Dall’Italia una voce sulla rivoluzione digitale

, di Grazia Borgna

Dall'Italia una voce sulla rivoluzione digitale

L’umanità è di fronte ad una importante svolta tecnologica, a una rivoluzione socio-economico-ambientale che sta trasformando profondamente i rapporti tra le persone e tra le persone e la natura che ci circonda.

A differenza di quanto è avvenuto nel passato questo cambiamento avviene nel momento in cui gli uomini sono chiamati a impegnarsi per salvare il pianeta il cui millenario equilibrio è sconvolto a causa di un aumento incontrollato dell’inquinamento e della natalità, con gravi ripercussioni sulla tenuta della convivenza civile e dell’ecologia.

Si impone un ripensamento complessivo e radicale del modello economico e l’avvio di uno sviluppo ecosostenibile basato su “un’economia circolare”. Un’economia capace di rigenerarsi, ridurre al minimo gli accumuli di rifiuti e gli sprechi di risorse e di materiali.

Contemporaneamente è necessario riparare i danni prodotti nel recente passato sul piano sociale e ambientale. Va avviato un piano di risanamento, riciclo, smaltimento, riqualificazione del territorio. Un progetto articolato dal livello globale al locale che preveda le necessarie misure di contrasto alle diseguaglianze che hanno creato gravi tensioni, guerre e conflitti tra i continenti e al loro interno a causa delle disparità nello sviluppo, nella distribuzione delle risorse e del reddito. Un progetto che richiede, per poter vedere la luce, ampio consenso e condivisione.

Nel loro recente libro “Il Principe Digitale” gli autori, Mauro Calise e Fortunato Musella, affrontano questo grave problema. Si chiedono se la rivoluzione digitale, che è in atto, sia lo strumento tecnologico adeguato ad affrontare la crisi mondiale. Sicuramente questa riflessione è indispensabile non solo per capire quale società sta nascendo, ma anche quale sarà il futuro dei sistemi democratici. Per poter intervenire è necessario, a giudizio degli autori, approfondire la conoscenza dell’“ecosistema digitale”, chiarire quali sono le sue principali caratteristiche, gli aspetti positivi e quelli negativi, le potenzialità.

Innanzi tutto, fanno rilevare che la diffusione del web digitale ha dimensioni planetarie e gode di un consenso molto ampio. Ma che a questa esplosione dei canali di comunicazione non ha, fino ad ora, corrisposto un’appropriata regolamentazione, da parte delle Istituzioni democratiche. Manca una seria gestione della sua diffusione. Un fenomeno incontrollabile si presta a manipolazioni. Le comunicazioni possono influenzare i comportamenti, condizionandoli sul piano economico, sociale ed elettorale. E di fatto questo sta già avvenendo. Non ci dobbiamo far ingannare, affermano, dalla parola “social” che li definisce, ma che non ha corrispondenza nella realtà. Il web non è neutrale. Anche quando i messaggi riguardano amore, amicizia ecc., la logica che li muove è di tipo economico. Il potere del web si concentra in mano a 5 proprietari di società multinazionali: Apple, Alphabet, Amazon, Microsoft, Facebook che lo gestiscono, ne sono i soli custodi e agiscono in vista del profitto aziendale. Si tratta di un nuovo capitalismo, il capitalismo digitale, i cui aspetti identificativi sono: concentrazione finanziaria, controllo dei dati, messaggi con valenza istituzionale. Le multinazionali private e padrone del Web, non rispondono del loro operato alle istituzioni democratiche. Il web-populismo nasconde di conseguenza la possibilità concreta di poter manipolare l’opinione pubblica e di essere inficiata da interessi privati e invisibili.

La strategia sulla quale si basa la comunicazione è quella di tempestare gli utenti della rete di messaggi veloci, semplici, spesso aggressivi, la cui attendibilità è difficilmente verificabile. Induce risposte immediate che tendono a diventare compulsive. Anche se i messaggi che vengono inviati sono falsi e tendenziosi, possono condizionare il clima politico e minare l’autonomia di giudizio dell’opinione pubblica. Gli autori mettono in guardia i lettori su questo aspetto del digitale. I social non agisco solo sull’economia ma anche e continuamente sulla politica. La rappresentanza e il controllo dei dati sfugge agli Stati. L’intromissione di Stati nelle reti di altre nazioni è sempre più frequente, influisce e può compromettere le relazioni internazionali.

L’economia digitale ha prodotto e diffuso, a livello planetario, una vera e propria “mutazione genetica”. Gravi sono le conseguenze per la nostra autonomia dal momento che ogni “ganglio della nostra esistenza viene filtrato” dai social media. Rispetto al passato, fanno notare gli autori, tutto questo avviene senza il coinvolgimento e l’intervento dei corpi intermedi della società (partiti, stampa, Organizzazioni sindacali, imprenditoriali e della società civile) costruita negli ultimi due secoli. L’aspetto distorsivo consiste nel fatto che rivolgendosi solo e direttamente all’individuo si scardina l’infrastruttura sociale rappresentata dai corpi intermedi. L’infrastruttura della vita collettiva diventano le piattaforme digitali. Diminuisce la “separazione tra vita privata e vita pubblica”. L’erosione della sovranità statale relega la politica in secondo piano. Cambia il legame tra i cittadini e i partiti che erano gli intermediari tra la società e lo Stato. Nascono i partiti digitali, cybercratici, che rappresentano interessi privati invece di aprirsi all’emancipazione culturale.

Si punta a indurre l’individuo-utente a costruire direttamente la propria identità, un’identità digitale. Ma gli autori ci mettono in guardia sul fatto che si tratta di un’autonomia illusoria. Siamo soli anche se iper-connessi. L’individualismo induce un’avversione verso la politica tradizionale e il principio della delega sulla quale si reggono i sistemi democratici. L’illusione che viene indotta è quella che sia “il popolo”, senza mediazioni, a poter decidere direttamente e su ogni questione. Tutti possono intervenire e su tutto. La conseguenza è che l’io prevale su ogni forma di “responsabilità collettiva”. Questi sempre più evidenti attacchi ai sistemi di democrazia rappresentativa, devono creare forti preoccupazioni e ci chiamano in causa. Cosa e “chi può impedire che il popolo della rete venga orientato da chi detiene le chiavi del server?”

“Come reagisce la politica a questo attacco?”

Gli autori constatano che purtroppo tende ad inseguire invece che a governare il processo. Punta sui singoli leader inducendoli a coltivare un rapporto diretto e personale con i cittadini. Un rapporto esclusivo, senza intermediari, privato. L’attenzione ai sondaggi diventa ossessiva. La rete è il campo in cui si vincono le elezioni. Si vive in una campagna elettorale permanente, accompagnata da un affannoso inseguimento degli “umori” degli utenti e quindi poco rivolta a soluzioni e proposte a medio e a lungo termine. Le uniche che possono affrontare e risolvere problemi complessi come quelli che abbiamo di fronte. Inoltre, contrariamente a quanto viene comunemente affermato, il web digitale porta con sé un forte accentramento di poteri in aperto contrasto con la propaganda che vuol far credere di “navigare” verso la “democrazia diretta”. Anche questi elementi possono costituire un pericolo per la tenuta dei sistemi democratici.

Gli autori sono preoccupati, ma non sono pessimisti rispetto alla possibilità che il web possa essere regolamentato e indirizzato a fini pubblici, a tutela del bene comune, contribuendo ad affrontare in modo corretto la crisi. Il ruolo della rete non è predestinato “può essere usato in molti modi e con finalità diverse”. Considerano che è nato come strumento di emancipazione culturale per tutti, per far partecipare tutti al dibattito pubblico. Può e deve essere ricondotto a tener fede alle proprie origini. L’impegno della politica e della società civile deve essere rivolto a creare le condizioni perché questo avvenga ricreando un dibattito libero e indipendente da interessi commerciali privati. È su questo che si gioca il futuro della democrazia. Gli autori affermano che “non sappiamo se siamo alla vigilia di un tramonto della democrazia o di una rifondazione. Ma non c’è dubbio che oggi gli ideali e le istituzioni democratiche affrontano un deficit di legittimità e di efficienza che ne pregiudica la sopravvivenza”. Di fronte all’indebolimento degli Stati occorre globalizzare politica, governo e democrazia. Dunque, ci invitano ad agire, a opporci al declino dei partiti e dei Parlamenti. A non dare spazio al plebiscitarismo, ad una fantomatica “democrazia diretta”, all’individualismo di massa, alla democrazia virtuale che il web può facilmente condizionare dall’alto. La società civile può diventare un contropotere.

La democrazia, ci ricordano, è partecipazione. Partecipazione è assumere delle responsabilità dirette e non mediate dal web, “riprendere le fila della tela democratica proprio a partire dalle sterminate potenzialità che la stessa rete sembra offrire. Restituire al cittadino digitale quello scettro che spetta al popolo sovrano”. In un momento in cui tutti sono coinvolti in una crisi senza precedenti, partecipazione è riavvicinare i cittadini alla politica, ad appropriarsi “in massa del controllo delle leve culturali”, ma anche agire per rinnovare i partiti.

Nella rete ci sono enormi potenzialità. Il web abbatte le barriere. Molte persone possono accedere al mondo politico, possono superare i confini, intervenire in tempo reale. Il coinvolgimento costante dei cittadini può alimentare nuove possibilità di formazione politica, ricondurre gli utenti all’esercizio di una cittadinanza attiva. Ma per tutelarne le potenzialità sul web-digitale va esercitato un controllo democratico, “vanno posti dei limiti e il rispetto della privacy”. Un ruolo importante possono esercitare le grandi università pubbliche e private del mondo. Se opportunamente attrezzate possono diffondere la conoscenza a beneficio di tutti. Il web deve essere messo a disposizione della scienza della quale l’umanità, per poter affrontare le attuali emergenze, ha estremo bisogno. Solo così si potrà parlare di società della conoscenza.

Meditando su questo interessante libro non si può fare a meno di cercare di rispondere ad una domanda. Ma come è possibile che il controllo sulle tecnologie digitali sia sfuggito così facilmente dalle mani della politica, dei partiti, dei corpi intermedi tutori del bene collettivo?

Per capire meglio cosa ci aspetta può essere utile dare uno sguardo al passato.

L’umanità è progredita attraverso successive rivoluzioni economico-tecnologiche del modo di produrre che hanno sempre avuto profonde ripercussioni sulla vita sociale e sui rapporti con l’ambiente. In generale si può affermare che, superati i problemi legati alla transizione verso il nuovo sistema, le condizioni di vita di un numero sempre maggiore di persone siano migliorate.

Oggi, come si è detto, ci troviamo di fronte ad una nuova svolta economico-tecnologica: la Rivoluzione digitale. Ma le ripercussioni positive sulla società e sull’ambiente tardano a arrivare. La rivoluzione tecnologica, che prometteva di portarci verso la società della conoscenza, sembra invece che ci stia portando verso la privatizzazione e non alla tutela dei beni pubblici. Gli unici che possono assicurare una migliore qualità della vita.

Cosa è successo?

Anche se, come afferma Crouch, nonostante le indubitabili distorsioni, la globalizzazione ha attenuato in modo significativo la povertà assoluta che affliggeva una parte del mondo, i problemi che ne sono derivati sono gravissimi. Nell’ultima fase della seconda rivoluzione industriale la creazione di un mercato mondiale non è stata accompagnata da parallele e adeguate politiche di salvaguardia sociale e ambientale.

La precarizzazione del lavoro e l’inquinamento da combustibili fossili hanno messo a dura prova gli equilibri sociali e ambientali. Nelle due rivoluzioni economico-tecnologiche precedenti a quella digitale, la rivoluzione agricola [1] e quella industriale [2], il controllo del potere politico sulla tecnologia e sull’economia, anche se parziale, ha assicurato un sufficiente equilibrio tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Oggi questo equilibrio è compromesso. Il numero degli esseri umani sul pianeta è cresciuto in modo esponenziale. L’inquinamento dell’acqua, dell’aria e del suolo ha portato il pianeta, come testimoniano le crisi climatiche che lo affliggono, al limite della sostenibilità. Questo pone all’umanità drastiche scelte e sacrifici non più rinviabili. Considerato che quello che accade in un qualsiasi luogo del pianeta ha delle ripercussioni su tutti gli altri è evidente che in assenza di un’autorità mondiale riconosciuta, che si occupi del bene comune e di promuovere la necessaria cooperazione, sarà difficile far fronte all’emergenza sociale e alle crisi climatiche che flagellano la terra. Dai summit mondiali purtroppo si evince che non tutte le comunità sono disposte ad accettare i necessari sacrifici e mettere mano alle conseguenti politiche. Gli scienziati di tutto il mondo affermano che queste scelte non sono più rinviabili. Abbiamo davanti solo 10 anni per tentare di invertire la tendenza.

Che cosa ha a che fare tutto questo con la rivoluzione digitale?

Per far fronte alle emergenze, possiamo far leva sulle potenzialità che l’economia digitale offre, avviare uno sviluppo sostenibile, un’economia green una maggior tutela del lavoro? La fase di transizione richiederà enormi investimenti e quindi non potrà essere lasciata, come è avvenuto nel passato, nelle mani delle multinazionali e del loro uso monopolistico o oligopolistico del mercato. La rivoluzione tecnologica deve essere orientata a salvare il pianeta e la specie umana che lo abita. E questo è compito della politica.

La scienza e la tecnologia digitale possono, ad esempio, sostituire l’uomo con macchine intelligenti, in quasi tutti i lavori alienanti, pericolosi, faticosi e creare nuovi posti di lavoro stabili e di qualità nei settori di avanguardia. E anche la politica se ne può giovare. Per “tamponare le falle dell’impianto democratico tradizionale” e rispondere ai nuovi bisogni dei cittadini deve “velocizzare e ridurre i costi delle amministrazioni”, rivedere e ridistribuire i poteri e le competenze ai vari livelli di governo da quelli locali e regionali a quelli nazionali, continentali e globali. A problemi globali vanno date risposte globali e a livello mondiale le istituzioni, che già esistono, devono essere potenziate. Ma per essere riconosciute e sostenute devono essere profondamente riformate, democratizzate e dotate dei poteri e delle risorse sufficienti per poter agire.

Le nuove tecnologie sono uno strumento insostituibile per creare i canali di comunicazione tra istituzioni, attori economici e cittadini e consentire a questi ultimi di intervenire nelle decisioni che li riguardano. Un’Agorà pubblica non eterodiretta che tenga separata la sfera pubblica da quella privata e risponda alla domanda di partecipazione allargata.

In conclusione, “Il Principe Digitale”, per tutte le ragioni che hanno evidenziato Mauro Calise e Fortunato Musella, se riacquisterà la sua originale missione, può essere il protagonista del cambiamento, il volano di un futuro migliore per l’umanità. Non va di conseguenza rifiutato, ma utilizzato nel modo giusto, come si è detto, o sottratto al controllo degli interessi privati e messo in condizione di rafforzare le Istituzioni democratiche

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Note

[1Con la Rivoluzione agricola di 10-15000 anni fa, gli uomini hanno lasciato il nomadismo e un’economia di caccia e raccolta per insediarsi in prossimità dei grandi fiumi, coltivare la terra e allevare gli animali. È iniziata una storia che ha portato gli uomini a imboccare una strada diversa da quella di tutti gli altri esseri viventi: la trasformazione dell’ambiente naturale in un ambiente artificiale sempre più esteso, in cui vivere. Si è spezzato l’equilibrio che legava gli esseri viventi ad un’economia circolare, ecologica. Con l’economia agricola la selezione di vegetali e animali e il commercio le comunità umane hanno moltiplicato le possibilità di sopravvivenza e indotto un notevole aumento della popolazione mondiale. Questo aumento non ha creato gravi disquilibri perché le comunità umane erano ancora relativamente piccole. In questo tipo di economia le macchine semplici, l’aratro, la ruota, i mulini, non sono altro che il prolungamento della mano dell’uomo che è la principale forza motrice. Come dimostrano le corvé per le grandi opere dell’antichità. Questa economia richiede per funzionare, specializzazione. E la specializzazione richiede una nuova divisione del lavoro. Si è Sovrani, scienziati, capi militari, schiavi, sacerdoti, agricoltori, allevatori, commercianti per mestiere e a vita in certi casi per eredità familiare. Nell’ economia di caccia e raccolta i membri della comunità avevano compiti legati alla condizione del momento. Un uomo giovane nel pieno della forza fisica e delle sue facoltà veniva scelto per guidare la caccia. Non avrebbe avuto questo ruolo né da ragazzo né da anziano. I ruoli erano legati alla necessità che ognuno fornisse, in ogni momento, il meglio per la comunità. Con la rivoluzione agricola i ruoli devono diventare permanenti. Il Faraone o il Re lo sono dalla nascita. Ci vuole stabilità e competenza per assicurare al proprio popolo sicurezza e benessere. Nasce la politica.

[2La seconda rivoluzione economico-tecnologica è stata la Rivoluzione industriale. La prima e la seconda rivoluzione industriale, con l’introduzione di macchine che potevano moltiplicare le capacità produttive e facilitare gli spostamenti, migliorare le abitazioni e la qualità del cibo, hanno migliorato le probabilità di sopravvivenza degli uomini. Il vantaggio è assicurato dal motore (prima a vapore e poi a scoppio) che fa funzionare le macchine (beni, trasporti, agricoltura, servizi, merci) e crescere enormemente la produzione di beni. Aumentano in corrispondenza ricchezza, investimenti, commercio, occupazione salariata. Con l’aumento della popolazione si estende l’occupazione della natura, la massa dei rifiuti, la richiesta di energia, cibo e acqua. Importanti sono le conseguenze sul piano sociale. Classi e ceti sociali, fino ad allora esclusi, possono rivendicare più diritti e, superando schiavitù e servitù, puntare ad un lavoro remunerato e a poter designare e votare i propri rappresentanti (partiti politici e Parlamenti). Con la Rivoluzione francese si afferma il principio della divisione dei poteri. I poteri politico-economico-giudiziario-religioso non debbono stare nelle stesse mani, come avveniva con i sovrani assoluti.

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