European Solidarity Corps, oltrepassare i confini per riscoprire sè stessi

, di Teresa Patané

European Solidarity Corps, oltrepassare i confini per riscoprire sè stessi
Scatto dell’autrice, Sovata, 2022

Spedire venti ragazzi provenienti da tutta Europa in un posto apparentemente fuori dal mondo; in questo articolo, vi racconto in prima persona di come lo European Solidarity Corps e la Romania hanno riorientato le mie prospettive.

Arrivai a Sovata, in Romania, lo scorso 3 settembre, nel pomeriggio di una giornata lunghissima. Il giorno precedente ero atterrata a Bucarest per la mia prima volta, un breve giro per le strade del centro e poi dritta in albergo per recuperare quel poco di sonno utile ad affrontare il viaggio dell’indomani. A Sovata pioveva una pioggia stranissima, è stata la prima cosa che ho notato. Quasi una nebbiolina, che “non bagna ma inumidisce”, commentò Marta, la mia prima compagna d’avventura, una portoghese incontrata lungo il percorso. Ci trovavamo in quel momento alla stazione degli autobus (in rumeno “autogara”, una delle prime parole che mi sono premurata di imparare), insieme a Marcel, il suo fidanzato austriaco, e Agnieszka, una giovane polacca che, mi spiegò, aveva imparato un po’ di italiano dalle canzoni dei Maneskin, e aspettavamo che ci venissero a prendere in auto. Il centro dove avremmo alloggiato era un po’ fuori Sovata, e qualcuno ci disse che gli orsi amavano vagheggiare da quelle parti. Era un bel posto: gli alberi dai tronchi massicci, l’erba di un verde rigoglioso (che, confrontata a quella italiana di fine estate, ricordo mi fece molta impressione) e persino un laghetto per il kayak. La sera, distrutti dai chilometri di viaggio calcati, ma finalmente tutti riuniti, dedicammo giusto poche ore alle reciproche conoscenze, quattro spagnoli, tre portoghesi, due turchi, cominciavamo a distinguerci non tanto in base ai nomi, piuttosto per le provenienze. Ero l’unica italiana, non sarebbe stato difficile individuarmi. Cominciava così la mia esperienza con lo European Solidarity Corps: 20 ragazzi, qualche chiacchierata attorno al tè e, di fronte, due settimane in Transilvania.

Avviato piuttosto recentemente (solo nel dicembre del 2016), dopo l’annuncio entusiasta dell’allora Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, e finanziato dall’Unione europea, l’ESC apre a giovani dai 18 ai 30 anni l’opportunità di incontrarsi, conoscersi e, vivendo assieme per un periodo di tempo molto variabile (da pochi giorni a persino un paio di anni), di cooperare per un comune progetto. Si può essere attivi in un programma di volontariato, seguire un tirocinio o lavorare, il tutto non solo negli Stati membri dell’Unione, ma anche in un’ulteriore serie di Paesi, dalla Turchia all’Islanda. La lista completa è consultabile sul sito dell’ESC, seppur devo ammettere che, personalmente, quel giorno di luglio in cui mi candidai a prendere parte al progetto di solidarietà a Sovata, tutto avevo in mente fuorché una destinazione prediletta tra le mille a disposizione. Peraltro, ho l’impressione che troppo spesso gli itinerari di viaggio che ci confezioniamo affannosamente da casa in quelle poche settimane di ferie che ci spettano durante l’anno finiscano per ricalcare inesorabilmente vie già solcate milioni di volte da chissà quanti viaggiatori. Non che ci sia nulla di male a privilegiare Barcellona a Tallinn o la sabbia di Mýkonos a quella di Gjipesë, ma comunque sin da subito avevo intuito che avrei potuto trovare, nell’European Solidarity Corps, un’occasione irripetibile anche per fare visita a mete che, altrimenti, sarebbero più o meno inavvertitamente scivolate via dai piani dei miei viaggi per ancora chissà quanti anni a venire.

Ricordo che quella prima notte provai a prefigurarmi il finale della storia, e mi sforzai di immaginare in che modo sarei riuscita a confessare un “I’m gonna miss you” a quei perfetti sconosciuti nel momento in cui mi sarei trovata a dover riavvolgere il nastro di quest’esperienza. Feci molta fatica, realizzai di aver fallito, e alla fine decisi di mettermi a dormire. Il giorno dopo, la sveglia per me e le mie compagne di stanza suonava alle 7:30. Dopo una ricca colazione, tanti sbadigli e il sorgere delle prime complicità, demmo inizio alla giornata. Ciò che emerse dal programma che ci presentarono fu che indubbiamente ci saremmo messi alla prova in attività di volontariato stressanti non solo fisicamente, e avremmo dovuto farlo insieme; cooperare, ci fecero capire sin dall’inizio, sarebbe stata spesso l’unica via percorribile per superare una situazione di difficoltà. Avevano ragione, e lo capimmo ben presto. Da allora, ogni mattina ho abbandonato il mio cellulare in una parte diversa ma comunque recondita del mio armadio, durante la giornata dimenticavo proprio di averne uno, e la sera cercavo di recuperarlo, se proprio dovevo.

In quei giorni ho fatto cose che non avrei mai creduto di avere le capacità, e talvolta anche l’occasione, di fare. Tante volte partivamo la mattina presto, quando non faceva ancora troppo caldo, ci incamminavamo verso un bosco da quelle parti, con zappa e pala sulle spalle, per andare a costruirvi sentieri nelle zone più impervie e meno accessibili. Ci davamo il cambio quando eravamo esausti e nelle pause prendevamo il sole sull’erba e mangiavamo una mela. Nel frattempo, coltivavamo delle amicizie sincere. Mi sono stupita più e più volte di quanto ci si possa assomigliare pur essendo cresciuti così lontani, e di come ci si possa comprendere pur non parlando la stessa lingua. Ho capito l’importanza del dialogo quando ci siamo persi nel bel mezzo di un rovo di more apparentemente senza fine, e l’ho imparata ancora meglio quando ci siamo persi di nuovo, questa volta in un bosco, e di notte. Ho goduto di alcuni dei tramonti più spettacolari a cui abbia mai assistito e di quella strana felicità che si prova nel non vedere nessuno nel raggio di chilometri. E mi sono sorpresa a provare quella stessa strana felicità quando, sul pullman di ritorno verso Bucarest e con le orecchie ancora riecheggianti di ricordi, la gratitudine, l’appagamento e tutte le mie mutate consapevolezze hanno abbracciato una nuova, piccola nostalgia.

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