Il razzismo e l’odio non risparmiano nemmeno un contesto di emergenza umanitaria, che anzi, ricorda come dinanzi ai confini non si è mai tutti uguali. Passa in secondo piano l’imperativo dei documenti - per i quali lo Stato nazione sembrava coltivare un particolare feticismo - mentre l’esperienza terrificante della guerra non sembra essere sufficiente per accomunare: sono i tratti somatici, di nuovo, a dettare una gerarchia tra esseri umani.
Le denunce di discriminazione arrivano sia dalla frontiera (in particolare quella polacca) che dal cuore dell’Ucraina, dopo giorni di attesa ai valichi e notti passate all’addiaccio presso le stazioni. I tempi di attesa si dilatano, i posti sugli autobus si riducono, la precedenza è sempre data ad altri - spesso attraverso violenza fisica e verbale. È difficile verificare attentamente ogni episodio documentato, mancano elementi di contesto, la tensione è comprensibilmente tanta anche per chi si trova a gestire uno tra i più tragicamente rapidi esodi della storia recente. Ma il numero di appelli cresce inesorabile. Le associazioni per i diritti umani fanno da megafono, le Ambasciate si mobilitano, preoccupate per la sicurezza dei loro concittadini, le organizzazioni internazionali sono costrette a dire qualcosa (se non di sinistra, perlomeno di civiltà, direbbe Nanni Moretti).
La presenza straniera in Ucraina, stando ai database delle Nazioni Unite, ammonterebbe a poco meno di 5 milioni di persone, la maggior parte delle quali (oltre 3 milioni) di origine russa. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), dei 4,3 milioni di profughi che sono riusciti a lasciare il Paese sono stati tracciati circa 211.000 cittadini stranieri, con evacuazioni che procedono a un tasso di circa 5 persone straniere ogni 100 persone in fuga. L’organizzazione sta infatti continuando nella cooperazione con ministeri e ambasciate esteri, ma il direttore si è detto allarmato riguardo a testimonianze credibili e verificate di violenza e xenofobia nei confronti di cittadini di Paesi terzi che tentano di fuggire dal conflitto in Ucraina.
Tale allarmismo è solo in parte giustificabile, data la prevedibilità di tali reazioni nel clima politico europeo, dove regnano estremismo e paura quando si tocca il tema delle politiche migratorie. Notis Mitarachi (Ministro per la migrazione e l’asilo greco) ha colto l’occasione della crisi ucraina per mostrare la differenza tra i “veri rifugiati” e quelli “falsi”, che dal 2015 cercano sicurezza sulle coste del suo Paese. Sono diversi i leader a essersi pronunciati in tal senso: il Presidente bulgaro Rumen Randev ha sostenuto che quelli di Kiev non siano “i rifugiati a cui siamo abituati” in quanto “queste persone sono europee. Queste persone sono intelligenti, sono persone istruite". Similmente sembra pensarla Matteo Salvini, che in un discorso al Senato istituisce una vera e propria gerarchia umanitaria, sostenendo che le “guerre vere” e i “profughi veri” apparentemente si trovino solo in Ucraina, a differenza di un non meglio specificato altro tipo di arrivi.
Queste affermazioni sembrano giustificare il doppio standard che divide tra profughi buoni e cattivi, ma possono ritenersi limitate alle forze politiche da cui provengono? Sembra opportuno chiedersi - per una volta rinunciando al comfort morale di puntare il dito contro chi, sull’odio, ha costruito un’intera carriera politica - quanto di una tale narrativa siano invece pregne le fibre di tutto il tessuto sociale. Prendendo in considerazione la rappresentazione che i media stanno dando della componente umanitaria del conflitto, si nota il frutto di quella che la linguista Ruth Wodak chiamerebbe una normalizzazione del linguaggio xenofobo. La retorica che i grandi dell’informazione come Sky News, Al Jazeera, CBS, CNN e molti altri è infatti sovrapponibile, nei termini e nell’immaginario di riferimento, a quella utilizzata da rappresentanti di partiti più o meno apertamente xenofobi (VOX, Lega o Fidesz). Qualcuno potrebbe argomentare che si tratta di sviste, scivoloni o semplicemente fraintendimenti, e probabilmente i giornalisti alzeranno la guardia dopo una prima ondata di denunce. Tuttavia, risulta difficile trattare tante simili dichiarazioni di professionisti alla stregua di lapsus, se non nel senso propriamente freudiano del termine.
La manifestazione di questo inconscio collettivo, altrimenti censurato, sembra quindi suggerire l’esistenza, nell’immaginario occidentale, di catastrofi di serie A e di serie B. A tal proposito, fu l’antropologo Allan Feldman a interrogarsi su quello che definì un fenomeno di “anestesia culturale”, chiedendosi come la rappresentazione mediatica riuscisse a suscitare indifferenza, o addirittura a mobilitare sostegno, rispetto a barbarie come la Guerra del Golfo o il pestaggio di Rodney King. Similmente all’empatia che i giornalisti cercano di suscitare di fronte alle immagini dei profughi ucraini, questa cooptazione dell’opinione pubblica faceva leva, da un lato, sulla fabbricazione di un’identità familiare ai più, e, dall’altro, sulla costruzione implicita o esplicita di un’alterità assoluta. Detto in altre parole: su vicinanza e lontananza, fisica e morale, da attori e luoghi.
Un processo simile ha investito, in Europa, le narrazioni e le politiche che negli ultimi anni hanno condizionato il discorso sull’immigrazione. Narrazioni e politiche nocive, tossiche, figlie di un orientalismo che si confonde nel razzismo, capaci di costruire l’immagine di questo Grande Altro: il rifugiato che è al contempo clandestino, il richiedente asilo che è forzatamente irregolare, che fugge dalla guerra ma intanto ci ruba il lavoro, in una confusione terminologica che talvolta non risparmia nemmeno gli esperti. E forse tale confusione è giustificata, poiché è stato notato come il bastone della “fortezza Europa” spesso faccia poche distinzioni quando deve colpire, tendendo a illegalizzare la mobilità in generale.
I suoi confini, così improvvisamente aperti per alcuni e così irrimediabilmente chiusi per altri, non fanno che confermare e perpetuare questa distinzione proposta tra profughi buoni e cattivi, in una guerra che si gioca sul corpo delle persone, letteralmente e simbolicamente. È la frontiera stessa - o meglio l’uso che ne viene fatto - a produrre corpi spogli, sofferenti, malati, corpi non civilizzati, corpi lontani incompatibili con la nostra società, con la nostra cultura. Corpi mendicanti, corpi sospetti, che quando non terrorizzano fanno pena, che si vorrebbe schiacciati nella totale incapacità di agire e di autodeterminarsi. Corpi che il consumismo mediatico ha sostanzialmente svuotato, trasformandoli in oggetti o semplici numeri. Minacce terribili oppure oggetti compassionevoli, ma quasi mai soggetti portatori di diritti. Così diversi, perlomeno in questo breve periodo di sacrosanta solidarietà, dai e dalle civili della classe media ucraina, occhi azzurri e capello biondo, che scappano dai proiettili su macchine come le nostre, lasciando i propri cari, già martiri o eroi, a combattere per difendere la patria dall’invasore Russo.
Queste considerazioni ci portano a riflettere su quali fondamenta è stato costruito lo Stato di diritto, e se questo possa dirsi tale per tutti. In un’Europa che si sta riscoprendo unita di fronte alla minaccia è necessario interrogarsi su quale sia il legante che tiene assieme una galassia di Stati con un posizionamento e una cultura politica estremamente differenti: qual è il baricentro politico e morale dell’accordo e a che cosa si è disposti a cedere per ottenerlo. È proprio considerando questo scarto che l’Europa può scoprire qualcosa di più su sé stessa e sulla presunta superiorità morale - alle volte chiamata modernità, progresso o diritti umani - della quale ha fatto una bandiera.
La Temporary Protection Directive, tenuta nel cassetto per oltre vent’anni, è stata rispolverata per aggirare le tempistiche burocratiche dei sistemi d’asilo nazionali e omogeneizzare il diritto all’accoglienza per coloro che fuggono dall’Ucraina. Salutata come un passo successivo per l’integrazione europea, ha ovviamente richiesto una mediazione con l’Austria e il blocco di Visegrad. Il risultato è stata l’applicazione discrezionale ai soggiornanti di lungo periodo provenienti dai Paesi terzi, e l’esclusione di quelli di breve periodo, nonostante l’appello di molte organizzazioni, quali Amnesty International. Da un lato, quindi, appare legittimo celebrare un risultato che potrebbe costituire la pietra angolare di un sistema d’asilo Europeo condiviso. Dall’altro però, è doveroso chiedersi se queste distinzioni non rappresentino quel “nanorazzismo” - quell’intolleranza molecolare fatta cultura e respiro di cui ha parlato Achille Mbembe - che si insinua nelle Istituzioni e viene normalizzata attraverso il proceduralismo del lessico giuridico, rappresentando così l’ennesimo rafforzamento di una cultura dell’eccezione e del doppio standard. Dopo oltre settant’anni forse abbiamo riconosciuto il male. Siamo davvero in grado di riconoscerne la banalità?
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