Oltre alle brillanti imprese sportive e all’impressione di un break dalla crisi pandemica, le Olimpiadi di Tokyo hanno regalato al mondo numerose importanti e reali storie di vita. Questo è il motivo principale per cui meritano di essere ricordate a lungo.
Che i Giochi della trentaduesima Olimpiade appena andati in scena a Tokyo non sarebbero stati come tutti gli altri, era cosa risaputa da mesi; la pandemia ha fatto sì che questa fosse la prima edizione nella storia a svolgersi in un anno, non solo non bisestile, ma dispari, il Governo giapponese che, per evitare una nuova ondata di contagi, il pubblico fosse ridotto alle sole delegazioni internazionali e agli atleti, e il Comitato Olimpico Internazionale che la bandiera russa fosse assente per la prima volta da Los Angeles 1984. Tuttavia, potrebbero non essere tanto queste particolarità a scolpire le Olimpiadi 2021 nella storia, neppure le medaglie conquistate, anche quelle più sorprendenti, o i record infranti, quanto le storie legate ai valori, agli ideali, al coraggio e alle libertà che le hanno costellate.
Già nel corso della cerimonia d’apertura, più precisamente nella tradizionale sfilata delle Nazioni, è balzato all’occhio dei più attenti un dettaglio che fa ben sperare chi, in tutto il mondo, in grande o in piccolo, combatte per la parità di genere. Il gruppo rappresentante la Repubblica Islamica dell’Iran, Paese che occupa attualmente la settantesima posizione del Gender Inequality Index, si è presentato con la tiratrice Hanieh Rostamian nel ruolo di portabandiera al fianco del cestista Samad Nikkhah Bahrami e con una disposizione che ha favorito le atlete scelte a mettere piede nello stadio di Shinjuku, in copertina, un passo avanti rispetto ai propri colleghi uomini. Quello del Pakistan, Paese che nello stesso indice occupa addirittura la centocinquantaquattresima posizione, non ha avuto un comportamento altrettanto progressista, ma ha comunque permesso alla portabandiera Mahoor Shahzad e alle altre donne della delegazione di sfilare nel modo che più le aggradava, fosse esso con o senza hijab. Una scelta di facciata potrebbero supporre in molti, ma comunque molto coraggiosa, considerata l’omogeneità di genere mostrata da altri gruppi come quello degli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi, seppur ineccepibilmente in ritardo sul tema della parità di genere, tema importantissimo sul piano dello sviluppo della persona, da anni si propongono come Paese ospitante i Giochi Olimpici, probabilmente guardando unicamente al lusso dell’opportunità e non alle virtù cui la manifestazione si fa portatrice.
Sebbene infatti, agli albori del ventesimo secolo, il padre dei moderni Giochi Olimpici, Pierre de Coubertin, sostenesse la superiorità degli sport maschili rispetto a quelli femminili, già non negava l’esistenza al mondo di formidabili tenniste, nuotatrici e schermitrici. Con il passare dei decenni, le donne hanno dimostrato di poter marcare la loro impronta in campo sportivo in praticamente ogni disciplina esistente. Ultima atleta, cronologicamente parlando, a far conoscere il suo nome in ogni angolo del globo è senza dubbio la statunitense Simone Biles, ginnasta capace di conquistare ben quattro medaglie d’oro alla sua prima partecipazione nella manifestazione a cinque cerchi, quella di Rio 2016. Biles si è recata in Giappone con ogni pronostico a suo favore, ma le cose non sono andate nel verso giusto, almeno, non inizialmente. Dopo una performance non entusiasmante nel volteggio, la golden girl ha annunciato il suo ritiro prima dalla finale a squadre femminile, poi da quella individuale, adducendo a motivazione la necessità di concentrarsi sulla propria salute mentale. «Una volta finita la gara, non volevo andare avanti. Devo concentrarmi sulla mia salute mentale, dobbiamo tutti proteggere le nostre menti e i nostri corpi e non limitarci a uscire e fare ciò che il mondo vuole che facciamo.» Sconfiggere l’ansia non è semplice, specialmente quando si è una personalità di caratura internazionale, ma non lo è neppure trovare la forza per pronunciare queste parole. L’insegnamento di Simone Biles è simile a quello di Tom Dumoulin, ciclista olandese vincitore del Giro d’Italia 2017, che già a gennaio aveva trovato il coraggio di dire basta, di fermarsi, di scaricare tutto ciò che lo opprimeva e che, come successo a tanti altri, era stato appesantito dall’ultimo anno. Il Dio dello sport sembra apprezzare queste prove di forza, e non esita a ricompensarle; Biles tornerà nel Delaware con la medaglia di bronzo nella trave, Dumoulin a Maastricht con quella d’argento nella cronometro, ma ciò che hanno appeso al collo conta relativamente se paragonato a quanto hanno conquistato nella battaglia contro i loro demoni e a cosa ora rappresentino per chiunque si trovi o si sia trovato in una situazione mentale analoga.
Farsi avanti con animo, sempre, anche nei momenti più duri, questo sembra essere stato il mantra dei Giochi di Tokyo, ulteriore dimostrazione è l’episodio che ha visto protagonista Kryscina Cimanoŭskaja, la ragazza bielorussa arrivata in Giappone da runner e partita da emblema della dignità umana e delle libertà. Iscritta a sua insaputa dai suoi allenatori alla staffetta 4x400, pur avendo gareggiato solo due giorni prima nei 100 metri, disciplina per cui si era effettivamente allenata, Cimanoŭskaja ha deciso di ignorare i consigli di amici e familiari e di denunciare la malagestione dello staff Olimpico bielorusso pubblicamente attraverso i suoi account social. Va da sé che il presidentissimo Lukašėnka, il cui controllo è esteso pure al campo sportivo, non abbia gradito le esternazioni dell’atleta, arrivando a dichiararla, per mezzo dell’ufficio stampa del Governo, una disgrazia per la Nazione. Come se avesse commesso un vero e proprio crimine, le autorità bielorusse hanno tentato di ricondurla forzatamente a Minsk. Fiutando il peggio, Cimanoŭskaja ha nuovamente fatto ciò che a ogni essere umano dovrebbe essere garantito: parlare. Grazie alla polizia di Tokyo e al Comitato Olimpico Internazionale, l’atleta non è partita e ha potuto chiedere asilo alla Polonia. La strada è lunga e tortuosa per la resistenza democratica dell’ex Repubblica sovietica, ma è anche con gesti come quello riportato che si combatte e che si rende nota al mondo quale sia la propria battaglia.
Per altre di battaglie, non serve nemmeno avere il combattimento come mezzo, ma solo la profonda volontà di essere sé stessi; questi Giochi sono stati anche quelli di Tom Daley, tuffatore britannico apertamente omosessuale in un mondo, quello sportivo, dove il machismo ancora si fatica a sconfiggere. Già con il suo coming out avvenuto quasi otto anni fa fu di ispirazione per molti, l’inquadratura di quest’anno mentre, seduto in tribuna al Tokyo Aquatics Center appena dopo aver conquistato una medaglia d’oro, si rilassa lavorando all’uncinetto potrebbe sicuramente fungere da spot per l’abbattimento di altri tabù.
I Giochi della trentaduesima Olimpiade volevano che fossimo, come recita il motto scelto dal Comitato Olimpico Giapponese, uniti dall’emozione. Sono andati ben oltre questo. Il senso di unità nelle persone costruito dalla manifestazione e dagli atleti che ne sono stati protagonisti si è compiuto sotto talmente tanti aspetti che nemmeno le storiche cooperazioni tra Stati avvenute in seguito a eventi drammatici, ultima la pandemia, sono state in grado di regalare. Potrebbe essere questo il definitivo e più importante insegnamento di Tokyo, città che nell’estate 2021 è diventata maestra di vita.
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