Le Primavere Arabe. Un fenomeno regionale
Il termine Primavere fu ripreso dall’occidente proprio per indicare l’assimilabilità tra la natura, le richieste e le cause di questi movimenti e quelli scoppiati in Europa nello scorso secolo. I Paesi arabi in cui si verificò questa frattura erano infatti caratterizzati da sistemi di governo autoritari e centralizzati e dall’assenza di libertà di espressione, pluralismo e possibilità di partecipazione politica (Guazzone, 2016). Le condizioni di vita dei cittadini in questi territori erano tutt’altro che floride: la percentuale di individui sotto la soglia di povertà era impressionante, così come i tassi di disoccupazione oltremodo alti e le disuguaglianze economiche e sociali in aumento, che favorivano una porzione sempre più ristretta di popolazione spesso coincidente con le classi al potere. Leggendo questo quadro alla luce dell’inarrestabile crescita demografica del mondo arabo e dell’avvento della crisi economica in occidente, una variabile che ebbe forti ripercussioni su questo delicatissimo contesto, si può spiegare l’esplosione del fenomeno delle Primavere nel biennio 2010-2011 come espressione di un malcontento covato in decenni di soprusi, repressioni e pratiche di governo corrotte e illiberali. Pur avendo segnato una svolta storica per il mondo arabo e avendo originato un’eredità culturale tutt’oggi presente e diffusa tra le società civili, in molti di questi territori le Primavere non hanno raggiunto gli esiti sperati, scatenando sanguinosi conflitti civili come in Libia, Siria e Yemen, o esaurendosi di fronte a misure reazionarie e politiche di repressione. Tuttavia, la forte volontà di riscatto da parte del popolo arabo espressa dagli esperimenti democratici post 2011 resta tutt’oggi da tenere in considerazione e non può essere ignorata dalle autorità di questi Paesi. Questa evidenza ha però spesso generato delle pratiche di governo ancor più vessatorie e oppressive da parte dei leader politici nei confronti delle forze di opposizione.
La Primavera Egiziana e il governo della Fratellanza Musulmana
L’Egitto non è sfuggito alle logiche appena descritte. La Primavera Araba egiziana ha infatti riversato una fortissima ondata di cambiamenti e conseguenze politico-sociali sul Paese. Protagonista indiscussa dei moti di protesta è stata la Fratellanza Musulmana, un movimento estremamente radicato in Egitto, dove fu fondato nel 1928 con l’obiettivo di riportare l’Islam al centro della vita sociale e proporre la rinascita e la modernizzazione della religione islamica – cosiddetta Nahda. Il movimento dei Fratelli Musulmani ha dovuto affrontare negli anni diversi periodi di repressione più o meno ostinata e, nonostante la sua forte presenza sul territorio, nelle istituzioni e negli organi dello Stato, anche nei periodi in cui ebbe la possibilità di operare alla luce del sole dovette sempre farlo sotto restrizioni. La Fratellanza partecipò ufficialmente ai moti del 2011, svolgendo un ruolo fondamentale nell’organizzazione e nella pianificazione della caduta del regime militare di Hosni Mubarak, alla guida del Paese da circa trent’anni e naturale prosecuzione di una dittatura mai interrotta sin dalla presa dei palazzi di governo da parte dell’esercito nel 1953, quando la cosiddetta rivolta dei Liberi Ufficiali portò al governo il generale Nasser, considerato uno dei padri della nazione.
Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 la Fratellanza si legittimò come prima forza politica del Paese. Inizialmente vinse le elezioni parlamentari che videro l’affermazione del partito Libertà e Giustizia, ovvero il braccio politico del movimento, e successivamente si affermò di nuovo con quelle presidenziali di maggio che portarono alla vittoria Mohammed Morsi – eletto presidente con pochi punti percentuali di differenza rispetto al candidato d’opposizione laico. Senza voler entrare nel merito del breve ma controverso esperimento di governo portato avanti dall’allora neo eletto presidente, che non ha avuto modo di essere sottoposto alla valutazione della storia, il significato di questo risultato è stato epocale. Senza dubbio infatti questi eventi hanno segnato il punto più alto nella storia della Fratellanza e una speranza di democrazia per il popolo egiziano, che per la prima volta dal 1954, grazie alle imponenti riforme costituzionali promosse, ha visto l’estromissione dell’esercito da molte delle istituzioni politiche e giudiziarie e dalla vita civile del Paese.
È bene sottolineare infatti che le forze armate sono sempre state pilastro e decisore ultimo delle sorti politiche dell’Egitto e, servendosi delle forze economiche e del controllo del sistema giudiziario, hanno sempre agito indisturbatamente, conquistando il titolo di unico attore in grado di mantenere l’ordine e la sicurezza nel Paese e di difendere lo Stato dal pericolo dell’integralismo islamico, spesso identificato con la Fratellanza stessa. Alla luce di questo ruolo è dunque chiaro come il governo del presidente Morsi si fosse trovato sin da subito nella delicatissima posizione di annullare questa concezione e ribaltare la visione secolare e militarista radicata da quasi 60 anni in Egitto. Il suo primo – e unico – anno di governo è stato caratterizzato da grosse polemiche nei confronti della Fratellanza, accusata più volte di voler islamizzare lo Stato e proporre riforme reazionarie che ebbero il risultato di suscitare un controproducente scontento nei confronti del nuovo assetto istituzionale da parte di numerose classi e categorie del Paese: le minoranze religiose temevano comprensibilmente la mancanza di tutele e garanzie per le proprie comunità, molte donne lamentavano la disuguaglianza di genere incentivata dal nuovo testo fondamentale, la stampa e gli intellettuali contestavano fortemente la mancanza di giuste tutele per i diritti di espressione e di manifestazione del pensiero. Con il passare del tempo il presidente Morsi vedeva la propria base elettorale sgretolarsi ed ergersi di fronte a sé una sempre più organizzata, consistente e variegata opposizione, formata da gran parte del mondo intellettuale, giovani rivoluzionari e moderati e dalla magistratura.
La cosiddetta “riforma costituzionale islamista” scatenò a fine 2012 una fortissima indignazione e sommosse che portarono Abdel Fattah Al-Sisi, giovane ministro della Difesa e capo supremo dell’esercito nominato dallo stesso presidente Morsi, a proporsi come mediatore super partes tra il governo e le opposizioni. Il generale, poco conosciuto e inizialmente presentato come una figura vicina alla Fratellanza, avrebbe potuto secondo molti osservatori smorzare l’inconciliabilità tra il movimento islamista allora al potere e l’esercito. Molto probabilmente il rifiuto di questa offerta diede il via ai piani per la destituzione di Mohamed Morsi.
L’arrivo dell’Autunno. Il colpo di stato e l’ascesa alla Presidenza di Abdel Fattah Al-Sisi
L’occasione per ribaltare il quadro arrivò pochi mesi più tardi, quando una nuova fase di malcontento suscitò ulteriori ondate di proteste in cui decine di migliaia di egiziani scesero in Piazza Tahrir, nella capitale, chiedendo a gran voce le dimissioni del presidente. A questo punto il Consiglio Supremo Militare, presa la palla al balzo, sfruttò l’estrema polarizzazione sociale e politica per emettere un ultimatum in cui vennero richieste le dimissioni del presidente islamista entro le successive 48 ore. Il rifiuto da parte di Morsi portò l’esercito a dichiararsi al comando del Paese e assumerne la direzione fino a nuove elezioni. Il colpo di Stato del 3 luglio 2013 provocò a sua volta forti proteste e critiche nei confronti del nuovo regime militare che durarono per oltre un mese ma vennero infine represse nel sangue dalle stesse forze armate. A questo proposito non si può non fare riferimento alla strage di piazza Rabaa al Adaweya, sicuramente la più celebre tra le sommosse di questo periodo, nonché esemplificativa dell’attitudine delle nuove istituzioni egiziane. Qui, in pieno giorno e persino sotto gli occhi di osservatori internazionali, centinaia di manifestanti vennero uccisi e migliaia di persone ferite e arrestate per mano dei militari. Queste premesse non lasciavano presagire alcuna continuità tra le rivendicazioni democratiche che sembravano aver preso il passo in Egitto non appena due anni prima e l’attitudine del nuovo regime che nel giro di un anno avrebbe ufficialmente preso il controllo del Paese. Dopo un breve periodo di governo militare, nel maggio del 2014 Al-Sisi divenne presidente con con una conferma plebiscitaria che, al di là delle discussioni sulla trasparenza delle votazioni, confermò l’immagine del generale come quella di un leader carismatico e degno di fortissima fiducia, capace di risollevare le sorti del Paese garantendo una crescita economica e una sicurezza politica in grado di proteggere l’Egitto da derive integraliste, ma distaccandosi allo stesso tempo dai precedenti regimi militari repressivi e reazionari del passato.
Come illustrato dal Dottor Giuseppe Dentice, ricercatore dell’ISPI, la vita politica dell’Egitto si è sempre retta su tre pilastri fondamentali strettamente interconnessi: quello principale dell’esercito, che da quasi 70 ricopre un indiscusso ruolo di ultimo decisore politico; le grandi forze economiche, che ne hanno sempre appoggiato l’operato in cambio di protezione e privilegi; e infine la magistratura, il cui sistema ha sempre costituito per le forze militari la porta d’ingresso alla vita civile, consentendo una costante e decisiva partecipazione di queste ai propri processi decisionali. Questo particolare equilibrio tra attori garantisce tutt’oggi un regime capillare e centralizzato, che riesce a indirizzare ogni aspetto della vita del Paese in favore delle classi al potere e a controllare e reprimere ogni forma di dissenso e opposizione. Tale impostazione è estremamente radicata in Egitto, tant’è che molti osservatori e accademici ritrovano le cause del fallimento del governo della Fratellanza Musulmana nell’incapacità di conciliare queste tre forze motrici o di indebolirne le tendenze anti-democratiche. Morsi era divenuto presidente senza avere il controllo della macchina statale e, prima di lui, il presidente Mubarak, considerato abilissimo nel preservare questo decisivo equilibrio, ne perse le redini dopo 30 anni a causa dell’improvviso scoppio delle proteste. Al-Sisi sembra aver avuto invece la forza e la legittimità giuste per svolgere il ruolo di perno tra le forze non appena citate, in modo da far ripartire la vita politica ed economica del Paese. Pur ristabilendo le vecchie dinamiche, Sisi riuscì – perlomeno inizialmente – a trasmettere un’immagine innovativa scongiurando le facili assimilazioni con il regime reazionario di Mubarak. Una nuova immagine che fu supportata dagli stessi intellettuali che Morsi si era inimicato e persino da molte categorie sociali e ideologiche che, seppur lontane dall’esercito, lo preferivano al pericolo dell’islamizzazione dello Stato.
Sin dalla sua elezione, il generale Al-SIsi ha inaugurato una politica mirata a «riportare l’Egitto sulla retta via». Una nuova Carta Fondamentale emendava la Costituzione emanata da Morsi, ristabilendo il predominio e i privilegi della classe militare ed eliminando ogni elemento religioso dagli apparati istituzionali. Letta insieme al decreto dello stesso anno che assegnava a molti movimenti religiosi – primo fra tutti quello della Fratellanza Musulmana – l’etichetta di gruppo terroristico e per questo naturalmente illegali e nemici dello Stato, la Carta Fondamentale, mascherata dalla tanto apprezzata facciata di progressismo secolarista, inaugurava ufficialmente l’inizio dell’imponente e diffuso sistema repressivo tutt’oggi portato avanti dal regime egiziano. Quest’attitudine, rafforzata dalle nuove leggi anti-terrorismo nel 2015 e dalla proclamazione dello stato di emergenza nel 2017 – misure utilizzate per indebolire ulteriormente ogni forma di dissenso – ha contribuito a formare un regime capillare in cui, come notato da Federica Zoja, ricercatrice ed editorialista per Avvenire, «non è solo la nascita di un’opposizione organizzata ad essere impedita, bensì qualsiasi forma di dissenso, anche individuale». Con il passare del tempo il presidente Al-Sisi è riuscito a penetrare all’interno di qualsiasi circuito in cui potessero nascere forme di contestazione, basti pensare al fortissimo controllo dei mezzi di informazione, dei media e dei siti web e alla morsa esercitata sulle università, i cui rettori vengono nominati dall’Ufficio della Presidenza e possono espellere gli studenti e i ricercatori che conducono studi e avanzano idee incostituzionali o “contro la sicurezza pubblica”, ossia contro la linea del regime.
I casi di GIulio Regeni e di Patrick Zaki esemplificano molto bene la sorte destinata agli oltre 60 mila detenuti politici presenti ad oggi nelle carceri egiziane.
Da chi è composta l’opposizione in Egitto?
Come abbiamo detto, a livello sostanziale non esistono vere e proprie forme di opposizione organizzata all’interno del Paese. Le maggiori forze, specialmente quelle islamiste, non hanno più avuto la possibilità di operare e solamente le più forti sono riuscite a sopravvivere, seppur con estrema difficoltà e soprattutto non sul suolo egiziano. È questo il caso della Fratellanza Musulmana, che ad oggi ha creato una forte rete internazionale estesa fino in America e in Europa e che ha il maggiore centro operativo in Turchia, dove ha ricevuto la protezione del presidente turco Erdogan. Ciò ha sì permesso che il movimento non si esaurisse del tutto ma ne ha sicuramente comportato un indebolimento. Come sostiene il Professor Matteo Colombo la Fratellanza si vede oggi surclassata da modelli di rinnovamento del culto e da leader che si sono dimostrati più efficienti, come il metodo più graduale ma deciso portato avanti dallo stesso Erdoğan in Turchia. Il movimento non potrà continuare a sopravvivere in eterno senza una vera base e dei punti di riferimento.
Per quanto riguarda gli altri Partiti, specialmente quelli laici, è opportuno evidenziare uno studio condotto da Michel Dunn e Amr Hamzawy e pubblicato dal Carnegie Middle East Center, che divide i partiti politici secolari egiziani essenzialmente in tre macrogruppi. Il primo è formato dai partiti di nascita recente, che hanno assunto posizioni fortemente assimilabili alla linea dettata del presidente Al-Sisi e che sono perciò entrati a far parte dei meccanismi di governo e gestione del Paese. Il secondo gruppo è invece formato da quelle formazioni, come il Partito Socialdemocratico o il Partito Nazionale Libero, che sono riuscite a sopravvivere pur mantenendo una parziale indipendenza dai vertici dello Stato, ma i cui membri subiscono periodicamente soprusi, minacce e boicottaggi che rendono impossibile a livello pratico la partecipazione al gioco politico come avversari. La perenne situazione di incertezza alla quale questi sono sottoposti provoca inoltre continue fratture interne alle dirigenze che assumono regolarmente posizioni frammentate in risposta alle intimidazioni. Infine, esistono i partiti dichiaratamente contro il regime che non presentano però, secondo lo studio e alla luce dei dati quantitativi e qualitativi della loro attività politica, possibilità di contrastarlo o impensierirlo.
Lo studio, con una forte quanto interessante conclusione, sostiene che i partiti secolari di opposizione in Egitto hanno avuto un forte calo di credibilità per aver cavalcato prima la propaganda rivoluzionaria dei Fratelli Musulmani nel 2011 e poi, dopo aver fiutato il pericolo di una islamizzazione dello Stato, aver invece preferito la salita al potere del generale Al-Sisi, che pur lasciandone alcuni in vita ne ha completato il processo di neutralizzazione. Per concludere, il regime autoritario vigente in Egitto è sicuramente spietato e ben saldo al comando, ma negli ultimi mesi abbiamo assistito a degli sviluppi che pongono comunque degli interrogativi ben giustificati sul perché il Presidente abbia bisogno di un sistema così stringente. Nel settembre dello scorso anno infatti migliaia di persone sono scese nell’ormai simbolica Piazza Tahrir per protestare a seguito di un singolo caso di corruzione ma ben presto la manifestazione ha assunto più ampi e radicali tratti di contestazione al regime lasciando emergere la frustrazione di un popolo che, dopo quasi 7 anni di governo, presenta ancora moltissime delle problematiche che caratterizzavano il Paese allo scoppio delle Primavere Arabe. Ad oggi in Egitto il 32.5% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, la disoccupazione giovanile supera il 40% e, come sufficientemente ribadito, i diritti fondamentali e delle minoranze non vengono assolutamente garantiti. La forte e costante crescita demografica del Paese, che già è il più popoloso del Medio Oriente, amplifica inoltre enormemente tutti questi problemi. Il governo, che ha avuto modo di conoscere bene gli effetti di moti di protesta del genere, resta dunque sull’attenti cercando d’impedire in ogni modo lo scoppio di qualsiasi tipo di dissenso a cominciare da quelli individuali, in modo che non possano mai prendere piede su scala maggiore. Nonostante sia stata ben presto repressa nel sangue dalle efficienti forze armate egiziane- si parla infatti di oltre 1900 arresti e di centinaia di condanne – la contestazione di settembre assume una fortissima carica simbolica. Si tratta infatti delle prime rilevanti insurrezioni dall’ascesa al potere di Al-Sisi, e la loro portata dimostra che la cosiddetta “paranoia del potere” che lo spinge a governare con un pugno così serrato è dovuta a timori reali e a segnali che, seppur ancora deboli, custodiscono un alto potenziale sovversivo.
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