Se idealmente l’Europa continua a essere viva nella mente di molti, la sua incarnazione politico-istituzionale, l’UE, da anni sembrerebbe in declino come entità geopolitica nel sempre più complesso scacchiere internazionale, che impone alle singole pedine di fare grandi scelte tra Est ed Ovest. Danilo Taino (Scacco all’Europa) offre una spiegazione del declinismo europeo degli ultimi anni: «la caduta del Muro di Berlino è davvero l’ultima volta che l’Europa è stata al centro del mondo: […] il centro di gravità geoeconomico e geopolitico si è spostato altrove. Il risultato è che oggi l’Europa è un’entità ricca, libera, colta rispetto al resto del pianeta, ma politicamente spaesata, senza un’idea di se stessa». L’Europa è cambiata molto negli ultimi anni e l’UE con essa: unione incompleta, dis-integrata, quella a cavallo tra Bruxelles e Strasburgo; un progetto in stallo, direbbero alcuni che lamentano quanto a Bruxelles sembri non esserci una visione d’Europa al di là della burocratica infrastruttura giudicata autoreferenziale, non competitiva, sconnessa dal sogno europeo.
«L’asse ideale su cui era stata costruita l’Europa, e che metteva insieme l’economia sociale di mercato dei popolari […] e il socialismo riformista […] non c’è più» ha spiegato anche Antonio Polito (Il Muro che cadde due volte); tanto è vero che «sono emerse forze nuove […] È stata infatti la crescita elettorale dei liberali e dei verdi a salvare la faccia e il futuro dell’Europa unita. Ma […] non è […] pensabile che tutto possa continuare come prima solo con una spruzzatina di ecologismo e di mercatismo in più.» Mercatismo ed ecologia riflettono bene le parziali necessità di un’Unione che voglia restare in sella di fronte alle sfide globali. Sfide che toccano sia le classi dirigenti che i cittadini europei: la necessaria unione interstatale dovrebbe essere un potente antidoto nei confronti degli espansionismi dell’Est. Ieri l’Unione Sovietica; oggi e domani la Cina.
A proposito di disegno europeo delle origini, Francis Fukuyama (Identità) ha scritto che i fondatori dell’UE «cercarono intenzionalmente di indebolire le identità nazionali a livello di stati membri a favore di una coscienza europea “post-nazionale”, come antidoto agli aggressivi etnonazionalismi della prima metà del XX secolo.» La speranza dei fondatori, continua Fukuyama, «era che l’interdipendenza economica rendesse meno probabile la guerra, e che ne seguisse una cooperazione politica. Per molti versi il loro fu un successo strepitoso: l’idea che Germania e Francia […] possano mai scendere in guerra tra di loro è diventata […] inconcepibile»; in un continente che, dalla pace di Augusta del 1555 alla pace di Vestfalia del 1648 ha avuto centododici guerre, una media di 1.2 all’anno, in meno di novantatré anni. È dunque quanto meno bizzarro che nell’UE stessa ci siano forze tese a indebolire sia il continente europeo, sia la struttura europea che gli stati nazionali, tramite istanze demagogico-populiste che strizzano l’occhio all’autoritarismo orientale.
Sparita l’Europa, come ricordato da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 5 aprile 2020) «Stati Uniti, Russia e Cina deciderebbero da soli le sorti dell’umanità: da come proteggerci contro i cambiamenti climatici, alle regole del commercio tra nazioni, dal destino dei regimi a loro non graditi, alla dimensione degli eserciti.» In un libro del 2008 (Good-bye Europa), erano proprio i due economisti a spiegare come evitare l’estinzione e del sogno europeo e dell’Unione Europea. Secondo loro, l’UE «non ha bisogno di altro denaro pubblico da spendere in una miriade di programmi», quanto «di riforme che creano incentivi e rendono i suoi cittadini più disposti a lavorare duro e più a lungo, assumersi rischi e produrre innovazione»; realisticamente, d’altra parte, verrebbe da chiedersi quale leader politico, da destra o sinistra, proporrebbe un programma così schietto ed ambizioso. L’UE «ha bisogno di più concorrenza, non di aumentare le infrastrutture pubbliche. Le università europee hanno bisogno di più incentivi di mercato, non di più denaro pubblico. Le aziende europee hanno bisogno di meno tasse, dei mercati del lavoro regolato in modo meno rigido ed i mercati del prodotto che funzionino meglio, non di ulteriori sussidi e protezioni.»
Alla base di un’UE incompleta e fragile, ci sarebbe innanzitutto un regime di scarsa concorrenza ed eccessiva interferenza dello Stato nell’economia; dunque, continuano i due economisti, il risultato è che in Europa c’è poca innovazione e «manca un processo di “distruzione creativa”, ovvero la naturale scomparsa delle aziende meno efficienti per far spazio quelle più efficienti». Inoltre, «l’assenza di concorrenza produce troppo poca distruzione di aziende inefficienti e troppo poca creazione di nuove aziende.» Inoltre, le aziende private non sono un nemico: le politiche anti-industriali hanno una lunga tradizione in alcuni stati europei, che statisticamente sono anche i più deboli dell’UE e spesso e volentieri sono riusciti ad esportare il loro modello anti-impresa anche in sede europea. In questo modo, addio concorrenza, ma addio anche al sogno di un’UE forte e competitiva.
Oltre alle sfide economiche e industriali che l’UE deve sinceramente esaminare per non scomparire nei prossimi anni – o peggio, diventare irrilevante – c’è anche la questione demografica. In particolar modo, come sottolineato da Ivan Krastev e Stephen Holmes (La rivolta antiliberale), l’Europa centrorientale sta vivendo un tremendo esodo di giovani sia in Europa occidentale che per il resto del mondo; ad esempio dal 1989 al 2017 la Lettonia ha perso il ventisette per cento della sua popolazione, la Lituania il ventidue, la Bulgaria il ventuno. Secondariamente, come avevano avvertito Alesina e Giavazzi, è necessario affrontare l’invecchiamento degli europei. Ad oggi, «i tassi di fertilità sono bassissimi; l’Europa non può crescere se la gente lavora poco e deve sostenere un numero sempre maggiore di pensionati. Più la demografia peserà sui conti pubblici e renderà necessario mantenere elevata la tassazione; questo lascerà poco spazio per le risorse di cui l’Europa avrebbe bisogno per affrontare nuove sfide» (Good-bye Europa). Insomma, il contrario di uno scenario europeo improntato sulla concorrenza e orientato verso il futuro.
Il concetto di Europa, collegato a quello di UE, dovrebbe tornare al centro del dibattito politico degli stati europei. L’UE non è, come dicono sovranisti demagogici di destra, una perdita di sovranità o un annullamento di identità, quanto una condivisione di sovranità. D’altra parte, l’UE non è, come sostengono i pauperisti demagogici di sinistra, la culla dell’accoglienza indiscriminata e dei cordoni della borsa sempre aperti per tutti, quanto un porto identitario e di responsabilità nei confronti delle generazioni future. Senza riforme serie l’UE non può prosperare: essa si è rinnovata negli anni tramite pacchetti più o meno corposi di riforme e costituzionalizzazioni grazie ai trattati. Il declino economico è d’altra parte un riflesso di quello politico. Individuare la giusta percentuale di istituzionalismo europeo nei singoli stati e dei singoli stati all’interno della UE è la più grande sfida che il Vecchio Continente deve affrontare per contare ancora in futuro nei complessi contesti globali. Un Occidente più forte parte da un concetto di Europa più forte, il che non è in contraddizione con la necessità di più concorrenza e competitività.
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