Il caso Tik Tok tra USA e Cina: nuovi sintomi dello stesso problema (per l’Europa)

, di Matteo Gori

Il caso Tik Tok tra USA e Cina: nuovi sintomi dello stesso problema (per l'Europa)
Foto di Solen Feyissa da Pixabay

Il caso Tik Tok è un nuovo capitolo della guerra commerciale tra USA e Cina. Due modelli di sovranità digitale sempre più in conflitto tra loro. La Commissione europea uscente si è resa conto che nel digitale non basta fare il regolatore, ma il dibattito pubblico sulle imminenti elezioni europee rimanda le questioni irrisolte, ignorandole.

Lanciato nel 2016 dall’azienda cinese ByteDance, Tik Tok è il social media che ha registrato la maggiore crescita negli ultimi anni, soprattutto tra i più giovani. Da dove deriva il successo? Video brevi e una personalizzazione estrema dei contenuti, possibile grazie a un algoritmo che soddisfa al massimo le preferenze degli utenti, in un modo che la concorrenza non era ancora riuscita a fare. Con circa 1,6 miliardi di utenti, Tik Tok ha permesso a Bytedance di toccare il valore di 225 miliardi di dollari (tre volte il valore che aveva nel 2018), rappresentando la multinazionale cinese del digitale che ha avuto più successo oltre i confini nazionali.

L’azienda è da mesi al centro del dibattito pubblico, non solo per i contenuti virali. La principale controversia riguarda il controllo del Governo cinese sull’azienda e i dati che ha in possesso. Nel quadro regolatorio cinese, il Governo può infatti accedere ai dati raccolti dalle aziende tech, anche provenienti dall’estero. Bytedance non fa eccezione, e i problemi di “privacy” derivanti dall’utilizzo di Tik Tok non mancano. Ad esempio, l’applicazione raccoglie dati su posizione e preferenze varie degli utenti, come confermato nella “privacy policy” dell’applicazione. Per le leggi cinesi, questi dati sono dunque a disposizione del Governo, quindi del Partito Comunista Cinese. Sotto la Presidenza di Xi Jinping la Cina ha reso il controllo dei dati un fondamentale asset strategico per la politica di sicurezza interna e la politica estera. La Hong Kong National Security Law (2020), la Data Security Law (2021), la Digital Silk Road (2021) lo dimostrano. Il PCC ha da tempo puntato sul digitale per unire un controllo esteso dei dati al proprio interno con un forte uso delle infrastrutture digitali per aumentare la propria influenza a livello globale. Vale per i mercati “rivali” americani ed europei, ma anche e soprattutto per quelli meno sviluppati. Erie e Streinz (2021) lo hanno definito “Effetto Pechino”: da un lato la Cina finanzia o costruisce infrastrutture digitali nei mercati emergenti, dall’altro le aziende cinesi forniscono servizi tecnologici, mentre lo Stato cinese mantiene il controllo sui dati degli utenti attraverso normative extraterritoriali che la Cina impone a quei Paesi.

Anche per questo, il Congresso degli Stati Uniti ha recentemente approvato un disegno di legge che chiede a ByteDance di vendere la propria partecipazione nel “ramo americano” di Tik Tok entro nove mesi, e prevede il blocco dell’app in caso questa vendita non avvenga. Si tratta di un provvedimento inedito, da interpretare come l’ennesimo capitolo di una guerra commerciale con la Cina che va avanti da anni. L’implementazione dell’atto potrebbe in realtà essere molto complicato, ma gli elementi più rilevanti stanno dal lato politico, con diverse “sovranità digitali” in lotta per l’egemonia, piuttosto che da quello tecnico.

Tik Tok manifesta gli stessi problemi di scarsa tutela dei dati degli utenti che negli anni si sono manifestati in gravi e diversi episodi presso big tech americane, tanto che l’anno scorso il Presidente Biden ha chiesto sul Wall Street Journal un intervento bipartisan per imporre alle grandi piattaforme digitali una maggiore responsabilità. Anzitutto, è stato documentato e confermato che anche su Tik Tok è possibile rendere alcuni contenuti più virali di altri, sulla base di scelte arbitrarie, o censurare alcuni argomenti non graditi alla politica. Inoltre, negli ultimi mesi sia l’Antitrust Italiana che il Garante per la Privacy Irlandese hanno disposto istruttorie nei confronti dell’azienda per mancata trasparenza nelle pratiche di profilazione e mancata tutela dei diritti dei minori.

Insomma, nel mercato attuale dei social media, l’unica scelta sembra tra il rischio di vedere i propri dati indebitamente usati da un’azienda miliardaria per profitto, o da un Governo (che sia il proprio, la Cina o la Russia poco importa) per ingerenze politiche. La possibilità di essere tutelati da entrambi i rischi non esiste.

E l’Europa? I passi in avanti dell’Unione europea sulla tutela dei diritti degli utenti nel mondo digitale sono evidenti, dal GDPR al recente AI Act. Ma questo sforzo legislativo è all’altezza delle sfide che Cina e USA - sulla base di principi nazionalisti e egemonici - ci stanno ponendo di fronte? Fabio Masini su Euractiv.it faceva notare che: l’approccio UE “segnala il suo successo come mediatore globale per standardizzare regole di buon comportamento, ma anche il suo fallimento come attore industriale, economico e finanziario globale”. Un giudizio netto, ma che ci aiuta a capire come in uno scenario in cui aumenta la competizione globale, diminuisce l’interdipendenza, tra possibili successi e insuccessi serve porsi le domande giuste.

  1. Il discorso di Biden citato sopra dimostra che la logica dietro il GDPR o il Digital Market Act stia diventando sempre più un riferimento per la tutela della privacy nel mondo digitale. Ma questa logica al momento viene applicata solo per i cittadini europei, in un mercato che è invece globale per definizione: l’UE avrà la forza di affermare un modello di cooperazione globale sui dati, di fronte a una tendenza sempre più competitiva e meno interdipendente tra grandi potenze?
  2. La fissazione di standard regolatori può servire a portare tutte le aziende in competizione su elevati livelli minimi di protezione dei dati degli utenti. Ma questo vale in una logica di puro mercato, in cui cioè per un’azienda è conveniente rispettare la legge per accedere a un bacino di consumatori (nel caso dell’UE, il più grande mercato unico al mondo) che altrimenti non avrebbe. Ma il “modello cinese” non è di mercato: cosa fare allora se le logiche sono quelle del controllo e dell’influenza politica, celate sotto grossi investimenti?

Di fronte a queste due domande, il “caso” Tik Tok non è altro che un ulteriore sintomo di un problema più ampio che l’UE continua a non affrontare. Al centro di questo problema, c’è la mancanza di una vera politica industriale che permetta di avere attori europei del digitale che affermino quei valori e principi contenuto nei testi di legge, anche sul mercato globale. Un buon punto di partenza sono le recenti proposte di Vannuccini e Fontana per il Centro Studi sul Federalismo, per orientare la proposta della Commissione europea sullo European Sovereignty Fund verso il finanziamento di un’industria europea in campo digitale e ambientale, che nel frattempo è già stato notevolmente ridimensionato.

Tradurre in pratica questo proposito dovrebbe essere un tema di dibattito fondamentale nelle prossime elezioni europee. Purtroppo non lo è. Anzi, i leader del G7 si preparano a discutere di Intelligenza Artificiale con Papa Francesco nel prossimo incontro. Per tutelare la democrazia nel mondo dai possibili danni generati da sovranità digitali in competizione tra loro, le discussioni etiche o morali servono a pochissimo. Serve più multilateralismo nella risoluzione delle controversie globali, servono infrastrutture per i Paesi meno sviluppati prima che diventino “terreno di conquista”, servono investimenti orientati alla sicurezza dei dati oltre che al loro utilizzo più economicamente rilevante. Serve una ricetta politica, che sembra utopia. Solo l’Europa può contribuire a realizzarla, ma deve cominciare a porsi le domande giuste.

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