Lettera ai giovani federalisti

, di Antonio Argenziano

Lettera ai giovani federalisti

Cari giovani federalisti,

Coraggio e Responsabilità

Su questi concetti rilanciamo l’impegno politico su ogni livello. Individuale, collettivo ed istituzionale.

La crisi generale che ci attanaglia va ben al di là dell’emergenza sanitaria degli ultimi mesi. Prolifera a causa dell’inadeguatezza degli strumenti politici con cui si cercano di governare fenomeni nuovi, di dimensioni mai sperimentate prima. La quarantena sta mettendo alle corde l’intero mondo globalizzato. Proprio le città più grandi, più aperte agli scambi sono quelle ad essere più colpite dai contagi. Essi si sono diffusi ad enorme velocità grazie alla facilità di spostamento e all’interconnessione che caratterizzano il nostro mondo. Il virus è invisibile, ma ha evidenziato, con colori netti, l’obsolescenza del linguaggio della politica, ancora ebbro di ragionamenti su aree di influenza, confini, e sovranità assoluta. I muri che stavano sorgendo in tutto il mondo e in tutta Europa si sono dimostrati in tutta la loro folle inutilità. Completamente incapaci di provvedere alla «sicurezza» dei cittadini, restano lì a ricordarci quanto poco la politica e la retorica attuali siano allineate alla realtà; di quanto stupidi e superficiali sappiamo essere.

Rinchiusi nelle nostre case, siamo obbligati ad affrontare tutti i nostri demoni.

Solitudine e frustrazione dominano le giornate al punto da sentire la necessità di urlare dalla finestra che andrà bene, che tutto ciò passerà, per provare a convincere in primis noi stessi. L’abbraccio di amici e familiari però ci manca. Ci manca la quotidianità. Ci manca persino essere stipati in un autobus, in un treno o in un aereo. Gli amici sparsi in tutta Italia e in tutta Europa non sono mai sembrati così distanti e davanti ad uno schermo non si può far altro che ripetere: «ci rivedremo, quando tutto sarà finito».

Quando sarà finito, però?

Leggendo i dati ci sforziamo di trovare l’indizio positivo, di vedere la fine del tunnel. Avere certezze sui tempi è estremamente difficile, ma concentrarsi sul «quando» è un ottimo modo per deviare dal vero interrogativo: «sarà finito»? Una risposta parziale, ma certa, al quesito c’è già. Finirà magari l’emergenza, ma «finito» non vorrà dire tornare indietro e far finta che nulla sia accaduto. Non si torna indietro, mai, e a maggior ragione non si torna indietro questa volta.

Saranno rivoluzionate la nostra quotidianità, la vita sociale, gli equilibri e i sistemi istituzionali. In che direzione andrà però questa rivoluzione? Potremmo ripeterci che «andrà tutto bene», ma non è vero; o meglio, non è detto.

Non basta aspettare e subire, ma serve rialzarsi e reagire, con coraggio e responsabilità

Ciascuno di noi può e deve farlo ricostruendo legami sociali, condividendo idee, ma soprattutto ascoltando e dialogando con amici, familiari e conoscenti. Viviamo nell’era digitale e abbiamo gli strumenti per ricostruire reti sociali anche senza doversi necessariamente spostare. Gli spesso vituperati corpi intermedi, le associazioni, di ogni tipo, sono proprio lì, più necessarie che mai. Servono a ricostruire un dibattito pubblico, che sostituisca l’individualistica parcellizzazione dell’informazione con nuove piattaforme collettive. Devono contribuire alla costruzione di una nuova narrazione per il mondo in cui viviamo; a farci alzare tutti la testa, per guardare finalmente al futuro in cui vorremmo vivere.

Non c’è nessuna retorica in tutto ciò. La ricostruzione post-emergenza sarà difficilissima, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. Tutto ciò che servirebbe sapere è che tuttavia un piano vero e concreto esiste; che si sta seguendo una strada, magari tortuosa, ma che essa porterà anche al di là delle prossime elezioni o della prossima riunione di capi di Stato.

Nel mondo di oggi la speranza è però stata la prima a morire, massacrata da abbietti calcoli elettorali e dalla totale assenza di una visione comune. I valori della nostra civiltà sono ridotti a vuoti slogan, da utilizzare per abbellire qualche arringa perché «si sa» che nella pratica valgono poco. Valgono talmente poco che in alcuni Paesi dell’Unione europea è messa apertamente in discussione persino la libertà di pensiero. Sono talmente bistrattati che le più alte autorità morali d’Europa e di tutto il mondo, si sentono obbligate a lanciare appelli alla solidarietà, alla pace, alla tolleranza.

A pensarci bene non c’è nessuna normalità a cui sarebbe auspicabile ritornare.

Dove dirigere allora la «nostra rivoluzione»?

La prima e più urgente risposta da dare è quella all’emergenza sanitaria e alla conseguente crisi socio-economica. Le istituzioni europee hanno fatto e stanno facendo il possibile, ma non basta. Gli attori politici che hanno maggiore voce in capitolo sono, ancora una volta, i governi nazionali, che continuano a planare da un’emergenza all’altra a suon di compromessi al ribasso. Il mondo crolla e noi europei siamo ancora bloccati nel vicolo cieco dei diritti di veto e degli interessi singoli. Un bene comune europeo, fatica così ad emergere, nonostante ne riconoscano tutti la necessità. Se infatti gli egoismi nazionali dovessero trionfare, a morire sarebbe il modello politico e sociale che ha definito l’Europa negli ultimi decenni. Il definitivo crollo del modello politico europeo vuol dire che potrebbero non essere più garantiti quei beni pubblici che diamo fin troppo per scontati, a partire magari dalla sanità pubblica, tanto di attualità in questi giorni, per arrivare ad ammortizzatori sociali, all’istruzione pubblica, ai diritti civili, ecc.

Un utile esercizio per tutti, a partire dai più scettici, potrebbe essere allora fermarsi un secondo, chiudere gli occhi, e provare ad immaginare in che mondo vorrebbe vivere nei prossimi anni. Se i suddetti beni pubblici, ne fanno parte, la solidarietà europea non è una possibilità, ma una necessità politica e storica.

Sia bene inteso. Chiedere solidarietà non è mendicare concessioni ad altri Paesi europei. La solidarietà tra Stati si realizza nel momento in cui essa sarà istituzionalizzata. Quando ci saranno cioè regole comuni, stabilite a priori, che definiscono con chiarezza i meccanismi decisionali da applicare soprattutto in momenti di crisi, andando al di là delle preoccupazioni quotidiane per i sondaggi nazionali, perché sarà riconosciuto che in ballo c’è molto di più.

Siamo alla vigilia di una riunione del Consiglio europeo che potrebbe essere storica. Sul tavolo le proposte elaborate dall’Eurogruppo e la possibilità di creare strumenti europei di debito. Difficile prevedere il risultato del braccio di ferro, ma è bene che la voce dei federalisti sia forte e chiara. Qualsiasi decisione che emergerà - ammesso che ce ne sia una - si incentrerà molto probabilmente su qualche ibrido istituzionale, su qualche ulteriore accordo che, magari in maniera molto complicata, potrà fornire almeno una parte del sostegno economico di cui tutta l’Unione ha bisogno in questi tragici tempi. Se è certamente auspicabile e necessario che tale accordo ci sia, noi federalisti dobbiamo pretendere che esso non sia fine a sè stesso.

Per vedere finalmente la luce in fondo al tunnel serve infatti un piano di ampio respiro. Dobbiamo allora chiedere che qualsiasi sia il risultato di tale compromesso, esso dovrà essere semplicemente una base temporanea per una necessaria riforma dei trattati che affronti, finalmente, il problema delle risorse proprie dell’UE e che crei una capacità fiscale europea, con il fine di assicurare su scala continentale quei beni pubblici sopra menzionati e continuamente minacciati dalle contingenze. La fiducia nel progetto di integrazione europea è meno forte di un tempo perché quest’ultimo ha perso quella idealità trascinante che lo ha caratterizzato in passato.

L’Europa è il sogno concreto di un mondo di pace, in cui libertà, democrazia e diritti siano certezze su cui costruire, e non siano continuamente messi in discussione.

Concretamente allora, serve rinnovare la fiducia tra cittadini ed istituzioni europee.

Ci era stata promessa una Conferenza sul futuro dell’Europa. Chiediamo venga rilanciata, nella seconda metà del 2020, con il preciso scopo di rinnovare il Patto Costituente tra cittadini ed istituzioni, ad ogni livello.

Il mondo globalizzato dopo il coronavirus sarà diverso, per affrontarne le sfide, in maniera attiva e propositiva, ci sarà bisogno dunque di una nuova Europa, che avrà finalmente superato il pantano dello status quo, lasciandosi alle spalle il superato sistema di stati nazionali.

In questo scenario, anche il ruolo del Parlamento Europeo può e deve essere di primo piano. Saranno infatti, nelle prossime settimane, riaperte le trattative per il Quadro Finanziario Pluriennale dell’Unione. Il Parlamento ha potere di veto in caso di compromessi al ribasso, e avrà dunque modo di chiedere, per una volta, ai governi di essere ambiziosi e di aprire questa nuova fase di riforme a livello europeo di cui c’è disperato bisogno.

La Direzione nazionale della Gioventù Federalista Europea (GFE) ha riassunto, nel documento che trovate allegato, le proprie richieste e posizioni politiche. I prossimi giorni saranno di mobilitazione per trasformare idee in concrete azioni ed incidere, tutti uniti, sul mondo in cui viviamo, per contribuire alla costruzione del migliore dei mondi possibili.

State pronti allora. State pronti ad organizzare altri momenti di confronto online, ad intraprendere campagne social. Stati pronti a grandi iniziative paneuropee. Il pensiero della GFE è chiaro, ora si passa all’azione.

La quarantena ci ha obbligato ad una pausa di riflessione. Sfruttiamola per riscoprire chi siamo e dove vogliamo andare, individualmente, collettivamente e dal punto di vista politico-istituzionale. L’emergenza prima o poi finirà e come Spinelli e Rossi scrivevano nel Manifesto di Ventotene, «sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi: del Movimento per un’Europa Libera e Unita».

A ciascuno di noi la possibilità di contribuire, umilmente, con il proprio granello di sabbia, mostrando, nei fatti, il Coraggio di guardare avanti.

Un saluto federalista,

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