La crisi delle socialdemocrazie europee e le sfide della globalizzazione

, di Giampiero Bordino

La crisi delle socialdemocrazie europee e le sfide della globalizzazione
Eduard Bernstein, autore de «I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia».

Nota della redazione: questo articolo è stato scritto nel 2017 per «The Federalist Debate», ma ripubblichiamo oggi (col consenso dell’autore) in quanto lo riteniamo ancora di grande attualità.

Il tramonto elettorale e politico delle socialdemocrazie europee negli ultimi decenni, nel contesto della crisi economica e finanziaria mondiale iniziata nel 2008 e del processo di globalizzazione, è ormai un’evidenza empirica riconosciuta. Come ha scritto l’Economist, dall’inizio di questa crisi le socialdemocrazie europee hanno perso circa un terzo dei loro elettori, i peggiori risultati dalla fine della seconda guerra mondiale. Più analiticamente, uno studio recente (luglio 2017) pubblicato sulla rivista on line Social Europe sui dati elettorali in Europa relativi a 13 partiti nel periodo compreso fra il 1993 e il 2017 documenta e certifica il tramonto, per non dire il collasso, della socialdemocrazie e, più in generale, della sinistra europea. Lo studio distingue tre periodi all’interno di questi anni: il periodo post- Maastricht (1993-2000), quello post-euro (2001-2008), infine quello post-crisi (2008-2017) che rappresenta il culmine del declino elettorale della sinistra. In sintesi, mentre alla fine degli Anni Novanta i partiti socialisti governavano o guidavano coalizioni in 13 dei 15 Stati allora membri dell’Unione Europea, il 2017 si chiude con la sinistra in minoranza in quasi tutti i 28 Stati dell’Unione, con l’eccezione del Portogallo, dove una coalizione fra socialisti e partiti della sinistra più radicale e verdi guida il governo con un certo successo di consenso e anche di risultati, e dell’Italia dove il PD, in qualche misura erede delle tradizioni socialdemocratiche e membro del partito socialista europeo (PSE), è tuttora al governo del paese, seppure anch’esso in forte caduta elettorale e in evidente crisi di identità. Lo studio articola l’analisi dei dati anche su tre grandi aree geografiche: settentrionale, centrale, meridionale, area nella quale il declino dei partiti socialisti/socialdemocratici appare più marcato. Fra il 2001 e il 2009 la quota media percentuale di voti dei partiti del Sud Europa era stata del 36,3%, da allora vi è stata una perdita di circa 15 punti percentuali (percentuale media del 21,37% fra 2009 e 2017). Francia e Germania, i paesi guida dell’Unione, presentano anch’essi un quadro di declino dei rispettivi partiti socialisti. In Francia, Benoit Hamon, candidato del partito socialista alle ultime elezioni presidenziali vinte da Macron a capo di un movimento politico del tutto nuovo e nel contempo fortemente europeista, ha raccolto al primo turno solo il 6% dei voti. Una crisi devastante, se si pensa, per fare una comparazione significativa, che Mitterand aveva vinto le elezioni presidenziali del 1981 con il 25,9% al primo turno e con il 51,8% al secondo turno. In Germania, l’SPD si è fermato al 20,5% nelle ultime elezioni legislative del settembre 2017, vinte ancora una volta dal partito della cancelliera Merkel. Il declino è particolarmente forte ed evidente anche nei paesi dell’Est Europa, entrati nell’Unione dopo la fine del comunismo. Per fare un esempio, nella Repubblica ceca il partito socialdemocratico aveva avuto il 32,3% dei voti nel giugno 2006, ed è crollato al 7,3% nelle elezioni politiche dell’ottobre 2017. In questo quadro, il risultato migliore in Europa in termini quantitativi appare essere quello del partito laburista inglese di Jeremy Corbyn che ha conseguito, nelle elezioni politiche del giugno 2017, vinte comunque dai conservatori, sulla base di un programma anti-liberista piuttosto radicale, il 40% dei voti (più 9,6%). Va ancora osservato che la crisi dei movimenti politici progressisti e di sinistra appare non solo europea ma globale. E’ significativo, da questo punto di vista, che all’ultimo vertice del G 20 svoltosi ad Amburgo nel luglio 2017 fossero presenti solo tre governi riconducibili all’area politica di centro-sinistra, e con una forte presenza del centro: quelli del Canada, della Corea del Sud e dell’Italia. Ed è almeno altrettanto significativo che a governare gli Stati Uniti, che sono ancora, seppure in forte declino, la più grande potenza mondiale almeno dal punto di vista militare, sia oggi Donald Trump, esponente di un populismo di destra neo-nazionalista in ascesa anche fuori dall’Occidente, come dimostra, in particolare, il caso dell’India induista e nazionalista di Narendra Modi.

In quale quadro generale, in quale contesto si colloca il tramonto, fin qui brevemente delineato, dei movimenti politici progressisti e di sinistra, in Europa come nel resto del mondo? Il contesto non è rappresentato soltanto dalla crisi finanziaria ed economica nata nel 2008 a partire dagli Stati Uniti, con tutte le sue conseguenze sociali (disoccupazione, precarietà del lavoro, caduta dei redditi, disuguaglianze, crisi delle classi medie ecc.), a cui si aggiungono e si intrecciano le conseguenze della rivoluzione scientifica e tecnologica in corso: automazione, degitalizzazione, disintermediazione ecc., quindi forte riduzione delle possibilità di lavoro. E’ in atto da tempo una più generale trasformazione politica, istituzionale e culturale che, nel quadro del processo di globalizzazione, si manifesta con la crisi della democrazia rappresentativa e dei grandi “intermediari” tradizionali di questo modello novecentesco (partiti politici di massa, sindacati, grandi agenzie formative pubbliche come la scuola ecc.); con l’emergere di movimenti populisti e di leaders che agiscono come “imprenditori della paura” in un rapporto diretto fra “capo” e “folla”; con la tendenziale egemonia culturale, non adeguatamente contrastata da nessuno, di visioni sovraniste, neo-nazionaliste, xenofobe e identitarie, tutte giocate sulla contrapposizione fra “noi” e “loro” (gli stranieri, i migranti, ma non solo). Ciò avviene nel contesto del tramonto dei “grandi racconti” (ideologie, in altro linguaggio) progressisti del secolo trascorso, e in particolare di quelli di ispirazione socialista, che leggevano la storia come un percorso di progresso e di liberazione e la politica come partecipazione diretta al dibattito pubblico e ai processi decisionali collettivi. L’ideologia dominante degli ultimi decenni, il neo-liberismo e il fondamentalismo di mercato (nella formula: lo Stato è il problema, il mercato è la soluzione), anch’essa in crisi dopo l’evidenza dei suoi fallimenti (come è noto hanno dovuto intervenire gli Stati, con il denaro pubblico, per salvare i mercati) lascia un vuoto in cui finora si sono inseriti attivamente e con un certo successo soltanto i movimenti neo-nazionalisti e sovranisti. Non a caso oggi in Occidente e non solo hanno una buona capacità di seduzione le “democrature” (ibrido di democrazia e dittatura) personificate, per fare alcuni esempi, da Putin in Russia, da Erdogan in Turchia o da Orban in Ungheria. Anche Trump negli Stati Uniti aspirerebbe alla “democratura” se non fosse che ciò gli è impedito, almeno per ora, dai tradizionali contropoteri della democrazia rappresentativa e federale americana, autonomie locali, Stati federati, giudici, stampa ecc.

Il quadro di riferimento ineludibile di tutto ciò, di questa grande regressione dei movimenti progressisti e di sinistra, è la globalizzazione. Alla base della globalizzazione c’è la straordinaria rivoluzione tecnologica nelle comunicazioni, nell’informazione e nei trasporti, che tendenzialmente comprime e azzera il tempo e lo spazio e che rende interdipendente come mai in passato tutto il mondo. Rivoluzione le cui potenzialità di trasformazione sono state per così dire “liberate”, e rese quindi in gran parte incontrollabili, dalle politiche neo-liberiste dominanti negli ultimi decenni. Oggi di conseguenza i flussi globali (di capitali, merci, persone, informazioni, immagini, valori ecc.) attraversano e per così dire “piegano” i luoghi, che a loro volta si trovano costretti a interagire e “negoziare” con i flussi. La dialettica flussi/luoghi è diventata ovunque decisiva. Protagonisti di questi flussi sono nuovi attori transnazionali e globali, essenzialmente non statuali ma di natura privata, quindi del tutto privi di legittimazione democratica fondata sul consenso: imprese multinazionali finanziarie, manifatturiere o terziarie; criminalità organizzata transnazionale, i cui fatturati superano spesso per dimensioni i bilanci degli Stati; terrorismo transnazionale. Di fatto, gli Stati nazionali, e in qualche misura anche quelli di dimensioni continentali di tipo democratico-federale come gli Stati Uniti o l’India e di tipo autoritario come la Cina o la Russia, sono attraversati da flussi che non sono più in grado di controllare, e spesso neppure di conoscere, e che rendono ormai illusoria la pretesa della propria sovranità (intesa, secondo convenzione, come il potere che non riconosce alcun altro potere sopra di sé ed è la fonte di tutti i poteri sotto di sé). Gli Stati, di fatto, non sono più in grado di garantire ai cittadini, che percepiscono e vivono questa esperienza, seppure spesso senza essere in grado di comprenderla razionalmente, i beni pubblici fondamentali, che ne hanno sempre giustificato l’esistenza e il potere di comando: la pace, la legalità, il lavoro, la stabilità della moneta e del risparmio, la conoscenza, la tutela pubblica rispetto ai grandi rischi della vita come la perdita del lavoro, la malattia o la vecchiaia (il Welfare State), in una parola la sicurezza in tutti i suoi aspetti e dimensioni, la sicurezza “umana” nella terminologia oggi in uso. Il “patto” tradizionale fra Stati e cittadini – garanzia dei beni pubblici versus riconoscimento dell’autorità dello Stato – si è per così dire “rotto”. In questo quadro si spiegano l’ostilità e il risentimento popolari sempre più diffusi verso ogni istituzione e ogni élite dirigente sia nazionali sia internazionali o sovranazionali , come in particolare l’Unione Europa e le sue leadership.

Di fronte a tutto ciò, per fare fronte alla crisi economica e finanziaria del 2008 e soprattutto alla grande trasformazione sopra descritta prodotta dalla globalizzazione quali visioni e progetti innovativi hanno messo in campo i partiti e i movimenti socialisti e socialdemocratici europei, più in generale la sinistra europea, negli ultimi decenni per tentare di vincere la loro battaglia politica e, prima ancora, culturale? Verrebbe da dire: niente di nuovo o quasi niente di nuovo sotto il sole. Progetti e politiche della sinistra oscillano infatti quasi ovunque fra due “poli” entrambi per così dire “fuori tempo” e per altri versi anche in parte “fuori tema”, e quindi destinati a soccombere. Il primo polo, quello uscito dagli anni dell’egemonia culturale del neo-liberismo, è ancora in sostanza quello della “terza via” di Tony Blair: ridimensionamento dello Stato sociale, in quanto non più fiscalmente sostenibile, e nel contempo anche dello Stato imprenditore, maggiore flessibilità del mercato del lavoro, promozione dell’autoimprenditorialità e così via. Il secondo, particolarmente presente come si è detto nel programma dei laburisti di Corbyn ma anche in segmenti minoritari degli stessi partiti socialisti e più in generale nei movimenti politici della cosiddetta sinistra radicale, si fonda sul ritorno al paradigma keynesiano dello Stato sociale, della spesa pubblica, delle politiche fiscali redistributive, in un’ottica essenzialmente o esclusivamente nazionale. Perché questi due paradigmi, pur diversi e in qualche modo anche contrapposti, sono entrambi in sostanza “fuori tempo” e “fuori tema”? “Fuori tempo” perché il primo, quello blairista, appartiene ad un tempo pre-crisi (prima del 2008) e si è dimostrato del tutto impotente sia a governare la “grande trasformazione” connessa alla globalizzazione (crescita delle disuguaglianze, crisi della classe media ecc.) sia a fronteggiare i movimenti neo-nazionalisti, populisti, sovranisti identitari emergenti e spesso anche vincenti in questi ultimi anni. “Fuori tempo” perché il secondo rimanda anch’esso ad un passato che non può tornare, all’epoca della crescita del secondo dopoguerra, ai cosiddetti “trenta anni gloriosi” (fra il 1945 e la crisi petrolifera degli Anni Settanta), all’epoca di uno straordinario sviluppo sociale fondato su un grande “patto” implicito, oggi non più riproducibile, fra il capitale e il lavoro. “Fuori tema”, infine, perché i grandi nodi della crisi in atto, i grandi temi su cui contendere non sono tanto o soltanto quelli della spesa pubblica, delle politiche redistributive, della precarietà del lavoro ma in primo luogo, come si è tentato di dire in precedenza, quelli dell’impotenza degli Stati e del potere politico, nel contesto della globalizzazione, a produrre e garantire ancora i fondamentali beni pubblici, dalla pace alla legalità al lavoro, necessari alla vita dei cittadini ed anche allo stesso funzionamento dei mercati. Come si può recuperare la sovranità perduta per poter realizzare davvero politiche redistributive, politiche di sviluppo sostenibile, politiche di piena occupazione e, prima ancora, data la loro urgenza, politiche di stabilizzazione e pacificazione nelle aree di crisi esterne all’Europa (Medio Oriente, Africa) e, quindi, anche politiche efficaci di gestione dei flussi migratori? Esiste, e come, una strada diversa da quella neo-nazionalista e populista che promette la salvezza attraverso l’isolamento, la chiusura e il ritorno a forme di sovranità nazionali esclusive ed escludenti di ottocentesca memoria? Una strada che è l’anticamera delle guerre, come dimostra tutta l’esperienza storica del Novecento. Se l’economia, la finanza, i mercati sono globalizzati, se di conseguenza gli imponibili fiscali sono ovunque nomadi e “fuggitivi”, come si può garantire un nuovo Welfare ancora sostenibile? Se tutte le grandi sfide che abbiamo di fronte (la pace e la guerra, la stabilità finanziaria e monetaria, la tutela ambientale, la gestione dei flussi migratori, la convivenza negli stessi luoghi di gruppi umani e di persone di diversa origine, cultura, religione ecc.) sono globali, prodotte dall’interdipendenza planetaria e portate dai flussi globali che attraversano tutti i luoghi, come ci si può illudere di recuperare la sovranità perduta ad un solo livello, quello nazionale? Se la sovranità, come è del tutto evidente, si può quindi recuperare realmente solo condividendola con altri a livelli superiori, sovranazionali, continentali e mondiale, quale progetto di nuova statualità e di nuova democrazia occorre immaginare e costruire? E quali nuovi modelli di organizzazione politica e di cultura progettuale occorre realizzare per disporre di attori in grado di perseguire questi fini? Il futuro delle sinistre e dei movimenti progressisti, in Europa e nel mondo, è legato anzitutto alla loro capacità di dare risposte a queste ineludibili domande. Ciò richiede la disponibilità a pensare nuovamente il futuro e la capacità di immaginare un vero e proprio nuovo paradigma, che va costruito e poi gestito, ben al di là della vista corta e del tempo breve che segnano oggi, quasi sempre, l’azione delle classi dirigenti, non solo politiche.

Se si farà in tempo, perché, come è noto, il tempo non aspetta.

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