Le pensioni in Italia e in Europa. Problemi sistematici e possibili soluzioni

, di Simone Giorgione

Le pensioni in Italia e in Europa. Problemi sistematici e possibili soluzioni
Fonte: Image by Steve Buissinne from Pixabay, https://pixabay.com/photos/women-friends-friendship-helping-1577910/

Il sistema pensionistico italiano può essere visto come una continua rincorsa tra le contribuzioni dei lavoratori e una spesa pensionistica in perenne fuga. C’è chi è riuscito a raggiungere la pensione in età longeva, i cosiddetti baby pensionati; c’è chi ha utilizzato degli escamotage come APE sociale per andare prima in pensione e chi sta approfittando della riforma cosiddetta “Quota 100”, adottata in via sperimentale nel triennio 2019-2021.

Il tema centrale che ha caratterizzato le riforme pensionistiche dei governi italiani nel corso degli anni è stato sicuramente l’età pensionistica che, a partire dalla riforma Amato del 1992 fino ad arrivare alla riforma Fornero del 2011, ha visto un suo progressivo e lento innalzamento. La domanda che tutti si pongono solitamente quando si arriva a pensare alla famigerata pensione è sempre la stessa: quando posso ottenerla? In base alla riforma Fornero [1].

Con l’uscita dal mondo del lavoro si otterrebbe quindi in teoria un assegno più basso di quanto si sarebbe prospettato con la precedente riforma Fornero a causa dei minori contributi versati ma, secondo i promotori di questa modifica, essa permetterebbe l’ingresso nel mercato lavorativo a nuove forze, favorendo l’uscita dei più anziani e spingendo verso quel richiesto ricambio generazionale.

Per quanto intuitiva l’idea della riforma possa essere, si basa sul preconcetto dell’esistenza di un numero di posti di lavoro disponibili limitato, ottenendo così dei buoni risultati forse nel breve termine, ma che poi non trova un riscontro empirico nel lungo periodo. Difatti, in un’economia che cresce, il numero di posti di lavoro non può che a sua volta crescere e gli studi mostrano come non esista una maggiore occupazione degli anziani a discapito dei più giovani, bensì bisogna comprendere che i lavoratori giovani ed anziani sono tra di loro complementari proprio per l’esperienza maturata da quest’ultimi nel corso degli anni di lavoro [2].

Un’altra argomentazione dei sostenitori della riforma di “Quota 100” è sicuramente l’età di pensionamento troppo elevata con la precedente riforma Fornero. Anche in questo caso i dati ci mostrano un esito differente. Prima di tutto bisogna fare una distinzione tra l’età effettiva di pensionamento e quella teorica fissata dalla legge. Quest’ultima infatti usufruisce di svincoli, agevolazioni e incentivi che differiscono da paese a paese. In Italia si ottiene così un’età effettiva di pensionamento di circa 63,3 anni per gli uomini e di 61,5 anni per le donne.

Questi valori sono ben al di sotto delle medie OCSE sia per gli uomini (65,4 anni per la media comparata) che per le donne (63.7 anni). Se osserviamo poi l’aspettativa di vita dopo l’uscita dal mercato del lavoro notiamo che in Italia è prevista una pensione di circa 20,7 anni per gli uomini e 25,7 anni per le donne posizionando l’Italia al quarto posto dietro solo Giappone, Svizzera e Spagna. [3]

L’uscita anticipata dal mercato del lavoro è diventata possibile dal 2019 a 63 anni di età, in due modi: una prestazione ampiamente sovvenzionata subordinata a requisiti speciali (APE sociale) e un prestito con un tasso d’interesse preferenziale per finanziare le future pensioni (APE volontario). I dati riportati fanno riferimento a riforme pensionistiche precedenti a quella di “Quota 100” e che ci fanno ben comprendere che non solo in Italia si andava e si andrà prima in pensione, ma che verranno erogate per un periodo di tempo superiore rispetto alla media dei paesi OCSE.

Questo si riflette in un rapporto tra spesa per le pensioni e Pil pari al 16,2% [4] secondi dietro alla Grecia con un rapporto pari al 17,4%. La spesa per le pensioni comprende sia la quota previdenziale che assistenziale, in quanto da un punto di vista economico la distinzione è superflua trattandosi di spese erogate a cittadini, relativamente anziani, che non sono corrisposte in cambio di prestazioni lavorative e che quindi rispettano non solo la definizione di pensione a fini statistici, ma anche la logica di una pensione, ovvero un reddito corrisposto a chi non lavora e ha superato una certa soglia d’età.

È inoltre irrilevante il modo in cui queste spese vengono esaminate dato che gravano sui conti pubblici e che vanno comunque coperte dallo stato con tasse o deficit, se i contributi versati nel periodo stesso dai lavoratori non sono più sufficienti, come sta accadendo negli ultimi anni. Difatti il bilancio dell’istituto nazionale della previdenza sociale da molti anni registra perdite in bilancio che devono essere coperte da trasferimenti dello stato a causa del numero troppo basso di contributi versati dai lavoratori.

E qui si giunge ad un ulteriore criticità del nostro sistema pensionistico, ovvero il basso numero di contributi dovuto all’andamento demografico del nostro paese. In Italia oggi sia l’aumento della speranza di vita che il calo della natalità causano una riduzione del rapporto tra il numero di persone non anziane, ovvero nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 64 anni, e il numero delle persone anziane, ovvero con un età superiore o eguale ai 65 anni, raggiungendo un valore pari a 2,7. Cosa significa esattamente ciò?

Il dato di 2,7 sta ad indicare che per ogni anziano di 64 anni bisognerebbe che a farsene carico siano tre lavoratori che versano regolari contributi. Le cose non migliorano se consideriamo il consistente calo di immigrati presenti e lavoranti nel nostro paese, che permetteva di coprire il deficit di questo rapporto grazie ad un flusso extra di contributi.

Secondo uno studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale, il tasso di crescita della produttività di un paese avanzato come il nostro sembra essere correlato negativamente al tasso di invecchiamento della sua popolazione. Di risposta, un ordinato e graduale afflusso di immigrati non può che giovare all’economia di un paese strutturato, demograficamente ed economicamente, come il nostro, nonostante la tipologia di lavori svolti dagli immigrati ricadano nella categoria dei poco specializzati.

Una soluzione che permetterebbe in teoria di rendere il sistema pensionistico nuovamente più sostenibile consisterebbe nell’incrementare il tasso di fertilità italiano. È una strategia di lungo termine già sperimentata in altri paesi dove misure a sostegno del welfare e della famiglia hanno garantito un aumento delle nascite.

Queste misure sono però particolarmente costose e non sono virtualmente adottabili da un paese come l’Italia, se non con un loro finanziamento tramite, ad esempio, la costante lotta all’evasione fiscale o un rinnovato ricorso alla strategia di indebitamento. La riforma sperimentale di “Quota 100” si pone quindi in controtendenza non solo rispetto a tutte le riforme introdotte dal 1992 ma anche rispetto alle riforme pensionistiche di altri paesi dell’OCSE stesso a causa proprio delle particolarità finanziarie ed economiche del paese.

Volendo riassumere la situazione attuale, quindi, abbiamo che in Italia si va teoricamente in pensione più giovani rispetto gli altri paesi dell’area OCSE, nonostante si abbia il secondo debito pubblico più elevato in Europa. I contributi versati dai lavoratori non permettono di garantire un equilibrio economico con la spesa pensionistica, che deve essere costantemente coperta con nuova spesa in deficit da parte del governo. Contemporaneamente, il flusso migratorio è in costante diminuzione contribuendo cosi a incrementare il peso delle pensioni sulle nuove generazioni.

L’unica strada percorribile, se si pensa in funzione ancora nazionale, sembrerebbe essere quella di ridurre il numero di pensionati, ritardando l’età di pensionamento stessa e abbandonando quindi una riforma come ““Quota 100”, tutelando il più possibile categorie come i lavoratori autonomi che percepiscono redditi pensionistici mediamente inferiori rispetto ai lavoratori dipendenti. In uno Stato di diritto quale dovrebbe essere il nostro, è necessario infatti continuare a garantire la salvaguardia dei diritti dell’uomo, e in particolare il diritto ad una pensione adeguata sia per le persone anziane che, contemporaneamente, le generazioni future.

Contemporaneamente, però, se si superano i confini nazionali si può arrivare a prospettive diverse che possono essere soluzioni altrettanto valide. In primo luogo, sarebbe pensabile ad uno schema pensionistico di tipo europeo, basato sulla fiscalità comune, che vede quindi un ruolo di maggior rilevanza per il bilancio europeo stesso. Mirando ad integrare il sistema pensionistico di quei paesi che come l’Italia e la Spagna stanno soffrendo delle problematiche di cui sopra, si potrebbe mirare ad abbassare il tasso di rischio della povertà, che nel 2017 si era attestato al 16,9% [5]. Per esempio, prendendo l’Italia come esempio, si potrebbe ipotizzare di integrare una pensione minima in Italia di circa 515 euro fino alla soglia minima di povertà relativa, che nel caso italiano è di 1085,22 euro.

Da un lato, cosa che spesso viene rinvangata dai cosiddetti “paesi frugali”, sarebbe un costo europeo forse non indifferente, ma che permetterebbe alle istituzioni europee di entrare più in contatto con i suoi cittadini, andando a farsi sentire in un campo tendenzialmente della sfera nazionale che ha, pragmaticamente, anche un alto impatto sull’andamento politico nazionale. Non meno rilevante, l’idea di uno schema pensionistico europeo sarebbe una grande vittoria per lo spirito europeo stesso.

Non solo però pensioni europee. Una delle chiavi di volta del fallimento del sistema pensionistico come strutturato, ad oggi, risiede in quella impossibilità di sostituire a parità di versamenti contributivi la forza lavoro passata. Le politiche di natalità come modellate nei paesi del Nord Europa possono essere vincenti, sul lungo termine, e andrebbero spinte su chiave europea. Il problema, infatti, non è solo italiano. Allo stesso tempo, come precedentemente affermato, l’immigrazione ha spesso coperto alcuni dei buchi dei finanziamenti della spesa pensionistica stessa. Una politica migratoria su scala europea, che sia capace di integrare il flusso proveniente dall’estero in un sistema economico e sociale che possa offrire uno spazio integrativo efficiente, potrebbe portare energie fresche a quella “Fortezza Europa” che sta diventando sempre più ingrigita dal tempo. Un mix di finanziamento alla natalità e un flusso migratorio virtuoso, possibilmente lontano dalle mani di gruppi mafiosi e criminali dagli interessi divergenti, potrebbe essere la soluzione per riavviare il sistema pensionistico e riportarlo verso quel sistema, teorico, che dovrebbe vedere un flusso continuo tra lavoro e pensioni che non sia di danno al futuro dei lavoratori stessi e che permetta una vita decente, rispettando quelle carte dei diritti fondamentali firmate dall’Unione e dai suoi stati membri, dei pensionati.

Note

[1https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2011-12-27&atto.codiceRedazionale=11A16582][ occorrevano sessantasei anni sia per gli uomini che per le donne, con almeno venti anni di contributi versati.

Con il D.L. del 28 gennaio 2019 n.26 è stata introdotta una modifica a tale riforma, la cosiddetta “Quota 100”, secondo la quale occorrono trentotto anni di contributi e almeno sessantadue anni per ottenere una pensione minima calcolata con il metodo contributivo[[https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/01/28/19G00008/sg

[3OECD (2019), Pensions at a Glance 2019: OECD and G20 Indicators, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/b6d3dcfc-en.

[4La spesa per le pensioni comprende le liquidazioni di fine rapporto (TFR), che non sarebbero pensioni ma spettano comunque ai non lavoratori in un’unica soluzione anziché in modo periodico. Essi si corrispondono allo 0,4 % del Pil, ben poca cosa.

[5Il tasso dell’UE-28, calcolato come media ponderata dei risultati nazionali, nasconde rilevanti differenze tra gli Stati membri dell’UE. Per maggiori informazioni si rimanda a https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Income_distribution_statistics/it&oldid=102553#Disparit.C3.A0_di_reddito

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom