Il problema del veto e la dittatura delle minoranze

, di Davide Emanuele Iannace

Il problema del veto e la dittatura delle minoranze

L’articolo 27 della Carta delle Nazioni Unite garantisce che tutte le decisioni sostanziali del Consiglio di Sicurezza debbano essere votate all’unanimità dai membri permanenti. Il potere di bloccare, di fatto, le decisioni dell’Assemblea e del Consiglio delle Nazioni Unite è stato ampiamente sfruttato da parte, in particolar modo, dell’URSS prima, degli Stati Uniti e della Russia dopo. Le ragioni del potere di veto al Consiglio di Sicurezza le si può ritrovare all’interno di una logica di tipo e di stampo nazionalistico. Nessuna organizzazione, nonostante la nobiltà del suo scopo, doveva essere imprescindibilmente indipendente dalle grandi potenze. Potenze, in particolare, che in quel frangente rappresentavano i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, ovvero Russia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina (inizialmente la Repubblica di Cina, poi la Repubblica Popolare di Cina) e Francia. È abbastanza chiaro anche sia il tipo di mentalità che esisteva alla base della formazione delle originarie Nazioni Unite, sulla scia di quella Società delle Nazioni nata decadi prima, sia che di fatto gli equilibri geopolitici dell’epoca siano profondamente cambiati. Non approfondiremo oltre questa tematica, ma de facto il potere di veto nasce anche da un tipo di logica appartenente al XX, se non XIX, secolo. Il potere di veto ha riflesso fortemente i singoli interessi dei membri permanenti. Questo ha portato nel tempo a conseguenze disastrose per l’operato delle stesse Nazioni Uniti, come l’assedio di Idlib ha ampiamente dimostrato.

Non meno rilevante è stato il tentativo da parte di alcune nazioni, come le Small5 e poi la Francia e la Gran Bretagna, di porre dei limiti al potere di veto stesso, almeno nei casi più immediatamente necessari come quelli di genocidio. Cina, USA e la oramai Russia usano con ampia discriminazione il proprio potere di veto per difendere i propri interessi, o interferire con quelli dei propri rivali. Gli Stati Uniti, nel loro ampio uso del veto, secondo solo ai russi stessi, ha difeso strenuamente Israele da qualsiasi ingerenza delle Nazioni Unite. Possiamo riscontrare proprio nel potere di veto uno dei principali limiti di quella che è, a tutti gli effetti, una delle più grandi sperimentazioni della società umana globale. Per quanto tesa alla raggiunta di obiettivi che potremmo considerare come nobili, ovvero la ricerca di uno stato di pace e di equilibrio tra le nazioni aderenti e non, la protezione dei diritti fondamentali come quelli di auto-determinazione delle genti [1], il pragmatismo politico ha spesso posto altri ideali e altri scopi ben al di sopra della Carta. L’uso del potere di veto ne è esemplare. Bloccare la risoluzione ad Idlib, ultimo di una lunga serie di veti, è lampante. Non conta il sacrificio delle vite umane, né tanto meno le ragioni umanitarie per fermare i combattimenti: conta l’obiettivo finale, la vittoria, qualsiasi sia il prezzo che (qualcun altro) pagherà.

È innanzitutto interessante notare come, di per sé, il potere di veto è controbilanciato dalla necessità di due altri membri non-permanenti di essere d’accordo con la decisione, in virtù della storica paura da parte delle nazioni che possiamo definire come secondarie di subire un regime mondiale in cui le grandi potenze potevano legalmente spadroneggiare (Cfr. Morphet, 1990). Allo stesso tempo, questo contro-bilanciamento in caso di “accordo tra le potenze” non è a sua volta bilanciato dalla possibilità di superare i loro statali interessi. Il caso israeliano è particolarmente interessante. Come pedina e alleato fondamentale della politica in Medio Oriente degli Stati Uniti, le Nazioni Uniti non sono mai riuscite a, con forza, imporre nessuna scelta sul piccolo stato mediterraneo, proprio grazie allo scudo del veto americano. Parte dei limiti delle Nazioni Unite si rivela quindi proprio qui in tutta la sua grandezza. È un limite innato, dovuto a quel sistema di pesi e contro-pesi che caratterizza la politica pragmatica e realistica contemporanea.

Un regime di veto esiste anche all’interno dell’Unione Europea. Se molte decisioni possono essere prese con una maggioranza qualificata, vi è un range di decisioni che non possono essere intraprese senza il consenso attivo di tutti gli stati membri. Parliamo ad esempio della decisione di accettare o meno nuovi membri o di molte (ma non tutte) le materie riguardanti la politica estera comune. È una lista non comprensiva [2]. Ci da però un accenno dei poteri che l’Unione, di fatto, non ha potuto fare suoi come organizzazione ma che ancora risiedono nei rapporti intergovernativi e nelle singole sfere del potere nazionale. Questa mancata delega verso un tipo di voto maggioritario ha il risvolto di rendere l’Unione in parte vittima delle minoranze, che possono sfruttare il potere di bloccare alcune decisioni unilateralmente per sostenere, ad esempio, politiche estere che possono essere in competizione con altri paesi dell’Unione, o evitare l’allargamento verso particolari stati che potrebbero inficiare alcuni degli equilibri esistenti, per citare alcune delle possibilità e degli effetti osservati negli anni recenti. Raggiungere una comunione di interessi totale e unanime tra gli stati membri certamente vuol dire aver convinto tutti gli appartenenti all’UE della validità di una data decisione ed è sintomatico di una certa democraticità delle istituzioni europee. Anche lo scambio politico che avviene all’ombra delle decisioni che hanno bisogno di questo tipo di voto è sintomatico certamente di una certa mentalità che ha un carattere federale, più che di semplice unione, in particolare per la rilevanza delle tematiche che vengono toccate (come la difesa o la politica estera, ambiti che weberianamente caratterizzano lo stato come lo conosciamo oggi).

Vi è sempre stato un chiaro equilibrio tra l’optare per il voto all’unanimità e quello maggioritario, un equilibrio che rientra in una logica squisitamente politica (Cfr. Golub, 1999, che vede al suo centro una chiara lotta tra la protezione degli interessi nazionali sia delle grandi nazioni europee (i.e. Francia e Germania) ma anche quelle delle nazioni che possiamo considerare minori. In che modo? Da un lato, le grandi potenze europee volevano restare slegate, come già De Gualle mise in luce nel 1966, dal potere della maggioranza. Non voleva, di fatto, essere legate strettamente a un potere che fosse in qualche modo specchio di una democrazia e di un tipo di discussione tipico dei sistemi già nazionali. Un parlamento nazionale raramente funziona per unanimità, se non mai. Per maggioranza reale o qualificata certamente, ma è difficile trovare (non ne vengono ancora in mente) esempi di voti all’unanimità necessari. D’altro canto, le piccole nazioni non volevano allo stesso modo ritrovarsi soggette agli shift degli interessi dei blocchi europei. Tenendo a mente che, spesso, il singolo voto di una nazione come la Germania tende a portare con sé anche quello del blocco considerabile come “nordico”, viene reso evidente la necessità secondo alcune nazioni di tenere le decisioni che possiamo definire come fondamentali al di fuori delle mani della maggioranza, se questa può diventare uno strumento di disequilibrio e imposizione.

Nonostante queste potenziali debolezze di un sistema completamente maggioritario, il sistema che prevede l’unanimità ha reso l’Unione Europea, su alcune fondamentali politiche, schiava della minoranza. Molte proposte che era necessario prenderlo sono state bloccate proprio dal voto all’unanimità, come ben dimostrano i fallimenti nel campo delle politiche migratorie. Certo è che paesi come Ungheria e Polonia, e non solo, hanno mantenuto una linea dura rispetto ad esempio alla ridistribuzione dei migranti perché avevano semplicemente lo strumento per bloccare tale politica mentre mantenevano intatti i propri privilegi come stati-membro. La logica che si innesca all’interno del sistema che prevede il veto è certamente di stile contrattuale (voto si perché tu domani voti si alla mia proposta, o al contrario), ma non rispetta degnamente quello che deve essere invece un sistema potenzialmente democratico e di tipo federale. Prendere con voto maggioritario decisioni come quelle sul campo delle policy estere, della difesa, dei fenomeni migratori, vuol dire spostare decisamente l’asse del discorso dalla mera logica nazionale ad una logica maggiormente federale. Esemplifichiamo: se all’interno del paese Italia sorge una forte opposizione ad una nuova policy di politica estera europea, per mantenere il proprio accordo popolare l’Italia può porre semplicemente il suo veto, bloccando l’operato UE e mantenendo la faccia con la propria opinione pubblica. La cessione di sovranità, perché di questo fondamentalmente si tratterebbe, sposterebbe l’asse della discussione su un nuovo livello. Non si potrebbe ragione di difesa o politica estera a un semplice livello nazionale perché, di fatto, quelle decisioni andrebbero prese a maggioranza in un ambito più grande, quello europeo. Ungheria e Polonia non potrebbero bloccare ad esempio una nuova politica di ridistribuzione semplicemente dicendo no, ma dovrebbero entrare all’interno di una logica di tipo discorsiva, e anche contrattuale, più tipica di uno stato federale, in cui il calcolo degli interessi e delle spese viene traslata verso l’intero sistema e non solo per la propria entità statuale. È vero che quei rischi che abbiamo messo prima in rilievo potrebbero incidere, e non leggermente, sull’Unione stessa. Contemporaneamente, essere schiavi della minoranza rallenta, blocca e danneggia il funzionamento dell’Unione stessa. In un mondo in cui le notizie hanno le gambe corte, nel senso che muoiono poco dopo essere nate, l’effetto dei fallimenti a breve termine pesa più di quello dei successi a lungo termine. Salvare l’Unione e tracciare anche il futuro federale vuol dire cercare di diminuire la presenza dei primi. Il potere di veto può far naufragare mesi e mesi di discussioni politiche per la semplice volontà di una singola nazione di dire no, qualsiasi sia la sua agenda politica. Questo, in un momento di profonda crisi, sia politica che sociale e culturale, è un prezzo che non si può più pagare.

Note

[1Per maggiori informazioni, si può consultare la Carta delle Nazioni unite a questo link: https://www.un.org/en/charter-united-nations/

[2Si possono ritrovare gli ambiti delle politiche europee che richiedono unanimità di voto al link seguente: https://www.consilium.europa.eu/en/council-eu/voting-system/unanimity/

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