Abbiamo dovuto attendere fino a fine aprile, ma finalmente si scuote qualcosa nella politica italiana in vista delle elezioni europee.
Ci sono i nomi della maggior parte dei candidati, almeno di tutti quelli di punta, che vanno dal Ministro degli esteri Antonio Tajani, capolista di Forza Italia (PPE) nella maggior parte delle circoscrizioni, all’ex Commissaria europea Emma Bonino, alla guida della nuova lista liberaldemocratica Stati Uniti d’Europa (Renew Europe). Non mancano neanche la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, con Fratelli d’Italia (ECR), e la Segretaria del Partito Democratico (S&D) Elly Schlein, entrambe senza l’intenzione di assumere un ruolo parlamentare europeo nei prossimi cinque anni. Quest’ultima circostanza solleva interrogativi sul senso della loro candidatura. Che significato ha candidarsi per un incarico al Parlamento europeo se poi non si intende effettivamente svolgerlo? La scelta ci sembra a tutti gli effetti una mossa strategica o di visibilità più che una reale volontà di partecipare attivamente al processo decisionale e legislativo dell’Unione europea. Un vero peccato (per gli europeisti, nel senso più religioso della parola). Andiamo oltre.
Ci sono gli slogan, per i quali, al solito, vale la regola “purché se ne parli”. Non si spiegherebbe altrimenti il “più Italia meno Europa” della Lega (ID), che si trova a scimmiottare il nome del partito di Riccardo Magi, +Europa (Renew Europe), identificandolo come concorrente sebbene i due fossero separati da 31 punti percentuali alle scorse europee, o quel generico e decontestualizzato “pace” che segue un hashtag nel logo del Movimento 5 Stelle.
Non ci sono i temi. O meglio, ci sono, ma manca loro quella compattezza partitica a monte. Sembra quasi che, finché non usciranno i programmi elettorali e non inizierà la vera campagna elettorale dibattimentale, gli elettori dovranno tirare a indovinare cosa porteranno avanti i candidati se eletti a Bruxelles. Si pensi a Cecilia Strada, candidata con il Partito Democratico, dopo anni di impegno con la ONG ResQ, attiva nel Mediterraneo, è quasi scontato che si impegnerà in ambito di politiche migratorie, ma quali? O a Vincenzo Camporini, ex Generale dell’Aeronautica militare candidato con Azione-Siamo Europei (Renew Europe), certamente avrà un occhio di riguardo per la difesa, ma quella comune europea?
Siamo certi che Paese che vai, campagna elettorale che trovi, e che definire una meglio di un’altra sia difficile. Eppure, soprattutto quando i candidati di diverse regioni aspirano alla stessa Istituzione, crediamo valga la pena osservare da vicino le diverse situazioni e fare dei paragoni.
Negli scorsi giorni, abbiamo avuto la possibilità di assistere a un confronto tra candidati francesi alle elezioni europee organizzato a Parigi dalla FAGE (Fédération des Associations Générales Etudiantes) cui hanno preso parte Chloé Ridel (Parti Socialiste, S&D), Manon Aubry (La France Insoumise, The Left), Hélène Bidard (Parti Communiste Français, The Left), Marie Toussaint (Écologistes, The Greens) e Ambroise Méjean (Renaissance, Renew Europe).
Un aspetto degno di nota è l’età dei candidati. Tra di loro, la più “anziana” è Bidard, che arriva al dibattito dopo vari incarichi al municipio di Parigi, 43 anni. Manon Aubry, 34 anni, si presenta alle elezioni con già un mandato al Parlamento europeo alle spalle. La giovane età dei politici francesi è stata oggetto di forte discussione già nel mese di gennaio, quando Gabriel Attal è stato nominato Primo Ministro, a soli 34 anni.
Altro elemento che salta subito all’occhio quando si sfogliano i curriculum dei candidati è la loro istruzione. La maggior parte di loro viene da un’educazione universitaria assai prestigiosa, conseguita nelle cosiddette “Grandes Ecoles”, come SciencesPo o l’ENA. La stessa Aubry sottolinea come lei fosse nello stesso corso di Attal all’università. Se, vista da fuori, questa educazione potrebbe sembrare sinonimo di preparazione e competenza, i francesi non la pensano sempre così. Queste scuole, infatti, oltre a costare molto di più rispetto alle universités, spesso necessitano di corsi di preparazione (prepa) molto costosi per adeguarsi a entrare. Questi due fatti rendono tali istituzioni considerate elitiste, e i dirigenti che ne emergono sono spesso percepiti come distanti dai bisogni delle persone.
Il dibattito ha adottato un formato particolare, con i candidati che si sono susseguiti sul palco, accanto al giornalista chiamato a moderare, per rispondere a domande mirate a loro e ai partiti che rappresentano. Questo metodo contrasta con il tradizionale schema italiano, dove i politici siedono insieme a un tavolone rispondendo alle stesse domande e talvolta interrompendosi reciprocamente. Per Ridel, ad esempio, gran parte dell’intervento ha riguardato il Green Deal, politica che S&D ha contribuito a costruire. Ora, il gruppo deve scegliere se restringere il patto come vorrebbe il PPE o espanderlo come proposto da The Greens, questione cruciale per il futuro delle politiche ambientali in Europa. In più, oltre allo spazio per la questione democrazia, diritti e immigrazione, a Ridel è stato chiesto di sanità, data la proposta di un’Unione europea della salute emersa nell’ultimo periodo nell’ambiente del centrosinistra francese (e non solo). Per Aubry invece, considerata la larga influenza che La France Insoumise ha avuto sui giovani alle scorse elezioni politiche, la prima domanda ha riguardato proprio questi, con le specificità dell’istruzione, della formazione superiore e del voto ai sedicenni. Aubry ha anche avuto l’opportunità di condividere la sua esperienza come Europarlamentare, evidenziando le leggi a cui ha dato il suo sostegno e quelle che ha contrastato, inclusa la legge contro la violenza sulle donne. Per Aubry, il mancato riconoscimento del principio «no means no» rappresenta una sconfitta per l’Unione europea, un’area in cui è essenziale rialzarsi e fare meglio.
Ciò che ci ha destato qualche perplessità è il fatto che il formato del dibattito e la moderazione fredda e imparziale non abbiano mai messo i candidati presenti in difficoltà. Non stiamo suggerendo che ciò debba essere un dogma nei dibattiti, ma quando un politico entra in contraddizione parlando delle sue idee, delle sue proposte, cercando l’altrui voto, sarebbe giusto farlo notare. C’è stata la possibilità anche in questa occasione, con tanto Aubry quanto Bidard che si sono espresse a favore del potere di iniziativa legislativa al Parlamento europeo, pur avendo la branca francese di The Left votato contro la proposta di riforma dei Trattati che includeva questa facoltà.
Torniamo ai temi, ciò che davvero conta. Un elemento su cui tutti i candidati si sono soffermati parecchio è il Qatargate. Se in Italia dopo poco ce ne siamo dimenticati (a proposito, sapete come è finito?), in Francia la scottatura è ancora forte. Nessuno dei presenti l’ha omesso, è stato citato quasi sempre in apertura degli interventi, con ognuno che ha sottolineato come servano più misure di controllo in seno al Parlamento europeo
Un’ultima importante riflessione è più “nazionale”: come vedono l’Italia i politici francesi? La risposta è purtroppo molto triste. A ogni candidato, in una salsa o nell’altra, è stato chiesto della condizione della democrazia e dei diritti umani nell’Unione europea; è stato impossibile non notare la frequenza con cui l’Italia di “Madame Meloni” è stata menzionata. Tanto per l’autorizzazione parlamentare concessa alle associazioni “pro-vita” di presenziare nei consultori, impensabile in un Paese in cui il diritto all’aborto è stato introdotto in Costituzione, quanto per la mano forte sulla programmazione della televisione statale, per i candidati francesi, l’Italia è sul tema diritti ormai quasi alla stregua dell’Ungheria. Se da una parte in Italia si tende troppo spesso a guardare a chi “è messo peggio”, per consolarsi dei drammi domestici, in Francia (almeno, per i rappresentanti della sinistra francese) siamo noi quelli messi peggio. Proprio come Ungheria o Polonia, niente di meno.
Se avete letto fino a cui, vi sarete accorti di due cose in particolare: che per i candidati presenti e per i loro schieramenti il tema della tutela dei diritti - in Europa quanto in Francia - è cruciale, e che tra le posizioni che abbiamo potuto ascoltare al dibattito non figurano quelle dei partiti di destra. Se si può considerare una fatalità l’assenza de Les Républicains (PPE), lo stesso non si può dire per Rassemblement National (ID) e Reconquête (ECR). L’associazione organizzatrice l’ha chiarito fin da subito, reputa che tali partiti non si rifacciano alle più basilari regole della democrazia e, per tale motivo, non possono essere benvenuti a un dibattito democratico.
Tra il 6 e il 9 giugno, in ventisette Paesi, più di trecento milioni di cittadini deciderà del futuro dell’Europa. Lo farà in base a campagne elettorali diverse, con diversi pro e contro, e all’interno di contesti politici e sociali che se ormai, con più di settant’anni di storia di unità europea alle spalle, non ci sorprendono più per le loro similitudini, ancora ci incuriosiscono per i loro punti di contrasto.
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