Uno degli argomenti più utilizzati dagli anti-europeisti è il fatto che l’Italia contribuisce al bilancio della Unione europea per un importo superiore a quanto riceve come fondi agricoli, fondi strutturali, fondi regionali e sociali. Vero è che l’Italia, al pari di altri 8 paesi tra cui Germania, Francia, Inghilterra e Olanda, è un contributore netto del bilancio UE. Nel grafico 1 (fonte: Commissione Europea) sono indicati i valori in miliardi di Euro di quanto versato, di quanto ricevuto e della differenza per tutti gli anni dal 2000 al 2017.
- Grafico 1
La conclusione dei nazionalisti anti-europei è apparentemente semplice: non ci conviene stare nell’Unione perché ogni anno paghiamo più di quanto riceviamo. Probabilmente anche i nazionalisti olandesi, francesi o tedeschi sostengono la stessa tesi. Addirittura questo ragionamento ha aiutato i sostenitori della Brexit a vincere il referendum in Gran Bretagna.
Trarre delle conclusioni analizzando un solo dato economico porta a fare degli errori grossolani e quello di concludere che non ci conviene stare in Europa perché abbiamo un saldo dei contributi negativo è uno di questi errori, perché non considera altri fattori che hanno importanza ben maggiore. Non si tratta solo di calcolare quanto risparmiamo di dazi doganali, di commissioni di cambio valuta o di controlli alle frontiere, importi che probabilmente già da soli compenserebbero il saldo negativo dei contributi; si tratta di dare un valore economico al vantaggio che l’economia nazionale nel suo complesso ha dall’appartenenza al mercato unico dell’Unione Europea.
Poiché la Comunità Economica Europea (CEE), avviata il 1 gennaio 1958 con 6 paesi, in questi 62 anni è evoluta in successive tappe diventando una Unione (UE) integrata di 28 stati, non è semplice fare un calcolo economico di quanto è stato il vantaggio dell’appartenenza all’UE per ogni singolo paese, e non si possono fare semplificazioni quali paragonare il reddito pro-capite del 1958 rispetto a quello del 2020, perché il mondo in questi 62 anni è cambiato (globalizzazione) e molti dei vantaggi di cui godiamo oggi (internet, nuove tecnologie, etc.) non dipendono dalla appartenenza o meno alla UE. Fortunatamente ci aiutano i centri studi specializzati: tre ricercatori e ricercatrici dell’ISO Institute di Munich, applicando un modello matematico piuttosto complesso, hanno analizzato 50 settori produttivi, dall’agricoltura ai servizi, calcolando per ognuno di essi il vantaggio o lo svantaggio economico per quel settore dalla appartenenza a 5 accordi europei (mercato unico, unione doganale, area Schengen, Euro, accordi UE con paesi terzi) rispetto all’essere fuori da questi accordi.
Il grafico 2 indica la variazione percentuale del reddito pro-capite dovuta ai risparmi ottenuti dall’adesione ai 5 accordi. Occorre considerare che i profitti delle società con sede fiscale in paesi considerati paradisi fiscali, quali Irlanda, Lussemburgo e Malta, alzano artificiosamente il reddito pro-capite di quei paesi.
- Grafico 2
Successivamente hanno applicato queste percentuali ai volumi di affari relativi all’anno 2014. Il risultato per l’Italia porta ad un vantaggio in un solo anno di circa 40 miliardi di Euro. I paesi che hanno in valore assoluto i maggiori vantaggi (Germania, Francia, Inghilterra, Olanda e Italia) sono tutti paesi “contributori netti”, come mostrato nel grafico 3, che mostra gli aumenti del reddito attribuibili, secondo il modello applicato, all’appartenenza al mercato unico.
- Grafico 3
Conclusioni
Pur tenendo conto che l’applicazione di modelli matematici all’area economica europea, così vasta e variegata, sconta un certo margine di errore, le conclusioni dell’Iso Institute appaiono inconfutabili: l’adesione al mercato unico, all’unione doganale, all’area Schengen, la condivisione di accordi con paesi terzi e l’appartenenza all’area Euro hanno un impatto positivo sullo sviluppo economico dei singoli paesi superiore di circa 10 volte il saldo contabile dei paesi contributori netti.
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