Governare la globalizzazione: la sfida del protezionismo al multilateralismo

, di Lucio Levi

Governare la globalizzazione: la sfida del protezionismo al multilateralismo

Sembrava che il mondo avesse superato la tempesta della crisi finanziaria ed economica (2007-2008) senza ripetere gli errori del passato, in primo luogo il protezionismo che, nel periodo fra le due guerre, portò quasi al collasso il commercio internazionale e distrusse milioni di posti di lavoro. Invece, ora che UE e Stati Uniti hanno fatto un passo verso la ripresa economica, Mario Draghi ci ha avvertito che lo sviluppo è minacciato da due fattori, le politiche protezionistiche e la svalutazione del dollaro, che possono essere riferiti al tentativo del governo americano di guadagnare competitività sui mercati internazionali. Il ricordo della crisi del 1929 non è stato sufficiente a fermare Trump. La globalizzazione che abbiamo conosciuto negli anni passati, basata sui principi del multilateralismo e dei mercati aperti, è a rischio. Dal 1948, quando il GATT fu creato, al 1990 la crescita del commercio mondiale è stata prossima al 7% annuo, più veloce che nei successivi “anni d’oro” della globalizzazione. Nello stesso tempo, le tariffe doganali, che nel 1946 ammontavano al 50% del valore delle merci importate, sono crollate a circa il 3%. L’allargamento della dimensione del mercato e l’espansione delle relazioni commerciali durante la globalizzazione hanno rappresentato un potente motore di espansione dell’economia mondiale, consentendo la diffusione dell’industrializzazione dall’Europa occidentale e dal Nord-America al resto del mondo. Le tradizionali relazioni centro-periferia sono diventate obsolete e il centro di gravità dell’economia mondiale si è spostato dall’Atlantico al Pacifico. Il reddito pro-capite dei Paesi emergenti è cresciuto impetuosamente. Secondo i dati della Banca Mondiale, la percentuale della popolazione mondiale in estrema povertà ($ 1,90/ giorno), che nel 1990 era del 37,1%, nel 2015 era ridotta al 9,6% e concentrata nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia del sud.

Nello stesso tempo, la globalizzazione ha avuto effetti molto asimmetrici e le differenze tra ricchi e poveri si sono allargate in misura rilevante. Ciò è avvenuto perché la globalizzazione non è governata, ma è abbandonata al libero gioco delle forze di mercato. La deregulation non ha prodotto i risultati attesi dall’ideologia dei mercati auto-regolati. Istituzioni e regole sono necessarie per obbligare il mercato a comportarsi a beneficio di tutti. Per questa ragione la politica torna all’ordine del giorno. L’alternativa non è più tra sostenitori e oppositori della globalizzazione, ma tra diversi modi di reagire alle sue distorsioni.

Non è vero che tutti beneficiano dal libero commercio. Il protezionismo è una politica adottata da molti Paesi in via di sviluppo per prepararsi a competere nei mercati internazionali. Fu adottato per la prima volta dagli Stati Uniti alla fine del XVIII secolo per difendere l’industria nascente fino a quando non fosse stata capace di competere con quella britannica; poi dalla Germania e dal Giappone alla fine del XIX secolo; infine dalla Cina e dall’India alla fine del XX secolo. Nel secolo scorso, quando il centro del potere economico e politico si spostò da Londra a Washington e New York, gli Stati Uniti divennero, come prima l’Impero britannico, promotori del libero scambio internazionale, veicolo per l’affermazione della propria superiorità politica, economica e tecnologica. Ora che sono un potere in declino, gli Stati Uniti difendono col protezionismo i residui del loro predominio.

La Cina e l’India, grazie alle loro dimensioni regionali, sono i Paesi emergenti che hanno ottenuto più benefici dal protezionismo. La connessione con reti infrastrutturali di commercio, trasporto, ICT, energia, costituisce la pietra angolare dell’integrazione economica regionale. Invece l’Unione africana, a causa della sua frammentazione in 55 Stati membri, è l’organizzazione regionale meno sviluppata del mondo. È indicativo che un’area africana di libero scambio sia stata promossa da 49 Stati membri in concomitanza con l’offensiva protezionistica di Trump. Questa iniziativa controcorrente impegna i sottoscrittori a eliminare le barriere tariffarie sul 90% degli scambi interni all’area. È l’accordo commerciale più ampio realizzato dopo la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e si ispira al modello UE. Può essere il motore dello sviluppo africano attraverso la cooperazione multilaterale fra gli Stati del continente e la creazione di una struttura industriale indipendente.

Una difesa degli argomenti a favore del protezionismo è stata proposta da due autori il cui pensiero è legato al federalismo: Alexander Hamilton, teorico del protezionismo americano, e Friedrich List, di quello tedesco. Il primo fu uno dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, il secondo ritenne che la contraddizione fra gli interessi libero-scambisti e quelli protezionisti potesse essere superata soltanto nell’ambito di un ordine federale mondiale. Entrambi avevano ben chiaro che l’organizzazione del mondo in Stati nazionali e la forza implicita delle relazioni e dei conflitti di interesse impedivano che gli scambi commerciali avvenissero in condizioni di uguaglianza. Gli Stati Uniti e la Germania, per evitare il sottosviluppo, avrebbero dovuto proteggere le loro industrie nascenti perché potessero competere con quelle britanniche. Per gli stessi motivi la WTO ha regolato in modo differenziato il commercio dei Paesi emergenti e di quelli sviluppati. Nel complesso, però, questi accordi non hanno penalizzato gli Stati Uniti, autorizzati ad accordare sussidi elevati all’agricoltura. L’applicazione dei principi di piena reciprocità e totale simmetria nelle regole del commercio internazionale non avrebbe fornito una soluzione equa, ma avrebbe penalizzato i Paesi in via di sviluppo. Non è facile stabilire regole eque quando il divario tra Paesi sviluppati e non è troppo ampio. Il reddito pro-capite cinese è ancora un quinto di quello americano, perciò si giustifica un trattamento differente. Una volta che i Paesi più arretrati siano emersi dal sottosviluppo, rimarrebbe pur sempre da risolvere il problema della cooperazione pacifica fra gli Stati. List asserì che “la più alta associazione tra individui realizzata finora è lo Stato, la nazione; e che la più alta immaginabile è quella dell’intero genere umano”; quindi, “se immaginiamo … un’associazione universale o una federazione di tutte le nazioni a garanzia della pace perpetua, il principio del libero commercio fra le nazioni sarebbe pienamente affermato”.

Poiché la Federazione mondiale è un obiettivo ultimo, il problema che l’uomo contemporaneo ha di fronte è la definizione delle fasi della transizione verso quell’obiettivo. Le istituzioni internazionali sono il punto di partenza per controllare i meccanismi che provocano squilibri e distorsioni del mercato. Il GATT, con la clausola della nazione più favorita, e la WTO con la sua struttura di arbitraggio e definizione delle dispute, hanno fornito una regolazione embrionale dei mercati globali. La risposta progressista a chi sogna di rinchiudersi nei confini nazionali è quella di rafforzare e democratizzare la WTO. Le istituzioni dell’UE indicano la strada da seguire.

Fonte immagine: Pixabay.

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