Il conflitto palestinese-israeliano e l’Europa, al di là di slogan e schieramenti

Parliamo di un argomento tristemente presente nelle cronache attuali e che deve rimanere, ora, al centro della discussione

, by Davide Emanuele Iannace

Il conflitto palestinese-israeliano e l'Europa, al di là di slogan e schieramenti

La storia del conflitto tra Palestina e Israele è lunga, complessa, e ha vissuto un nuovo capitolo con la recente offensiva di Hamas, a cui non è mancata dura risposta. Essere nel giusto e contemporaneamente schierarsi sul tema non è possibile, limitarsi agli slogan è inutile, rielaborare il ruolo dell’Europa è ciò che ha senso fare ora.

Parlare di Israele e Palestina è, naturalmente, gettarsi in un vespaio pieno di calabroni neri incazzati e pronti a eliminare qualsiasi cosa si muova, respiri e che abbia un’opinione opposta alla loro. Dire che il conflitto sia in qualche modo divisivo, sarebbe dire poco. La storia del conflitto palestinese-israeliano è lunga, complessa, affonda le sue radici all’interno della fine del colonialismo europeo in Medio Oriente, gli echi della Prima e Seconda Guerra Mondiale, del sionismo e della Shoah. Un intricato insieme di problemi che sono confluiti nell’offensiva di Hamas di pochi giorni fa – forse la più letale che il gruppo sia mai riuscito a orchestrare – e nella controffensiva, altrettanto letale, di Israele.

Non ci butteremo ora a studiare, analizzare e riflettere sulle cause e concause del conflitto. Studiosi di più alto livello e preparazione si sono occupati del tema [1]. Personalità politiche e culturali mondiali hanno dibattuto dei motivi, delle colpe e delle ragioni. Personalmente, ritengo che ci siano due popolazioni ostaggio di minoranze armate e reazionarie che hanno come unico scopo non solo l’eliminazione dell’Altro, questo misterioso altro, ma l’eliminazione di qualsiasi cosa non sia concorde con la propria ultraconservatrice posizione di matrice religiosa. Potrei ora partire con una critica serrata della religione, ma non sono Marx e non è questo il momento per parlare dell’oppio dei popoli.

Si può aggiungere che sono sicuramente minoranze che hanno trovato potere e successo grazie alla popolazione che li ha scelti e, nel caso israeliano, eletti. Però vogliamo chiarire qui un dubbio, che supportare non vuol dire essere, l’azione si distingue dall’essenza.

Quello su cui ci vogliamo qui concentrare è sulla reazione dell’entità di cui di solito ci piace parlare, ovvero l’Unione europea e i suoi Stati membri. L’offensiva di Hamas ha, giustamente, sollevato il cordoglio dei popoli e dei politici europei verso le vittime israeliane, soprattutto civili, che si sono ritrovate nel mirino dei miliziani presi dalla propria, personale, offensiva in nome della moschea di Al-Aqsa. Fa quasi sorridere pensare che sia Hamas che l’IDF tendino a usare mezzi simili per simili scopi, quasi propagandistici, quasi strategici. Uno strano intermezzo che di solito provoca molti morti, poco spazio di manovra e la radicalizzazione della parte opposta.

Il cordoglio europeo è stato chiaramente sentito. Al contempo, molte sono state anche le manifestazioni a supporto della popolazione palestinese ingiustamente sotto un assedio lungo e doloroso, a cui si aggiungono i bombardamenti ora in atto. La polizia di più città europee ha miancciato di fermare chiunque inneggi ad Hamas nel corso di tali manifestazioni, ma se non si tiene in considerazone l’estremismo iraniano, l’attenzione è sui civili. Non è ammissibile sicuramente il dispiegamento di ingenti forze di sicurezza per contenere tali manifestazioni a fronte a malapena di poche minacce di disordini. Si può non concordare con alcuni punti di vista, ma il diritto di espressione rimane un chiaro caposaldo della democrazia europea. Rimane certo un po’ sconcertante il legame che alcune frange della popolazione creano tra l’offensiva di un gruppo terroristico, le vittime civili, e la libertà della Palestina. Se c’è qualcosa che di sicuro questa offensiva non provocherà a breve termine, è un passo indietro di Israele. Messo alle strette, come ogni Stato che percepisce di lottare per la sua sopravvivenza, la reazione sarà violenta, veloce, spaventosa e non-contenuta. Il blocco totale delle forniture di servizi idrici, elettrici e di gas verso Gaza, la reazione dei coloni nella West Bank, l’ordine di abbandonare il nord della Striscia, tutto ciò fa pensare a una reazione che a Israele, anzi, ai falchi di Israele capeggiati da Benjamin “Bibi” Netanyahu, servirà solo a dire “Abbiamo sempre avuto ragione noi”.

L’offensiva di Israele tanto più sarà letale tanto più dirà, al contempo, ad Hamas, che “Avevano ragione loro”. Un dilemma del prigioniero in cui i civili muoiono e i falchi, anzi, gli avvoltoi del conflitto perenne tra israeliani e palestinesi, banchetteranno affamati sul sangue di madri, bambini, uomini innocenti.

Certo, non sconvolge nessuno che gli estremisti – di ambo le parti – siano così propensi a premere il grilletto. Nessuno è sorpreso di questo. Più sorprendente è la reazione del mondo occidentale davanti il conflitto. Piuttosto che de-escalare, butta benzina sul fuoco. Si decide di tagliare i fondi alle organizzazioni presenti sul territorio. Si prende chiaramente un lato del conflitto, andando a visitare in veste ufficiale uno dei due contendenti.

Assumere un punto di vista binario è semplice. Può essere utile per gli affari a volte, o per imporre un proprio punto di vista geopolitico. Gli Stati Uniti che inviano la Gerald R. Ford nel Mediterraneo rispondono pienamente alla loro logica nell’area, che ha sempre visto in Israele un essenziale partner contro ostili quali l’Iran, la Siria e la Russia. Un po’ meno ragionevole appare la condizione europea.

Vogliamo essere pragmatici? Siamo pragmatici allora. Cosa porta l’escalation in Medio Oriente all’Europa? Di certo non maggiore stabilità, anzi. Non dobbiamo scordare gli interessi energetici che le compagnie europee hanno nel Mediterraneo Est, né la situazione già delicata dei campi profughi palestinesi sparsi tra Egitto, Libano e Giordania – il cui stress, un nuovo conflitto, non farà che aumentare. Non solo quindi rischiamo di vedere le prossime operazioni di estrazione di gas sottomarino – fonti necessarie nella fase di transizione in cui andiamo trovando – a rischio, ma l’effetto a catena di un conflitto che vede anche già Libano, Siria e Iran tirati in mezzo con fili diversi, potrebbe portare a nuovi flussi migratori e ad un maggior peso di una nazione che ha spesso giocato con queste situazioni, la Turchia – già forte di quanto successo in Armenia e Azerbaijan.

Se volessimo essere spietatamente pragmatici, allora ecco che prendere una posizione ci aiuta: se eliminiamo un contendente, stabilizzeremo naturalmente l’area. Non essendo bestie genocide, c’è da pensare che questo supporto sia dovuto allo shock, all’estremo disgusto per la perdita di vite umane. Ma questo supporto, teso alla pietà, non farà che dare strumenti ad una élite di avvoltoi che non aspetta altro che carta bianca per eliminare il percepito male. Non è quello che risolverà il conflitto, né che salverà le vite dei civili. Molti sono già morti. Prolungare ulteriormente ostilità e conflitti non renderà la vita più facile a nessuno, né la salverà. Anzi.

In un suo pezzo per il Guardian di pochi giorni fa, Yuval Noah Harari ha espresso molto meglio di me la situazione – avendo un punto decisamente più realistico e sul “pezzo” di quanto io, italiano, possa mai avere. Palestina e Israele hanno vissuto di errori e prove per ottant’anni, e tutto ciò ha per ora portato i fanatici avanti, i moderati a morire – in alcuni casi, letteralmente. Rimane poco, ma di certo la comunità internazionale non può prendere parti come se fossimo nella Guerra Fredda e si stesse scegliendo tra un governo comunista e uno capitalista.

L’Unione europea, la cosa di cui possiamo parlare, non può fare questo. Non può buttarsi a capofitto in una situazione complicata anche dalle presenze sia di palestinesi che di israeliani nel suo territorio, né tanto meno farsi portatrice di valori morali e poi abbandonarli per pragmatismo geopolitico, o anche solo perché mancanza di critica riflessione. Si può accettare che la situazione palestinese-israeliana sia complicata, e che la soluzione sia ancora più complicata, ed accettare che vada inseguita perché soluzione di pace. Ci sono moderati in Palestina e Israele che aspettano solo che qualcuno riesca a dar loro l’energia persa da decenni di conflitti e radicali al potere. E c’è un Mediterraneo che, diviso tra crisi climatiche e politiche, aspetta solo una gestione non più ragionata, ma con più occhio verso il futuro.

L’Unione europea, meglio dei suoi Stati che ancora rispondono alle antiquate logiche del XX secolo, può supportare le Nazioni Unite in quelle che è l’estremo tentativo di evitare una violenta, finale escalation tra radicalizzati, ultraconservatori e chi ne ha più ne metta. È impossibile, oggi, dire che domani troveremo il definitivo accordo di pace tra le parti. Il processo di pace – come per esempio dimostra il cambiamento politico dell’Arabia Saudita – si allontana ogni cadavere che gli israeliani recuperano e ogni bomba che i palestinesi subiscono.

Ma l’UE ha la possibilità di lanciarsi come mediatore, di supportare le Nazioni Unite ma anche la popolazione locale che vive sotto costante paura, aprendo lo spazio alle trattative tra le parti – quelle non radicali – per supportare la transizione lontano da un perenne stato di panico e terrore che conduce le due popolazioni a una guerra lenta e perenne, che poi esplode come pochi giorni fa, con risultati ancora più disastrosi. Certo, è la stessa UE che si ritrova persone come Robert Fico ora eletto primo ministro della Slovacchia. Di questo ne parleremo in un altro momento.

L’UE ha però la possibilità di supportare non una delle parti, ma entrambe le parti. Per esempio, supportando le nazioni arabe vicine nell’apertura di corridoi umanitari, nell’evitare l’escalation israeliana, nel tentare di trovare una soluzione – due Stati, Federazione, o quel che sarà – piuttosto che interessarsi alla crisi solo quando il sangue inizia a scorrere. Sicuramente, il conflitto palestinese-israeliano ci ricorda ancora una volta che lo Stato nazione come inteso sulla scia della Prima Guerra Mondiale spiana la via per un conflitto che prende pieghe etniche, religiosi, o politiche, sempre peggiori. Più gli anni si accumulano sulle spalle della popolazione e di chi vive il conflitto, peggiori le escalation saranno.

Piuttosto che prendere, acriticamente, questo o quel lato, l’Unione dovrebbe fermarsi, ripensare la propria politica estera e usare il suo peso politico e relazione per slegarsi dagli interessi americani, da quelli russi o cinesi, e stendere la via per un proprio modo di fare politica estera. Ci si potrebbe lamentare che una politica estera senza difesa comune è un po’ una spada smussata, ma in un mondo globale e interconnesso, i mezzi militari non sono gli unici a disposizione di uno Stato per fare pressione. Certo, è un percorso lento, ma è stato lento anche il percorso che dalle ceneri del Secondo Conflitto Mondiale hanno portato all’area Schengen e all’Euro. Abbandonare tale percorso solo perché complesso è un suicidio, e porterà a conseguenze nefaste non solo per la popolazione locale, ma per tutta l’area mediterranea e più.

Footnotes

[1Interessanti libri per approfondire il tema sono “Palestine: Peace Not Apartheid”, dell’ex-presidente USA Jimmy Carter, così come “The Israel-Palestine Conflict: 100 Years of War”, di James L. Gelvin. Sono però disponibili molti altri articoli, libri ed essay sulla questione

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