L’ennesimo scontro che si sta consumando tra le forze militari israeliane e le milizie di Ḥamās è solo l’ultimo tassello di un complesso domino di eventi che, ciclicamente, consegnano alla cronache razzi, bombe, strumentalizzazioni da più lati, odio reciproco tra fondamentalisti e la sensazione che a volte non vi siano vie di uscita che non siano violente. I toni risoluti tanto di Ḥamās che di Netanyahu – e rispettivi entourage – fomentano lo scontro visto come la soluzione unica e possibile a quella che è la oramai decennale sfida per la sopravvivenza? Il dominio della regione? La complicata matassa dei fili che si interconnettono nella regione diventa tanto complessa quanto ramificata e difficile da districare.
Da un lato si hanno i palestinesi, con nient’altro che il desiderio di vivere una vita che possa essere considerata decente, adeguata, piena. Il desiderio di, insomma, qualsiasi abitante sensato del pianeta blu del sistema solare. Un desiderio che si scontra con le frange estremiste che hanno sistematicamente mosso i tasselli di Israele trasformando l’idea di uno stato-rifugio per gli ebrei del mondo – perseguitati per eccellenza – in uno stato-apartheid, dove lo schieramento ideologico diviene il metro di valore e giudizio. Un mondo bipolare, quello dei fondamentalisti, in cui vi è un “giusto” e uno “sbagliato”. Il secondo deve dar spazio al primo. In media, lo sbagliato è l’abitante palestinese-arabo che si vede negati i propri diritti all’esistere civile, sfrattato e rigettato metro dopo metro più lontano dalla propria ancestrale casa.
Ḥamās è la risposta più classica che ci si poteva aspettare da una simile condizione. Davanti all’offesa e all’incapacità di qualsiasi altra istituzione di difendere i diritti dei palestinesi, una frangia ha deciso che al fuoco si rispondeva col fuoco. Certo, non un fuoco neutrale, ma alimentato da attori regionali con discreti interessi politici, religiosi e storici, del volersi liberare tanto di Israele quanto di ciò che rappresenta come testa di ponte degli Stati Uniti nella regione. Ḥamās ha risposto al fuoco col fuoco, alimentando però la spinta estremista israeliana che taccia tutto ciò che è palestinese come un nemico, un terrorista e un pericolo da eliminare.
Nella realtà questo giro di azione e reazione possiamo girarlo nel tempo e rimandarlo indietro fin quando ci pare, riuscendo sempre a trovare una vittima e un carnefice, una risposta che inverte le parti e che rigira la clessidra per un altro turno, prima dell’ennesima guerra. Gli israeliani accusano le nazioni arabe di aver iniziato loro stesse il conflitto. Gli arabi accusano gli israeliani di aver invaso le terre, occupando e insediandosi lì dove un popolo già c’era e già viveva. Non scenderò nel dettaglio di queste affermazioni, per il solo problema che richiederebbe interi libri perché il fenomeno sia sviscerato, anno per anno. E anche sviscerando il problema, quello che ne ricaveremmo sarebbe un arazzo preciso e attento di un mondo che oramai è scomparso. Il nostro problema è il 2021 AD. L’attore di cui ci interessa parlare non sono strettamente gli israeliani e i palestinesi, ma è l’attore Europa – tanto inteso come Unione europea che come la singolarità degli stati membri.
L’Europa, rispetto al Medio Oriente, possiamo dire che ha un rapporto a dir poco ambivalente. L’abbiamo attaccata e conquistata a più riprese nel corso della storia, dai tempi di Roma passando per le Crociate, per poi ritrovarla nuovamente sotto un mandato occidentale con la caduta della Sublime porta ottomana. Come in Africa, una mancata conoscenza del complesso mosaico etnico-religioso dell’intera area, e non parliamo qui solo della Palestina, ha portato a disegnare un mondo tanto complicato quanto non-sostenibile. La divisione in mandati non ha retto l’urto con la Seconda guerra mondiale e un mix di fattori, tra cui l’incapacità delle potenze europee di mantenere il proprio ruolo nella regione, ha portato allo scarica-barile con un ente – le Nazioni Unite – che appena nate si son ritrovate una polveriera sotto le mani, una polveriera già accesa che non son riuscite né a spegnere né a far deflagrare in maniera sicura, con i risultati che tutti conosciamo.
Nel corso del XX e inizio XXI secolo, l’Europa si è mossa in Medio Oriente per lo più come un elefante in una cristalleria – l’intervento francese in Libia nel 2011 ne è una prova evidente. Soprattutto, si è mossa con goffaggine verso tanto i palestinesi quanto gli israeliani. Nei secondi, hanno trovato una sottospecie di “prototipo di democrazia” in apparenza sufficientemente saldo da dimostrare la possibile esportazione in ogni parte del globo, anche in quelle più complicate, dei valori social-liberali e di tutto ciò che l’Occidente – e gli Stati Uniti in prima linea – pensavano fosse idealmente giusto sostenere. Se c’è una cosa che Israele anzi ci ha ultimamente dimostrato, è la controprova che la democrazia è un sistema che si costruisce su solide basi storico-culturali e che, nel momento in cui diventa lo strumento con cui una maggioranza bene armata e tecnologicamente superiore decide cosa fare della minoranza – non numerica, in questo caso – senza coinvolgerla nel processo decisionale, ma solo scacciandola come si potrebbero scacciare delle mosche fastidiose, allora la democrazia è un totale fallimento.
Invece di sostenere acriticamente Israele e il suo regime poliziesco e di apartheid, gli stati europei dovrebbero cominciare a chiedersi quanto abbia pesato il proprio ruolo nel decidere le sorti di questa funesta regione e cosa voglia fare. Non cosa fare, no, perché a quello ci si arriva in un secondo posto. Le nazioni europee, e l’Unione europea, devono iniziare dal semplice tassello: cosa voglio che si realizzi in Medio Oriente? Perché fondamentalmente è qui il vulnus di tutta la questione. Potenzialmente, si può fare qualsiasi cosa. Lo ha dimostrato il trattamento riservato alla Rhodesia durante gli anni ’60 e ’70. Uno stato basato sull’apartheid che per il chiaro, visibile trattamento discriminatorio di una componente della popolazione è stato sistematicamente isolato dalla comunità internazionale, eccetto il vicino e sponsor sud-africano.
Le soluzioni, drastiche o meno drastiche che siano, esistono e sono sul tavolo, da molti anni. Quello che manca, o anzi, non che manca ma che non si è manifestato fino ad ora, è l’intenzione di come si vogliono usare le carte che le nazioni europee hanno in mano. Parlo di nazioni europee, in primo luogo, perché arriveremo solo dopo all’Unione. L’Unione non è ancora così vecchia da potersi dire responsabile per l’origine della catena di eventi che ci ha portato al conflitto che, al momento della scrittura, ha reclamato duecento persone e migliaia di feriti. Alle nazioni europee, semplicemente, non è assolutamente importato nulla del futuro della regione, se non nella classica, banale, noiosa ottica di pura geopolitica e di interessi economico-militari. Che, sì, sono sacrosanti – o forse erano sacrosanti – ma che almeno si abbia il coraggio di manifestarli. Israele è un attore forte nella regione. Uno stato solido, tecnologico, relativamente ricco, bene armato. Intrattiene da decenni ottime relazioni con le potenze europee mediterranee – come con l’Italia, con cui condivide numerosi accordi di collaborazione scientifica, ad esempio – ed è un attore che, almeno in parte, le nazioni europee capiscono. L’instabilità regionale, alimentata da movimenti interni e forze esterne, la compenetrazione russa in Siria e quella cinese con la sua BRI, logicamente spingono gli occidentali a cercare il supporto della nazione che, più di altre, può offrirgli un’ottima sponda nella regione.
È un calcolo quasi matematico, in cui il valore delle vite palestinesi vale meno dei droni che si possono produrre in collaborazione con l’avanguardistica industria aerea israeliana. Questo è il gioco dello stato-nazione. Lo è sempre stato, inutile che ci si giri intorno. È il calcolo che gli esperti di politica e di questa soft science pongono sempre in risalto, di qualsiasi paese si tratti. Ci sono interessi e tali interessi devono essere raggiunti. Ogni mossa ha un costo e, finché se ne trae il beneficio maggiore, è una vittoria ed è consentito. La Cina lo ha imparato benissimo e gli investimenti indebitanti verso le nazioni del cosiddetto “Terzo Mondo” hanno dimostrato lo stesso pragmatismo che prima di lei USA e URSS avevano mostrato all’epoca del mondo bipolare del secolo scorso. Solo che, questo modello, è tendenzialmente teso alla distruzione. Non per forza una distruzione fisica, almeno non immediatamente, ma una distruzione sociale e culturale che elimina pezzi di complessità dalla faccia del pianeta.
Quando l’Europa si è ritrovata, nel 1618, ad affrontare il periodo della Guerra dei Trent’anni, che viene descritta nei manuali di storia come una guerra di religione, era un’Europa divisa e spezzettata tra più di trecento stati – solo il Sacro Romano Impero ne contava 356 – in cui un’autorità spesso unica, statale, mancava. In cui attori spinti chi dal desiderio di indipendenza, chi dalla gloria, chi dalla ragione di stato, si son scontrati per riuscire a eliminare i propri rivali, portando l’Europa ben oltre l’orlo del disastro. In parte, la religione era centrale nel discorso – come token delle lotte di potere e di dinastia che si intrecciavano con la rivoluzione luterana e calvinista. Ci sono voluti trent’anni, nella realtà molti di più, contando gli strascichi precedenti e tutti i conflitti precedenti, per eliminare questo fattore, almeno in parte, dal suolo europeo. Oggi, non ci sono marce – eccetto in Irlanda del Nord, a onore del vero – di calvinisti che bruciano monasteri e di diete imperiali che ordinano conversioni forzate e di eliminare parrocchie luterane. Nonostante ciò, non è bastato questo a eliminare del tutto la paura del diverso e il terrore per tutto ciò che appare anche solo lontanamente come non conforme o non avremmo avuto, a loro volta, conflitti etnico-religiosi in Jugoslavia e la follia nazista.
Quando la diversità diviene una scusa per alimentare sfide competitive, l’esito è tendenzialmente distruttivo. Quando l’abbiamo fatto noi europei, nel 1618, avevamo però archibugi, sciabole, cannoni. Ce la siamo cavata con relativamente poco perché gli strumenti dell’epoca ci concedevano relativamente poco. E i morti si sono comunque contati a milioni. Il sistema-nazione, espresso in termini puramente geopolitici, non è un gioco a somma zero. Non lo è perché quello che prendo io oggi non te lo compenserò, se non apparentemente. Le scarse risorse del pianeta si fanno sempre più scarse, lo spazio abitabile si riduce, le politiche ambientali non hanno ancora raggiunto la capacità di sostenere i prossimi decenni di sviluppo sostenibile. Per quello le nazioni europee non possono trovare una soluzione, né pensare a una soluzione, al problema palestinese-israeliano. Non possono perché parliamo di nazioni che nemmeno sono ancora riuscite a riconoscere la Palestina come legittimo stato, cosa che hanno fatto 137 nazioni in tutto il resto del globo e gettano giusto una mezza cortina di fumo, con poche parole di cordoglio e di affetto verso un massacrato popolo, perché nei loro calcoli, le cose così devono andare. La Cina, ad esempio, che vuole far leva sul sentimento terzo mondista per opporsi ai “colonizzatori” occidentali, si è fatta promotrice immediatamente di soluzioni internazionali al Consiglio di Sicurezza, smascherando gli Stati Uniti e il loro solito appoggio immediato e completo a Tel Aviv. Non è pietà, quella cinese, è solo l’applicazione del medesimo calcolo, ma a sostegno dell’altra fazione. Dopotutto, gli uiguri ne sanno qualcosa di cosa vuol dire persecuzione etnico-religiosa.
Arriviamo così al punto di questo articolo: le nazioni europee, ma anzi, le nazioni mondiali, sono per lo più attori che non possono risolvere la crisi in Medio Oriente. Non possono perché la loro soluzione o è violenta o è una non-soluzione. Si ferma il conflitto, di nuovo, e si rimanda la situazione a uno status-quo che nella realtà non è tale, perché giorno dopo giorno i palestinesi vedono le proprie terre espropriate, le case cancellate dai bulldozer e i loro diritti infangati. Hanno tanto diritto di vivere quanto lo hanno gli stessi israeliani, questo è sicuro. Ma, e questo lo dicono gli stessi studiosi di relazioni internazionali, il mondo è solo un rapporto di forza tra nazioni, e vince chi riesce a far sentire maggiormente il suo peso, con il cannone o con un buon accordo. Indubbiamente si applica a Israele questo ragionamento, visto e considerato il numero di risoluzioni dell’ONU, il gendarme senza né pistola né distintivo, che dichiarerebbero l’illegalità di ciò che i coloni israeliani continuano a fare giorno dopo giorno.
Qui entra in gioco l’Unione europea, che non è né impotente come l’ONU e non è nemmeno uno stato-nazione. Entra in gioco perché l’Unione europea dovrebbe scegliere cosa vuole rappresentare nel mondo contemporaneo. Deve scegliere se essere una nuova evoluzione dello stato-nazione di matrice post-1648, l’ennesimo tassello di un puzzle che sta finendo i pezzi e che tra poco divorerà la sua stessa scatola per sopravvivere, o se vuole diventare il complicato, complesso embrione di una forma di policy che si orienti al futuro, a un futuro che deve essere pacifico e sostenibile. Non solo perché – almeno, personalmente lo ritengo – è più giusto che continuare ad ammazzare i propri vicini, ma anche perché questo mondo non sopravviverà a una continua corsa agli armamenti e alla supremazia. È un pezzo di roccia galleggiante nello spazio che sta finendo le risorse e la razza umana non è tanto amata da Dio al punto che, improvvisamente, con uno schiocco di dita, ripristinerà gli equilibri che l’artificio umano ha spezzato.
L’Unione europea ha in sé parte del peso storico dell’Europa, ma allo stesso tempo può rilanciarsi come protagonista sulla scena internazionale che si pone però in maniera alternativa. Se lo scopo è garantire il diritto di tutti a vivere serenamente, e questo vuol dire sacrificare i meri interessi geopolitici – qualsiasi cosa vogliano dire – allora l’UE dovrebbe avere il coraggio di imboccare questa strada. Vuol dire iniziare a fare pressioni su Israele, e parliamo di pressioni reali, parliamo di denuncia degli accordi bilaterali e di scambio, di supporto attivo alla causa palestinese – non ad Ḥamās, ma ai palestinesi. Vuol dire attivarsi su ogni fronte, diplomatico, sociale, culturale, economico, affinché Israele ritorni sui suoi passi e scenda davvero a trattative con l’OLP. Vuol dire affrontare il problema per quello che è – uno stato tecnologicamente avanzato che sta imponendo l’apartheid a un intero popolo, diviso e spezzato in campi profughi e in città bombardate. Vuol dire limitare anche i propri interessi economici? Forse è necessario. Forse è necessario imporsi delle priorità e scegliere un corso che si vuole dare alla propria influenza nel mondo.
Contemporaneamente, l’UE ha la medesima responsabilità nei confronti di Ḥamās e di tutto il network di gruppi estremisti che, dentro e fuori la Palestina, lucrano sulla morte dei civili e che sfruttano la condizione di disparità come mezzo per ottenere margini politici d’azione e fare da testa di ponte a nazioni che, come l’Iran e la Turchia, stanno cercando negli ultimi anni di conquistare sempre maggior spazio come attori regionali rilevanti. La sfida tra Israele e Palestina è una sfida che non giocano solo due nazioni e due popoli, ma in cui si intrecciano anche le volontà di stati e attori regionali con delle precise agende politiche. Tanto deve esserci pressione sulla nazione forte delle due - Israele, in questo caso - e sugli attori estremisti - quale Ḥamās - quanto neutralizzare e localizzare il conflitto stesso. Non ci sarà soluzione efficace finché palestinesi e israeliani saranno tanto scacchisti che pezzi di scacchiere più grandi di loro.
Forse, tutto ciò è molto utopico. Forse, però, era utopico un tempo pensare che un re cattolico potesse sopportare sudditi calvinisti. Era utopico pensare che Francia e Germania non si sarebbero uccise per il carbone e l’acciaio, ma sarebbero riuscite a collaborare più pacificamente. L’umanità ha fatto molte cose considerate utopiche. Israele e la Palestina sono il campo di prova ideale per piantare i semi di un futuro che non ripeta le regole considerate costanti della Storia. Si può provare a realizzare un mondo migliore, prima che sia tardi. E in parte lo si deve fare, se si vuole evitare di diventare l’esempio di specie senziente da non imitare nella prossima Guida galattica per autostoppisti – se non sbaglio, forse, già lo siamo. Abbiamo un solo pianeta per ora, siamo tutti umani e fondamentalmente tutti vogliono vivere senza che qualcuno gli bruci la casa mentre festeggiano il mese sacro del Ramadan. Non mi sembra, direi, una cosa così folle da provare a realizzare.
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