«Donna, vita, libertà». L’effetto domino delle proteste iraniane.

, di Anna Dolce

«Donna, vita, libertà». L'effetto domino delle proteste iraniane.
Darafsh, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/license...> , via Wikimedia Commons

«Zan, zendegi, azadi»: «Donna, vita, libertà» è lo slogan urlato da migliaia di manifestanti iraniani nelle ultime tre settimane in risposta alla repressione perpetrata dalla Repubblica islamica, #iranrevolution e #mashaamini gli hashtag ufficiali delle proteste.

La grande capacità di creazione di una global connectivity messa in atto dal popolo iraniano è stata accolta e sostenuta da numerose/i attiviste/i dislocate/i in tutto il mondo. Nemmeno il rallentamento di internet causato dalle autorità iraniane, ha fermato il loro grido di libertà. L’imbottigliamento del web è purtroppo noto al popolo iraniano, ma grazie a VPN private dilagano notizie sulla repressione perpetrata dalla Repubblica islamica dando luogo a una forte risonanza. L’eco delle donne iraniane, grazie all’impiego dei social media come strumenti di lotta e costruzione di reti per lo scambio di informazioni, ha quindi valicato i confini nazionali superandoli, per poi riecheggiare nel dibattito pubblico internazionale.

Le lotte nei diversi Paesi circa l’affaire du voile sono diversificate al suo interno. Se tanto in Iran quanto in Afghanistan le donne protestano per non indossare l’hijab, ironia della sorte, in Francia e in India le donne protestano per poterlo indossare. Il comune denominatore di queste lotte è la libertà di scelta e, per tal motivo, risulta necessario chiarire fin da subito che le proteste non sono attuate contro il velo ma contro l’obbligo di quest’ultimo.

La controversia del velo in Iran

Nel 1936, lo shāh Reza Khān Pahlavi, seguendo il modello di altri leader autoritari come il turco Mustafa Kemal Atatürk, proibisce, per legge, l’uso del velo attraverso un decreto Kashf-e hijab (svelamento), dividendo il popolo in due. Per alcuni rappresenta una scelta positiva, per altri, soprattutto per le donne, una privazione della propria identità religiosa e dei propri diritti. L’imposizione della modernizzazione e dell’occidentalizzazione forzata dall’Iran monarchica non riguardava soltanto le donne. Anche gli uomini venivano invitati dallo stesso shāh ad abbandonare gli abiti tradizionali per vestirsi all’occidentale. Nel 1941, Reza Khān è costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza Pahlavi che revoca il decreto concedendo alle donne di vestirsi come desiderano, con o senza velo. Il Governo, in realtà, attua discriminazioni come l’esclusione delle donne velate negli incarichi pubblici.

Il velo diventa, negli anni, simbolo politico della resistenza contro il regime monarchico dello shāh Mohammed Reza Pahlavi, e pilastro fondante nei moti rivoluzionari del 1979. Molte donne, infatti, scendono in piazza con il velo rivendicando il diritto ad indossarlo. La rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini, guida suprema (la principale autorità politica e religiosa iraniana), sposa questo dettame religioso e ne annuncia l’obbligatorietà il 6 marzo del 1979. Molte delle donne, di ogni professione e ceto sociale, che avevano sostenuto la rivoluzione, si ribellano con una grande marcia pacifica per le strade di Teheran l’8 marzo del 1979. Nonostante le proteste, il 29 marzo Khomeini annuncia la segregazione delle donne nelle spiagge e negli eventi sportivi. È nel giro di pochi anni che i rivoluzionari islamici più conservatori consolidano il proprio potere, eliminando tutte le forze moderate dal Governo e dalle cariche pubbliche. Per fare rispettare l’obbligatorietà del velo, nel 1983 il Parlamento impone anche pene corporali (74 frustate) approvandole con la legge sulla punizione islamica. Di fatto, in pochi anni in Iran, il velo passa dall’essere simbolo di liberazione dal regime dello shāh a simbolo di oppressione del regime degli ayatollah.

Le proteste

Nel corso degli ultimi anni le proteste contro le imposizioni morali del regime teocratico, mai cessate completamente, sono diventate sempre più numerose.

Sono due le attiviste di spicco che nelle scorse tre settimane si scagliano contro il regime: la giornalista iraniana Masih Alinejad, in esilio a New York, che nel 2014 ha dato vita alla sua prima campagna in supporto alla libertà delle donne - My Stealthy Freedom - nella quale le incoraggiava a filmarsi con il capo scoperto, e che non ha mai smesso di documentare e dar voce alla disparità di genere in Iran sui suoi profili social, e l’ex Parlamentare Faezeh Hashemi, figlia dell’ex Presidente Akbar-Hashemi Rafsanjani, arrestata in queste settimane con l’accusa di aver istigato e fomentato "i disordini”.

Le azioni di protesta in Iran che vengono esplicitate attraverso il taglio dei capelli, i veli incendiati e le foto postate sui social a capo scoperto — per noi occidentali atti che non implicano la morte — sono azioni esercitate contro le brutalità della polizia morale.

A far cadere la prima tessera del domino è la morte di Mahsa Amini, ragazza del Kurdistan iraniano in vacanza a Teheran con la sua famiglia, fermata il 13 settembre dalla polizia morale e arrestata a causa del severo codice d’abbigliamento della Repubblica islamica. A oggi non vi è la certezza che Masha Amini sia stata arrestata per aver indossato in modo inappropriato il velo. È risaputo che la polizia morale arresti anche per un pantalone molto stretto.

Sta di fatto che Masha non era di Teheran e, di conseguenza, non era abituata alle retate improvvise della polizia morale. La sua morte, avvenuta sotto la custodia della polizia, ha messo profondamente in imbarazzo il Governo a pochi giorni dall’intervento all’Assemblea generale dell’Onu del Presidente Ebrahim Raisi. L’apertura dell’inchiesta, da parte di quest’ultimo, è imminente, tanto quanto la risposta delle autorità iraniane che affermano che la morte di Mahsa è avvenuta a causa di un infarto. Il padre della ragazza smentisce immediatamente le dichiarazioni ufficiali sostenendo che il cadavere di Mahsa mostrava chiari segni di percosse.

La repressione

La repressione a queste manifestazioni che si susseguono dal 16 settembre è graduale: escalation che parte dai lacrimogeni fino all’utilizzo di pistole con proiettili di metallo.

Si spara ai dimostranti, come è successo con Hadis Najafi, la ragazza che nel video raccoglie la sua coda bionda. Hadis Najafi, ventenne della città di Karadj, è una delle tante vittime del fuoco della polizia iraniana, il cui numero oggi sale ad almeno 154 persone (secondo l’ONG Iran Human Rights con sede a Oslo).

Nonostante i numeri agghiaccianti dei morti e degli arresti, le proteste continuano. E’ angosciante ammettere che la morte di Mahsa, ragazza di provincia, ha permesso a tante famiglie di identificarsi con questo dolore. Le rivolte partite appunto dalle province vedono come protagonisti uomini, donne di nuove generazioni e donne di mezz’età che rivendicano la libertà per loro figlie, e che portano queste proteste a essere le più importanti dalla rivoluzione del 1979 perché mettono insieme persone con diverse rivendicazioni. Col passare dei giorni, ad affrontare la repressione del regime vi sono sempre più iraniani di ogni età e fascia sociale. In questa rivolta interclassista, al fianco delle donne, per motivi differenti, si schiera una parte della borghesia, che si batte per i diritti civili e le libertà, e i ceti popolari con rivendicazioni di tipo economico, vista la crisi causata dalle sanzioni internazionali.

Un chiaro segno di disappunto alla forte repressione arriva dal centro della nostra Europa grazie all’Eurodeputata svedese di origine irachena Abir Al-Sahlani, del Partito di Centro, che taglia una ciocca dei suoi capelli durante una seduta del Parlamento europeo lo scorso 4 ottobre.

"Noi popoli e cittadini dell’Unione europea chiediamo la fine incondizionata e immediata di tutta la violenza contro le donne e gli uomini in Iran. Finché l’Iran non sarà libero, la nostra furia sarà più grande di quella degli oppressori. Finché le donne iraniane non saranno libere staremo con voi. Donne, vita e libertà!. Queste parole, accompagnate dal gesto simbolico prima citato e che ha visto protagoniste numerose donne tra cui attiviste, studentesse, accademiche, politiche, artiste, cantanti, attrici, modelle e influencer, è un chiaro segno di solidarietà alla lotta delle donne iraniane, che da sempre protestano per la propria libertà.

Il popolo iraniano sta lottando per godere del diritto di libertà di scelta. E come nel cuore di Nika Shakarami, che in segno di protesta cantava in un video senza velo una canzone tratta dal film Soltan Ghalbha, anche in quello di ogni iraniana/o riecheggia il verso: «Una parte del mio cuore mi dice di andare, andare. L’altra parte mi dice di restare, restare».

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