno produrre? Il Typhoon, progetto multinazionale europeo, è stato prodotto in poco più di 600 esemplari e l’F-35 è previsto venga prodotto in 2.400 esemplari: parrebbe problematico, per il Tempest, raggiungere questi livelli di produzione.

Velivoli di quinta generazione, attrezzati per le net-centric operations, come l’F-35 e, a maggior ragione, quelli di generazione successiva, presentano problemi ulteriori: i limiti alla sovranità dei paesi terzi che decidono di acquistarli, invece che produrli in proprio. Questi non sono solo dovuti alla fornitura dei pezzi di ricambio, ma trattandosi di un velivolo che ha innovato nel software di bordo e, soprattutto, nel sistema informativo Autonomic Logistics Information System (ALIS), essi sono ancora più evidenti, in quanto si dipenderà dal fornitore anche per l’aggiornamento del software.

ALIS, semplificando, è un hub informatico mondiale, con sede negli USA, utilizzato per tenere traccia dello stato dei velivoli in tutto il mondo e gestire in modo proattivo la fornitura dei pezzi di ricambio. Detto in altri termini, si tratta di un software che, oltre a determinare quando serve la manutenzione di un pezzo, è a conoscenza delle missioni che vengono compiute dai velivoli su scala mondiale, qualunque sia il paese di appartenenza della flotta.

Ad oggi, questo serio problema di sovranità è stato affrontato in tre modi. Israele, ha attivato la sua forza contrattuale, politica e tecnologica, rifiutando di essere connessa con l’infrastruttura globale americana ed ha sviluppato un proprio software domestico. La Germania ha licenziato il Capo di stato maggiore dell’aeronautica perché voleva acquistare l’F-35 ed ha riaperto la trattativa con Airbus e Boeing. Non è ancora noto come si risolverà la vicenda, ma forse una cosa si può dire: con il suo rifiuto, la Germania ha voluto evitare di essere integrata nell’infrastruttura di difesa americana. L’Italia, a parte qualche misura volta a limitare la trasmissione di informazioni all’hub americano, fatte presenti dalla Corte dei Conti, ha ottenuto solo un compromesso, prevedendo il distacco, su territorio rigorosamente americano, del proprio personale per il quale, il sistema ALIS, in teoria, sarebbe “for their eyes only”.

A partire dalla presentazione del Rapporto Shared Vision, Common Action: A Stronger Europe, da parte di Federica Mogherini, l’UE ha fatto i primi passi importanti verso una difesa comune europea: l’iniziativa franco-tedesca-spagnola e, in un prossimo futuro, belga, sul piano politico-industriale è un passo decisivo in quella direzione. E l’Italia?

Come ha dichiarato, in una recente intervista, l’amministratore delegato della società Leonardo, parlando della partecipazione italiana al progetto inglese Tempest, “Tempest verrà aperto alla partecipazione di altri paesi. Auspico la convergenza con francesi e tedeschi”. Va da sé che è più che razionale pensare ad un unico progetto europeo per un velivolo di nuova generazione ed estremamente costoso. Il punto, però, sta in chi dovrà fare il primo passo per l’accorpamento dei due progetti: difficile che a farlo sia la compagine franco-tedesca-spagnola-belga. Comunque vada a finire la Brexit, il potere contrattuale della Gran Bretagna sembra significativamente ridimensionato, mentre quello dell’Italia, con gli attuali problemi di finanza pubblica e quelli che si profilano all’orizzonte, non compensa certo la debolezza britannica.

Il fatto è che l’Italia è di fronte ad un problema strutturale e che riguarda il detentore della quota di maggioranza relativa in Leonardo: il governo italiano. L’Italia sconta la mancata presenza nella principale industria aeronautica europea, Airbus, in cui dovrebbe invece essere presente, con una quota almeno pari a quella di Francia e Germania, se necessario conseguita con la cessione della propria partecipazione in Leonardo ad Airbus.

Fonte immagine: Flickr.

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