L’europeismo di Jean Monnet

, di La redazione di Eurobull

L'europeismo di Jean Monnet

In queste poche pagine cercheremo di ricordare il grande personaggio storico francese attraverso alcuni suoi scritti e il lascito che ha segnato la memoria dei federalisti europei.

Per un uomo come Jean Monnet (1888- 1979), che aveva capito sin dalle prime esperienze politiche che «la riflessione non può essere separata dall’azione», i fatti salienti della sua vita rappresentano anche una indicazione importante del suo pensiero e del suo modo di fare politica.

Dopo aver trascorso la giovinezza ad aiutare il padre nel commercio del cognac, allo scoppio della prima guerra mondiale si pose, nel tentativo di rendersi utile, il «formidabile problema» dell’organizzazione degli approvvigionamenti, che gli Alleati non sapevano risolvere e che poteva compromettere l’esito del conflitto. Una volta intuita la soluzione, cioè una programmazione comune tra Francia e Inghilterra, riuscì a farsi ricevere dal Presidente del Consiglio Viviani ed a convincerlo della bontà della sua proposta. Inviato a Londra, diede vita ad un pool franco-inglese per coordinare gli acquisti ed i trasporti.

Alla fine delle ostilità, grazie ai brillanti risultati conseguiti, venne nominato segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni. Monnet iniziò questa sua nuova missione con grande entusiasmo. Pensava, come molti suoi contemporanei, che questa nuova organizzazione internazionale potesse imporsi «per la sua forza morale, per gli appelli all’opinione pubblica e grazie alle abitudini che finirebbero col prevalere». Ma dovette ben presto riconoscere che la Società delle Nazioni non poteva affatto realizzare quegli obiettivi di pace e di concordia che si proponeva. Potevano essere prese solo decisioni all’unanimità. «Il veto – così Monnet commenta questa sua esperienza – è la causa profonda e nello stesso tempo il simbolo dell’impossibilità di superare gli egoismi nazionali». Nessuna volontà comune e nessun bene comune potevano essere conseguiti su questa base. Nel 1923 abbandonò dunque il suo incarico e ritornò ad occuparsi dell’impresa paterna.

Agli inizi della seconda guerra mondiale, Monnet venne di nuovo inviato a Londra per organizzare la gestione in comune delle risorse degli Alleati. Qui, nel giugno 1940, mentre l’esercito francese veniva travolto dalle truppe naziste, Monnet concepì una iniziativa audacissima che avrebbe potuto mutare l’intero corso della seconda guerra mondiale. Propose a Churchill e a De Gaulle, che lo accettarono, un progetto per una unione federale immediata tra Gran Bretagna e Francia.

«I due governi, così recita il comunicato congiunto, dichiarano che in futuro Francia e Gran Bretagna non saranno più due nazioni, bensì una sola Unione franco-britannica. La costituzione dell’Unione comporterà organizzazioni comuni per la difesa, la politica estera e gli affari economici... I due Parlamenti saranno ufficialmente unificati». Tuttavia questo disperato tentativo di impedire la sconfitta della Francia fallì, perché la classe politica francese era ormai rassegnata alla resa. Monnet decise allora di recarsi negli Stati Uniti per collaborare al Victory Program, convinto che l’America avrebbe potuto svolgere il ruolo di «grande arsenale delle democrazie». L’economista Keynes dirà, alla fine del conflitto, che con la sua azione di coordinamento Monnet ha probabilmente accorciato di un anno la seconda guerra mondiale. Nel 1943, ad Algeri, entrò a far parte del Comitato di liberazione nazionale «Francia libera», dove collaborò con De Gaulle per organizzare la resistenza in esilio. Nella riunione del 5 ago- sto 1943, Monnet dichiarò al Comitato: «Non vi sarà pace in Europa, se gli Stati si ricostituiranno sulla base della sovranità nazionale ... I paesi d’Europa sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la prosperità e l’evoluzione sociale indispensabili. E’ necessario che gli Stati europei si costituiscano in fede- razione...».

Subito dopo la liberazione, Monnet propose al governo francese un «piano globale per la modernizzazione e lo sviluppo economico». Nominato Commissario al Piano svolse un’opera essenziale per la ricostruzione dell’economia francese. E’ da questa posizione che, nel 1949, Monnet si rese conto che la tensione tra Germania e Francia per il controllo della Ruhr, l’importante bacino carbosiderurgico, saliva minacciosamente, facendo presagire una possibile ripresa delle ostilità, come era avvenuto dopo la prima guerra mondiale. La soluzione a questo stato di cose non poteva, tuttavia, essere la Federazione, perché la Francia, orgogliosa della sua sovranità appena riconquistata, la rifiutava. Per questo Monnet elaborò, insieme a pochi collaboratori, una proposta rivoluzionaria: la messa in comune, sotto il controllo di un governo europeo, delle risorse franco-tedesche di carbone e acciaio.

Nel Memorandum ‘Monnet’ al Ministro degli Esteri Schuman, si dice: «Accomunando le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni vincoleranno la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, questa proposta getterà le prime fondamenta concrete di una federazione europea indispensabile per preservare la pace». Schuman accettò la proposta e, in accordo con Adenauer, la rese pubblica il 9 maggio 1950. Un anno dopo, con il Trattato di Parigi, sei paesi – Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo – davano vita alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Si avviò così la pacificazione franco-tedesca che ancor oggi rappresenta il sentimento profondo su cui si regge il processo di unificazione europea.

Nel 1955, dopo la grave crisi causata dal rifiuto della Francia di ratificare la Comunità europea di difesa (CED), Monnet diede vita al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa con il quale, sino alla fine della sua vita, invitò instancabilmente la classe politica europea a non abbandonare la via intrapresa dell’unità europea.

Gradualismo e costituzionalismo

La strategia individuata da Monnet per la costruzione dell’unità europea può essere definita come metodo gradualistico o funzionalismo. La proposta della CECA ne rappresenta il modello, che ha ispirato in seguito una numerosa serie di varianti. Dalla situazione di impasse tra Francia e Germania, secondo Jean Monnet si poteva uscire in un solo modo: «con un’azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme del problema» (Memorandum del 3 maggio 1950). L’istituzione della CECA provocò in effetti i risultati previsti da Monnet.

Con la pacificazione franco-tedesca tutti i dati del problema europeo si modificarono. Si passò dal confronto e dalla minaccia di una risorgente politica di potenza, alla politica di cooperazione e, col tempo, divenne pure possibile sviluppare con opportune iniziative gli embrioni del potere democratico contenuti nel progetto della CECA.

In una prima fase, il MFE criticò l’approccio funzionalistico di Monnet, perché lasciava sussistere fianco a fianco aspetti confederali della politica europea, in cui i governi detenevano un potere di veto, con aspetti sovrannazionali. La messa in comune di alcuni settori in verità nascondeva la volontà dei governi di non cedere la sovranità, che restava intatta al livello nazionale nei fondamentali settori della moneta e della difesa. Al metodo funzionalistico, Altiero Spinelli contrappose il metodo costituente, come la sola via democratica per costruire con il popolo l’Europa del popolo.

Tuttavia, le lunghe e difficili lotte per rendere democratica la Comunità europea hanno convinto i federalisti della complementarietà del metodo gradualistico e di quello costituente. Sino a che il quadro della politica internazionale si mantiene favorevole al processo di unificazione europea, ogni riforma istituzionale favorevole all’unità rafforza il fronte delle forze europeistiche e rende possibili forme più avanzate di lotta. E’ questo il caso dell’Unione monetaria, prevista dal Trattato di Maastricht, che se realizzata senza un governo democratico europeo metterà a nudo decisive contraddizioni. Solo con una costituzione democratica, che definisca con chiarezza poteri, responsabilità e diritti dei cittadini, le istituzioni europee cesseranno di essere, agli occhi dell’opinione pubblica, l’Europa burocratica dei governi per divenire finalmente l’Europa democratica dei cittadini.

In definitiva, mentre il metodo gradualistico di Monnet ha consentito di avviare il processo di unificazione europea, il metodo costituente di Spinelli è indispensabile per portarlo a compimento.

La grandezza di Jean Monnet

Articolo di Mario Albertini

Grazie alle Memorie di Jean Monnet pubblicate da poco a Parigi (Fayard, 1976), è finalmente dato a tutti di conoscere la grandezza delle sue azioni, poco note anche per il modo con il quale sono state compiute. Va ricordato che Monnet non ha creato solo la Comunità europea, ma anche la prima forma di pianificazione democratica (quella francese) e le nuove forme di organizzazione internazionale per l’impiego ottimale delle risorse nella guerra moderna. Va poi ricordato che con la sua azione personale egli ha dato un contributo decisivo alla vittoria degli Alleati nella prima guerra mondiale, «ha accorciato di un anno la seconda guerra mondiale» (l’affermazione è di Keynes) ed ha promosso l’unità della Resistenza francese ad Algeri. E va infine rammentato che egli ha ottenuto questi risultati — che farebbero la grandezza di un uomo di Stato — senza esercitare il potere, agendo da solo, con la collaborazione di pochi amici o di persone che gli ispiravano fiducia.

Quanto ho detto, per sorprendente che sia, va preso alla lettera. Monnet non è mai stato il capo né di un governo, né di un partito, né di una amministrazione, né di una forza organizzata; e quando si è trovato alla testa di una organizzazione (il Commissariato francese al Piano, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio) si trattava di organizzazioni che egli stesso aveva creato, e di cui si occupò finché erano nello «stato nascente». Proprio per questo il suo caso è degno di meditazione. Abitualmente si pensa che un uomo solo, nel nostro mondo così organizzato e complesso, sarebbe ridotto all’impotenza, anche per quanto riguarda il conoscere (per questo i fondamenti della morale, che non riposa su niente se non riposa sugli individui, vacillano). È ormai normale credere che siano necessarie équipes di esperti per la conoscenza della società e dei suoi problemi, e che solo le grandi forze organizzate — o in misura modesta i dirigenti di queste forze — possono decidere del corso degli eventi e determinare la soluzione dei problemi. Orbene, Monnet dimostra, con l’eloquenza dei fatti, che anche il contrario è vero. E la creazione della Comunità europea mostra fino a qual punto il contrario possa essere vero; e quindi fino a qual punto la nostra epoca debba mutare, a questo riguardo, l’opinione che ha di sé stessa.

Senza l’azione di Monnet non ci sarebbe la Comunità. Negli anni, mesi e giorni che ne precedono l’avvento, non esiste né traccia né segno di un progetto di questo genere, né della ricerca di una soluzione di questo genere per il problema che si trattava di risolvere (il posto da assegnare alla Germania occidentale nel mondo atlantico) nei partiti, nei loro organi deliberanti e dirigenti, nei ministeri e nei governi. Il progetto è di Monnet, l’azione per farlo accettare dai governi è di Monnet (a Schuman ed Adenauer va riconosciuto proprio il merito, del resto politicamente grandissimo, di aver accettato subito le proposte di Monnet). E va ricordato, per coloro che parlano ancora della Comunità come di un’impresa di asservimento all’America, che gli Americani osteggiarono per molto tempo la soluzione europea quando, sotto la pressione della richiesta angloamericana di riarmare la Germania, Monnet e Pleven controproposero la Comunità europea di difesa.

I fatti sono questi, e il loro significato è chiaro. Monnet ha creato la Comunità, e la Comunità ha condizionato la politica europea, americana e mondiale. Ciò significa che da venticinque anni a questa parte le grandi forze storiche hanno seguito o fronteggiato un corso di cose in parte stabilito da un uomo solo, Jean Monnet. Va .detto, a questo punto, che Monnet deve a sé stesso (e alla fortuna, come tutti, specie nella politica) anche l’inizio della sua avventura. Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, egli aveva ventisei anni. Era stato riformato per motivi di salute, ma sentiva di non poter restare inattivo. E nelle sue Memorieracconta: «Molto presto seppi che cosa dovevo fare, perché era chiaro che un formidabile problema stava per porsi agli Alleati che non erano preparati a risolverlo». Era vero, e nessuno meglio dello stesso Monnet può spiegarlo: «Questo problema si poneva al mio spirito perché ero molto giovane, e non sebbene fossi molto giovane. In effetti era un problema nuovo, un problema già del XX secolo, che una intelligenza senza pregiudizi, senza memoria del passato, vedeva con più chiarezza degli esperti, nutriti delle concezioni del XIX secolo. Essi non comprendevano che le condizioni della potenza erano cambiate, che la macchina di guerra era chiamata a stritolare tutte le risorse di una nazione, e che bisognava inventare delle forme di organizzazione senza precedenti».

In sé, tutto ciò è perfettamente ragionevole. Il problema c’era, un uomo poteva porselo e risolverlo. In effetti Monnet se lo pose e lo risolse. Ma questo fatto ragionevole diventa straordinario se si tengono presenti le circostanze. Allora Monnet non aveva alcuna relazione con i centri e le persone del potere. E non si trovava, per fatto di nascita, nell’ambito della classe dirigente. Viveva a Cognac, ed aveva girato mezzo mondo per visitare i clienti della Società per la vendita del cognac gestita da suo padre. Non c’è nient’altro. Come ogni uomo pensava alla guerra. Come poteva capitare ad ogni uomo, si rese conto che c’era questo problema nuovo da affrontare. E come avrebbe fatto ogni altro uomo si chiedeva quale fosse la soluzione, e ne parlava, soprattutto con suo padre. La differenza è che egli non si fermò col pensiero a metà strada: era un problema del potere, quindi bisognava pensarlo anche sotto questo aspetto, come una decisione del potere. Intravista una soluzione tecnica, Monnet si persuase che «doveva andare a convincere coloro che avevano il potere di agire, ovunque fossero».

La cosa, per quanto possa sembrare incredibile, gli riuscì. «Un amico della nostra famiglia, M. Fernand Benon, conosceva bene il Presidente del Consiglio, Viviani, col quale aveva sostenuto dei processi… Non faticai a fargli condividere le mie inquietudini per la condotta dello sforzo bellico con metodi antiquati. Egli accettò di presentarmi a Viviani». Non è possibile, qui, raccontare il seguito della vicenda, ma si può tuttavia dire che uomo fosse, a ventisei anni, Monnet. «È in questo mondo (Cognac) che sono cresciuto. Non si faceva che una cosa, con concentrazione e lentezza. Ma attraverso questa cosa, si aveva un campo di osservazione immenso e uno scambio di idee molto attivo. Là, o a partire di là, imparavo più di quanto avrei potuto con una istruzione specializzata… Non avevo mai amato la scuola… eppure ho il ricordo di una infanzia seria e disciplinata. Molto presto ebbi l’istinto, divenuto poi per me una regola di condotta, che la riflessione non può essere separata dall’azione. L’azione era dappertutto intorno a me… perché avrei dovuto prendere la via traversa (détour) del diritto… quando era alla mia portata di entrare nella scuola della vita e visitare il mondo? Visitare il mondo è una espressione letteraria che non si usava a Cognac. Noi dicevamo che si andava a visitare i clienti».

Con un breve articolo non è possibile, purtroppo, ricordare altri episodi della vita di Monnet; e non è neppure possibile spiegare il metodo della sua azione. Bisogna tuttavia dire che le sue Memorie — appassionanti come ogni scritto in presa diretta sulla vita — sono già oggetto di studio in Istituti universitari. Il fatto è comprensibile. Non c’è soltanto il problema della conoscenza e dello studio delle sue opere. Monnet ha fatto ciò che, in teoria, avrebbero dovuto fare la scienza e il potere. Si può dunque, con le opere di Monnet, prendere la misura dello stato del potere e di quello delle scienze sociali. Là dove il potere e la scienza non vedevano problemi, o gli esperti non trovavano il bandolo della matassa, poteva bastare un uomo solo, Monnet, con la forza morale del suo carattere, con la solidità naturale del suo ingegno e con il «vecchio precetto di Cartesio».

Il fatto è che quasi tutti gli uomini distinguono, fino a separarli, il conoscere dal fare, e così alterano tanto il conoscere quanto il fare. Monnet no, ma davvero, a cominciare dal fondamento, l’unità e non la divisione fra gli uomini. Egli ricorda che un suo amico, Dwight Morrow, aveva l’abitudine di dire: «Ci sono due categorie di uomini, quelli che vogliono essere qualcuno e quelli che vogliono fare qualche cosa». E continua: «Dwight Morrow mi situava in questa seconda categoria ed è vero che non ho il ricordo di essermi mai detto: ‘Sarò qualcuno’. Ma non sento nemmeno me stesso dire, in alcun momento della mia vita: ‘Farò qualche cosa’. Ciò che ho fatto o contribuito a fare, e che ho raccontato in questo libro, è nato dalle circostanze quando si sono presentate». Dalle circostanze, ma con la ferma volontà di agire nel «dominio della preparazione dell’avvenire» («Se la concorrenza è viva nei dintorni del potere essa è praticamente nulla nel dominio nel quale io volevo agire, quello della preparazione dell’avvenire che, per definizione, non è illuminato dalle luci dell’attualità»); e con il sentimento che «il necessario non si discute», che il necessario va fatto, che il necessario, a patto di saper aspettare, è possibile, perché «tutto è possibile nei momenti eccezionali».

Così, grazie alla necessità e alla fortuna, è iniziata, con la virtù di Jean Monnet, l’impresa dell’unità europea. E solo così potrà essere portata a compimento.

JEAN MONNET

A cura di Giovanni Vigo

Il centenario della nascita di Jean Monnet è stato solennemente celebrato a Parigi con la traslazione delle sue spoglie al Panthéon. Non era mai accaduto che un personaggio la cui vita si è identificata con la battaglia per l’unità dell’Europa fosse accolto nel tempio in cui riposano le glorie della Francia. Nel corso della suggestiva cerimonia che si è svolta sulla piazza del Panthéon è riecheggiata, ripresa da una vecchia registrazione, la voce di Jean Monnet che ricordava come «gli Stati Uniti d’Europa siano l’unica eredità che possiamo lasciare ai nostri figli».

Non si trattava, per Monnet, di una frase di circostanza. Nelle sue memorie, pubblicate nel 1976, aveva sottolineato come nessuno possa trasmettere agli altri la propria saggezza. Il solo patrimonio che possiamo lasciare in eredità ai nostri successori sono delle buone istituzioni. E a questa regola Monnet non è mai venuto meno.

Nato a Cognac nel 1888, si scontrò con la dura realtà della politica agli inizi della prima guerra mondiale. Esentato dal servizio militare per ragioni di salute, Monnet sentiva di non poter restare indifferente di fronte alla sorte di tanti suoi coetanei falcidiati dalla guerra. La sua impazienza diventò ancora maggiore non appena si rese conto che le strutture organizzative del XIX secolo erano del tutto inadeguate ad affrontare un conflitto di proporzioni infinitamente maggiori di quelli passati («le condizioni della guerra erano cambiate, la macchina della guerra era chiamata a stritolare tutte le risorse di una nazione e bisognava inventare delle forme di organizzazione senza precedenti»).

Grazie ad un amico di famiglia Monnet riuscì ad incontrare il Presidente del Consiglio francese Viviani che accolse i suoi suggerimenti. Da allora in poi egli partecipò attivamente alla soluzione dei maggiori problemi europei e mondiali. Contribuì ad organizzare i collegamenti fra gli alleati durante la prima guerra mondiale, partecipò al risanamento economico e finanziario di numerosi paesi colpiti dalla crisi post-bellica, promosse l’unità della Resistenza francese ad Algeri, guidò il Commissariato francese al piano, inventò la formula delle Comunità europee (a cominciare dalla CECA), promosse la creazione del Consiglio europeo quando si accorse che la CEE languiva a causa della mancanza di iniziative e, negli ultimi anni della sua vita, sostenne vigorosamente la necessità dell’ elezione a suffragio universale del Parlamento europeo.

Jean Monnet raggiunse il punto più alto della sua attività creatrice quando, di fronte al vicolo cieco in cui erano finiti gli Stati europei all’indomani della seconda guerra mondiale, intuì che la sola via d’uscita sarebbe stata la costruzione di una salda unità europea, che avrebbe restituito la propria dignità alla Germania, offerto solide garanzie di pace alla Francia, e assicurato l’indipendenza dell’ Europa nei confronti degli Stati Uniti. Da questa intuizione nacque il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Alle sue origini stava la chiara consapevolezza che il nodo da sciogliere era costituito dalla rivalità franco-tedesca. Ma se l’obiettivo era ben identificato, non altrettanto lo erano i mezzi per raggiungerlo. A poco a poco nella mente di Monnet si fece strada l’idea che il problema non dovesse essere aggredito nella sua complessità, ma che si dovesse invece promuovere «una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi».

E’ questo il metodo che ispirò il memorandum scritto il 3 maggio 1950, e pubblicato per la prima volta da Le Monde il 9 maggio 1970 con la seguente nota esplicativa: «Il 28 aprile 1950 Jean Monnet indirizza a Georges Bidault, Presidente del Consiglio, un testo di poco più di tre fogli a macchina, nel quale egli esprime la famosa proposta di ‘mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una Alta Autorità comune, in una organizzazione aperta alla partecipazione degli altri paesi d’Europa’. Monnet vede in questa realizzazione ‘la prima base di una Federazione europea indispensabile per la salvaguardia della pace’. Questo testo è trasmesso lo stesso giorno a Robert Schuman, Ministro degli Esteri, per mezzo di Bernard Clappier che funge da intermediario. Era un venerdì. Il lunedì mattina, primo maggio, al ritorno da un viaggio nel suo collegio di Metz, Schuman dice semplicemente a Clappier: ‘Me ne occupo io’ .

Il 4 maggio Jean Monnet trasmette a Bidault e a Schuman un nuovo memorandum, datato 3 maggio, che spiega le ragioni che l’ hanno condotto a formulare la sua proposta del pool carbone-acciaio».

Le Monde sottolinea giustamente che Monnet vedeva nella CECA «la prima base di una Federazione europea indispensabile per la salvaguardia della pace». Egli aveva saputo cogliere con grande lucidità la natura del problema da risolvere, aveva identificato con chiarezza l’obiettivo finale (la federazione), ma aveva ingenuamente creduto che il metodo funzionalistico sarebbe stato sufficiente a raggiungerlo. La storia dell’unificazione europea ha dimostrato che la cieca fiduicia nutrita da Jean Monnet sull’evoluzione spontanea della Comunità verso la federazione era infondata. Ma non per questo la sua opera è stata meno importante: grazie ad essa i dati del problema europeo sono radicalmente cambiati. Le Comunità hanno eliminato le tensioni ancora presenti fra gli Stati dell’Europa occidentale, hanno garantito un periodo di prosperità senza precedenti, hanno aperto la strada alle battaglie per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. E resta il fatto che l’intuizione di Jean Monnet secondo la quale è necessaria «una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo», ha costituito, e costituisce ancora, un insegnamento essenziale per la lotta dei federalisti.

***

IL MEMORANDUM MONNET DEL 3 MAGGIO 1950

Nella situazione attuale del mondo, da qualunque parte ci si volga non si incontrano che dei vicoli ciechi, sia che si tratti della rassegnazione crescente ad una guerra ritenuta inevitabile, del problema della Germania, della continuazione del risollevamento francese, dell’organizzazione dell’Europa, o del posto stesso della Francia nell’Europa e nel mondo.

Da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi.

E’ in questo spirito che è stata formulata la proposta presentata in annesso.[1] Le riflessioni che seguono riassumono le constatazioni che hanno condotto a questa proposta.

1. Gli animi si cristallizzano su un obiettivo semplice e pericoloso: la guerra fredda. Tutte le proposte, tutte le azioni vengono interpretate dall’opinione pubblica come un contributo alla guerra fredda.

La guerra fredda, il cui obiettivo essenziale è quello di far cedere l’avversario, è la prima fase della guerra vera e propria.

Questa prospettiva crea nei dirigenti la rigidità che risulta dal perseguimento di un solo obiettivo. La ricerca della soluzione dei problemi scompare. Questa rigidità dell’obiettivo e del pensiero procede inevitabilmente, da una parte e dall’altra, verso il cozzo che è nella logica ineluttabile di questa prospettiva. Da questo cozzo nascerà la guerra.

Di fatto, noi siamo già in guerra.

Bisogna cambiare il corso degli avvenimenti. Bisogna cambiare, per questo, lo spirito degli uomini. Non bastano delle parole. Solo un’azione immediata su un punto essenziale può smuovere l’attuale situazione di stasi. E’ necessaria un’azione profonda, reale, rapida e drammatica che cambi le cose e faccia entrare nella realtà le speranze alle quali i popoli stanno per non credere più. Così si potrà dare ai popoli dei paesi «liberi» un motivo di speranza anche per gli obiettivi più lontani che verranno loro affidati, e si creerà in essi l’attiva determinazione di perseguirli.

2. La situazione tedesca non può non diventare rapidamente un cancro pericoloso per la pace in un avvenire prossimo, e immediatamente per la Francia, se il suo sviluppo non viene diretto — per i Tedeschi — verso la speranza e la collaborazione con i popoli liberi.

Questa situazione non può essere regolata con l’unificazione della Germania perché ci vorrebbe un accordo USA-URSS impossibile da concepire in questo momento. Essa non può essere regolata con l’integrazione dell’Ovest tedesco nell’Occidente, — perché a causa di ciò i Tedeschi dell’Occidente si metterebbero, nei confronti dell’Est, nella situazione di aver accettato la separazione, mentre l’unità deve essere il loro obiettivo costante;

— perché l’integrazione pone il problema del riarmo della Germania e porterebbe alla guerra costituendo una provocazione per i Russi;

— per delle questioni politiche insolubili.

E tuttavia gli Americani insisteranno perché l’integrazione si faccia,

— perché essi vogliono che si faccia qualche cosa e non hanno altre idee attuabili subito;

— perché essi dubitano della solidità e del dinamismo francese. Alcuni pensano che si debba promuovere la creazione di un sostituto della Francia.

Non bisogna cercare di risolvere il problema tedesco che non può essere risolto sulla base dei dati attuali. Bisogna cambiarne i dati trasformandolo.

Bisogna intraprendere un’azione dinamica che trasformi la situazione tedesca e orienti lo spirito dei Tedeschi, e non cercare una sistemazione statica sulla base dei dati attuali.

3. La continuazione del risollevamento della Francia diventerà impossibile se non sarà risolta rapidamente la questione della produzione industriale tedesca e della sua capacità concorrenziale.

La base della superiorità che gli industriali francesi riconoscono tradizionalmente alla Germania sta nella sua produzione di acciaio a un prezzo al quale la Francia non può fare concorrenza. Deriverebbe da ciò, secondo loro, la posizione di svantaggio di tutta la produzione francese.

La Germania chiede già di aumentare la sua produzione da undici a quattordici milioni di tonnellate. Noi rifiuteremo, ma gli Americani insisteranno. Alla fine noi faremo delle riserve ma cederemo. Intanto la produzione francese non cresce, o addirittura diminuisce.

Basta menzionare questi fatti, anche senza illustrarli, per rendersi conto delle loro conseguenze: Germania in espansione, dumpingtedesco all’esportazione; richiesta di protezione per le industrie francesi; arresto o contraffazione della liberalizzazione degli scambi; ricostituzione dei cartelli d’anteguerra; eventuale orientamento dell’espansione tedesca verso l’Est, preludio ad accordi politici; Francia ricaduta nellaroutine di una produzione limitata, protetta.

Le decisioni che condurranno a questa situazione stanno per essere impostate, se non prese, alla conferenza di Londra, a causa della pressione americana. Orbene, gli USA non desiderano che le cose si sviluppino in questo modo. Essi accetteranno una soluzione diversa a patto che sia dinamica e costruttiva, soprattutto se essa sarà proposta dalla Francia.

Con la soluzione proposta scompare la questione del dominio della produzione tedesca, che provocherebbe, se si manifestasse, un turbamento costante, e, infine, impedirebbe l’unione dell’Europa e causerebbe di nuovo la perdita della stessa Germania. Questa soluzione crea invece per l’industria tanto tedesca, quanto francese ed europea, le condizioni di una espansione comune nella concorrenza ma senza il dominio di alcuno.

Dal punto di vista francese, questa soluzione mette l’industria nazionale su una base di partenza eguale a quella dell’industria tedeca, elimina il dumping all’esportazione che sarebbe altrimenti praticato dall’industria tedesca dell’acciaio, fa partecipare l’industria francese dell’acciaio all’espansione europea senza la paura del dumping e senza la tentazione del cartello. Sarà così eliminata la paura che spinge gli industriali verso il malthusianesimo, il blocco della «liberalizzazione», e, infine, verso il ritorno alle pratiche del passato. Il maggiore ostacolo per la continuazione del progresso industriale francese sarà tolto di mezzo.

4. Noi siamo stati, fino ad ora, impegnati in uno sforzo di organizzazione dell’Ovest nel campo economico, militare e politico: OECE, patto di Bruxelles, Strasburgo. L’esperienza di due anni, le discussioni dell’OECE sugli accordi per i pagamenti, la liberalizzazione degli scambi, ecc., il programma di riarmo sottoposto all’ultima riunione di Bruxelles, le discussioni di Strasburgo, gli sforzi — che restano senza risultati concreti — per giungere ad una unione doganale franco-italiana mostrano che non stiamo facendo alcun progresso reale verso il fine che ci siamo assegnati, e che è l’organizzazione dell’Europa, il suo sviluppo economico, la sua situazione collettiva.

L’Inghilterra, per desiderosa che sia di collaborare con l’Europa, non acconsentirà a nulla che possa avere come conseguenza quella di allentare i suoi legami con i Dominions, o di impegnarla in Europa al di là degli impegni presi dalla stessa America.

La Germania, elemento essenziale dell’Europa, non può essere impegnata nell’organizzazione europea allo stato attuale delle cose per le ragioni esposte sopra. E’ certo che la continuazione dell’azione intrapresa sulle vie nelle quali ci troviamo ora impegnati conduce ad un vicolo cieco, e rischia inoltre di lasciar passare il tempo durante il quale questa organizzazione dell’Europa sarebbe ancora possibile. In effetti, i popoli d’Europa odono soltanto parole. Ben presto essi non crederanno più all’ideale che i governi persistono ad offrire loro senza però andare al di là di vani discorsi e di riunioni futili.

L’opinione pubblica americana non sosterrà più l’azione comune e la partecipazione americana se l’Europa non si mostrerà dinamica.

Per la pace futura, la creazione di una Europa dinamica è indispensabile. Un’associazione di popoli «liberi», alla quale parteciperanno gli USA, non esclude affatto la creazione di una Europa; al contrario — siccome questa associazione sarà fondata sulla libertà, dunque sulla diversità — l’Europa, a patto che venga adattata alle nuove condizioni del mondo, svilupperà le sue facoltà creatrici e si rivelerà come una forza di equilibrio.

Bisogna dunque abbandonare le forme del passato ed entrare in una via di trasformazione sia con la creazione di comuni condizioni economiche di base, sia, nel contempo, con l’instaurazione di nuove autorità accettate dalle sovranità nazionali. L’Europa non è mai esistita. Non è la somma di sovranità riunita in consigli che crea una entità. Bisogna creare davvero l’Europa, bisogna che essa si manifesti a sé stessa e all’opinione americana, e che abbia fiducia nel suo avvenire.

Questa creazione, nel momento in cui si pone il problema di un’associazione con una America tanto forte, è indispensabile per dimostrare che i paesi d’Europa non si abbandonano alla facilità, non cedono alla paura, credono in sé stessi e creano senza indugi il primo strumento della realizzazione di una Europa in seno alla comunità dei paesi liberi e pacifici, alla quale essa apporterà equilibrio e la continuazione del suo pensiero creativo.

5. Nel momento presente, l’Europa non può nascere che dalla Francia. Solo la Francia può parlare ed agire. Ma se la Francia non parla e non agisce ora che cosa accadrà?

Un raggruppamento si opererà intorno agli Stati Uniti, ma per condurre con più forza la guerra fredda. La ragione evidente di ciò, sta nel fatto che i paesi d’Europa hanno paura e cercano aiuto. L’Inghilterra si avvicinerà sempre più agli Stati Uniti; la Germania si svilupperà rapidamente, noi non potremo evitare il suo riarmo. La Francia ricadrà nel malthusianesimo di un tempo, e questa evoluzione si concluderà fatalmente con il suo tramonto.

6. Dopo la liberazione, i Francesi, ben lungi dal lasciarsi abbattere dalle difficoltà, hanno dato prova di vitalità e di fede nell’avvenire: sviluppo della produzione, modernizzazione, trasformazione dell’agricoltura, messa in valore dell’Unione francese, ecc.

Orbene, durante questi anni i Francesi hanno dimenticato la Germania e la sua concorrenza. Essi credevano nella pace. Essi ritrovano di colpo la Germania e la guerra.

La crescita della produzione della Germania e l’organizzazione della guerra fredda risuscitano nel loro animo i sentimenti di paura tipici del passato, e farebbero rinascere i riflessi malthusiani. Essi ricadrebbero così nella loro condizione psicologica di paura proprio nel momento in cui l’audacia permetterebbe loro di eliminare questi due pericoli, e farebbe compiere allo spirito francese quei progressi per i quali esso è preparato.

In questa congiuntura, la Francia è designata dal destino. Se prende l’iniziativa che eliminerà la paura, che farà rinascere la speranza nell’avvenire, che renderà possibile la creazione di una forza di pace, essa avrà liberato l’Europa. E in una Europa liberata, lo spirito degli uomini nati sul suolo di Francia, viventi nella libertà le in condizioni materiali e sociali costantemente in progresso, continuerà ad apportare il suo contributo essenziale.

LA POLITICA SECONDO JEAN MONNET: L’UOMO D’AZIONE E L’UOMO DI POTERE

"Ciò che ho intrapreso, in ogni fase importante della mia vita, procedeva da una scelta, e da una sola, e questo limitarmi a un solo scopo mi ha salvato dalle tentazioni della varietà e anche dal gusto del potere dalle mille sfaccettature.

Sono fatto così e non riuscirei ad essere diverso. Ma credo anche che sia necessario trattare certe cose in questo modo per ottenere un risultato. Questa regola non vale per quelli che devono occuparsi di tutti gli affari dello Stato, poiché bisogna che essi considerino l’insieme dei problemi. Quest’altra attitudine dello spirito, che è necessaria all’uomo politico, contiene in sé i limiti del suo potere sulle cose. Se egli fosse dominato da una sola idea, non sarebbe più disponibile per altre, che invece rientrano anch’esse nei suoi compiti; inversamente,dedicandosi a tutte, rischia di perdere l’occasione di agire, che è unica. Trovandomi davanti a questo dilemma, capii che avevo di meglio da fare che cercare di esercitare io stesso il potere (...) Mi accorgevo inoltre che per accedere a questo posto avrei dovuto farmi violenza.

Per l’uomo politico l’obiettivo di ogni istante è di essere al Governo, e lì di essere il primo Non ho mai conosciuto un grande uomo politico che non sia fortemente egocentrico, ed è logico: se non lo fosse, non avrebbe mai imposto la sua immagine e la sua persona. lo non avrei potuto esserlo e non per modestia: non si può concentrarsi su una cosa e su se stessi. E questa ‘cosa’ è sempre stata la stessa per me: far lavorare tutti gli uomini uniti, dimostrare loro che, al di là delle divergenze o al di sopra delle frontiere, essi hanno un interesse comune (...).

La concorrenza era viva attorno al potere, ma era praticamente nulla nel settore in cui io volevo agire, quello, cioè, che si occupa della preparazione dell’avvenire e che, per definizione, non è rischiarato dalle luci dell’attualità. Poiché non davo fastidio agli uomini politici, potevo contare sul loro appoggio.

Inoltre, se ci vuole molto tempo per arrivare al potere, ne occorre molto poco per spiegare a quelli che ci sono arrivati come si possa uscire dalle difficoltà presenti: è un linguaggio che ascoltano volentieri al momento critico. In quel momento, quando mancano le idee, essi accettano volentieri le tue, purché ne abbiano la paternità. Dato che tutti i rischi sono loro, anche gli allori devono essere lasciati a loro. Nel mio lavoro, gli allori bisogna dimenticarseli. Per quanto ne dicano, non mi piace tenermi nell’ombra, ma se solo con una certa riservatezza posso portare a termine le cose in modo più soddisfacente, ebbene, allora scelgo l’ombra".

J. Monnet, Mémoires, 1976

Articolo tratto dalla scheda ad hoc del Centro di Studi sul Federalismo “Mario Albertini” e dai testi della rivista «Il Federalista», anno XXX, 1988, n. 3 e XIX, 1977, n. 1.

Fonte immagine: Wikipedia.

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