La via dell’integrazione tra Unione Europea e Unione Africana

, di Publius – Per un’alternativa europea

La via dell'integrazione tra Unione Europea e Unione Africana
Immagine dell’articolo originale su L’Unità Europea

Il processo d’integrazione economica europea, disegnato dai padri fondatori e iniziato con il piano Marshall, sino ad oggi è sfociato nell’Unione Europea che deve ora completare il percorso, anche politico, verso uno stato federale. Anche l’Africa ha sentito il bisogno di ricercare la via verso l’integrazione economica e politica per superare sia le divisioni generate dai confini disegnati dai colonizzatori, sia il rischio dei contrasti tribali, sia la scarsa interdipendenza dei mercati africani tra loro e quindi la forte dipendenza dei singoli paesi dai mercati dei paesi terzi, che si tratti di paesi storicamente industrializzati oppure di paesi di nuova industrializzazione come la Cina.

Recentemente è emerso il progetto di integrazione economica del continente promosso dall’Unione Africana, che finalmente include tutti gli stati del continente e che si richiama largamente all’esperienza europea. Si tratta dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), che include anche un accordo monetario (Eco). I rapporti con i paesi terzi non dovranno ridursi in termini assoluti, anzi auspicabilmente cresceranno,ma dovrebbero crescere di più quelli interni, parallelamente alle loro politiche economiche. Si tratta quindi, sia nel caso africano che in quello europeo, di due integrazioni continentali che si accompagnano anche a un rafforzamento dei rapporti commerciali ed economici reciproci, tra i due sistemi continentali, e che si offre quindi al mondo come modello di un’area di globalizzazione più governata, che indica la direzione verso un nuovo ordine mondiale. La decolonizzazione delle colonie dei sei paesi fondatori della CEE, congelò il processo d’integrazione dei diciotto stati resi indipendenti, così come era previsto dalla quarta parte del Trattato di Roma firmato nel 1957, anche a seguito degli effetti della crisi di Suez. Gli stati della CEE impostarono politiche nazionali, ma questo divideva il mercato africano di fronte ai paesi CEE ed era contro gli obiettivi di una politica commerciale comune; inoltre riduceva la libertà delle ex colonie, vincolandole nell’utilizzo dei fonti ottenuti come aiuto allo sviluppo ad acquisti nei paesi finanziatori. Per riprendere almeno in parte il progetto di rapporti multilaterali fu firmata nel 1963 la Convenzione di Yaoundé (1964- 1967), che definiva tre strumenti: una zona di libero scambio, con tutela per le produzioni meno competitive dei paesi africani, un sostegno finanziario multilaterale da parte della Comunità e dei paesi membri (attraverso il FES), istituzioni comuni intergovernative, ma sul modello CEE (Consiglio, Coreper, Assemblea e Corte).

La via dell’integrazione tra Unione Europea e Unione Africana

La convenzione fu rinnovata per il periodo 1971-1975 ed estesa alle isole Mauritius e Kenia, Uganda, Tanzania e Nigeria (le ex colonie inglesi entrarono due anni prima dell’ingresso nella CEE del Regno Unito). Alle iniziative intergovernative si associarono quelle di diverse ONG. Alle due Convenzioni di Yaoundé seguirono quelle di Lomé dal 1975 al 2000 estese a praticamente tutti gli stati dell’Africa sub sahariana e ai piccoli territori caraibici e pacifici sotto l’egemonia di stati europei (ACP). Nel 2000 seguì la Convenzione di Cotonou, valida sino al 2020, che è ora in fase di rinnovo e aggiornamento, anche per tener conto del progetto AfCFTA. La convenzione per 25 anni ha disciplinato la cooperazione tra l’UE e i paesi convenzionati, che per l’Africa coprono praticamente la quasi totalità di quelli sub-sahariani mentre sono assenti quelli nord africani, oggi inclusi nell’Unione Africana. Quindi l’aggiornamento della Convenzione di Cotonou deve tener conto del Nord Africa, area che, nonostante una notevole omogeneità culturale, è molto poco integrata a al suo interno ed è caratterizzata da relazioni difficili, sia umane (si pensi che dal Marocco per andare in Tunisia, non si può attraversare o sorvolare l’Algeria e bisogna triangolare con uno scalo in Europa), sia commerciali, e che potrebbe trovare una via verso la propria integrazione proprio tramite le relazioni con l’Africa sub sahariana previsto dalla AfCFTA e tramite il partenariato con l’UE. Per questo è necessaria una politica più attiva e organica della UE, che tenga anche conto della presenza cinese fortemente accresciuta e delle politiche dei paesi del Golfo - tutti paesi che non conoscono elezioni e che quindi hanno operato efficacemente con sistemi autoritari (o almeno monopartitici) che hanno offerto loro stabilità politica e rapporti, anche economici, gestiti da autorità centrali. Mentre l’Africa sub sahariana ha conosciuto diverse esperienze di comunità regionali, che in un periodo di 45 anni si prevede d’integrare economicamente e politicamente nell’Unione Africana, al contrario non vi sono esperienze significative d’integrazione economica tra i paesi del Nord Africa; nonostante alcune iniziative della Lega Araba i commerci tra i componenti del Nord Africa non raggiungono il 10% del loro PIL, mentre per tra quelli sub-sahariani ci si avvicina al 20% (nella UE è attorno al 70%); il Maghreb è oggi una mera espressione geografica, quindi richiede di avviare un autentico processo d’integrazione economica e politica.

Ovviamente la Libia che separa l’occidente dall’oriente del Nord Africa dovrebbe trovare finalmente una pacificazione e un serio progetto di utilizzazione “nazionale”, continentale e poi universale delle proprie risorse, che nell’integrazione a più livelli troverebbero la propria valorizzazione. Stranamente nei paesi nordafricani oggi i flussi commerciali sono generalmente più alti innanzitutto verso gli altri continenti, quindi verso i paesi sub sahariani e solo da ultimo nell’area; ciò deriva dalla produzione limitata di merci impiegabili sul territorio (salvo le materie prime energetiche la cui produzione è concentrata in due soli stati) e di fatto che il commercio sia restato troppo a lungo legato a forme tradizionali. Eppure almeno due paesi, Marocco e Tunisia, presentano aspetti interessanti, inclusa la capacità di limitare l’islamismo fondamentalista e lo scambio significativo di esperienze con l’Europa, grazie anche al rientro degli immigrati. Del resto l’Egitto resta un paese chiave, anche perché insieme al Sudan, grazie al Nilo, costituisce il naturale legame tra Africa mediterranea e quella sub-sahariana; inoltre, a fianco della maggioritaria popolazione islamica, ha una comunità cristiana autoctona erede dell’ebraismo ellenistico. L’Egitto è la dimostrazione che l’Africa ha una storia e continuerà ad averla e sarà la storia di un continente in transizione, ma antico, e non quella di un continente uscito dalla preistoria solo grazie alla colonizzazione. È ora che gli Europei lo riconoscano.

Ovviamente uno dei problemi africani è la povertà e l’estrema differenza tra il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto sia interna agli stati, sia tra gli stati dell’area. Gli stati africani, infatti, sono spesso in coda nell’indice di sviluppo umano (HDI o ISU), che vede in testa la Norvegia e come ultimo paese il Niger, preceduto da una ventina di paesi africani. Gli obiettivi dell’UA sono ambiziosi (è incluso anche un accordo monetario per sostituire il FCA con l’Eco, la prima moneta unica africana, anche se per ora limitata alla regione francofona che usa l’FCA; una moneta per cui si prevede anche un forte legame con l’Euro); ma saggiamente sono previste tappe lente di realizzazione dell’integrazione commerciale completa di un disegno indubbiamente ambizioso e che comporta una fase di transizioni economiche, sociali e culturali che richiede trasformazioni che solo la successione delle generazioni potranno rendere condiviso da uomini e donne del continente. In quest’ambito è rilevante l’evoluzione religiosa del continente con l’emergere di correnti integraliste per bloccare l’incombente evoluzione sociale e l’affrancamento economico dei giovani dalle fonti di reddito tradizionali.

Le prospettive per il futuro devono essere condivise, ma questo richiede molta saggezza da parte dell’Europa che non può pretendere un immediato adeguamento al nostro modo di procedere; sono viceversa necessarie una chiara volontà di procedere insieme alla saggezza di farlo con approssimazioni graduali verso la piena modernità, unite al rispetto reciproco. Nel percorso verso gli obiettivi dell’integrazione africana e anche tra i due continenti, l’Europa deve fornire l’esempio del percorso federale e riconoscere il ruolo paritario africano, anche nella definizione di un nuovo ordine mondiale pacifico a base continentale. Lo sviluppo umano, sino a un fattivo contributo africano alla formazione, all’innovazione tecnologica e alla ricerca, è un compito da seguire anche con la cooperazione universitaria degli enti di ricerca applicata e con le compagnie impegnate nello sviluppo tecnologico. Il contributo dei federalisti a una politica africana della UE è un impegno già assunto. Lo dimostra l’ultimo volume coordinato da Alberto Majocchi, Africa and Europe: a Shared Future. Il titolo della collana è Federalism, e seguirà anche un’edizione italiana.

Questo articolo è apparso precedentemente su L’Unità Europea N. 2020/4 luglio-agosto

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