Scenari futuri dell’Unione: quale Green Deal? Intervista a Ester Barel

Una nuova intervista per «Scenari Futuri dell’Unione» in vista della Festa dell’Europa del 9 maggio

, di Mirko Giuggiolini

Scenari futuri dell'Unione: quale Green Deal? Intervista a Ester Barel

Avvicinandoci al 9 maggio, osserviamo gli scenari futuri della nostra Unione europea. Ci concentriamo sul tema della crisi climatica e su cosa l’Unione europea possa fare per contrastarla e per condurre il resto del mondo sulla stessa strada con un’intervista a Ester Barel, di Fridays for Future.

Ringrazio a nome di Eurobull Ester Barel, che si è prestata a questa intervista sul tema del Green Deal europeo. Ciao Ester, dicci qualcosa in più di te.

Ester Barel: Ciao a tutti e tutte, mi chiamo Ester, sono una delle portavoci nazionali di Fridays for Future Italia. FFF è un movimento che si occupa di giustizia climatica. Ci interfacciamo con vari attori della sfera politica, della cittadinanza e della sfera istituzionale.

Grazie mille. Saltiamo direttamente al cuore di questa intervista, il Green Deal. Sembra promettere molto per il futuro. Qual è la tua posizione a riguardo? Cosa ne pensi?

Ester Barel: Diciamo che come movimento abbiamo avuto sicuramente delle soddisfazioni in questo senso. Possiamo dire che, anche riprendendo le parole di Timmermans, forse non si sarebbe riusciti ad andare in questa direzione - avere degli accordi europei sul clima così importanti - senza un movimento dal basso, senza l’attivazione dal basso come quella dei movimenti per il clima. È anche vero che il Green Deal è un inizio, un punto di partenza, e manca ancora di una serie di aspetti che invece per noi sono fondamentali. Ci sono dei dettagli che sono molto buoni, ma anche dei punti deboli, se pensiamo alla PAC o all’ampliamento dei mercati di credito del carbonio, che non sono per niente vittorie per noi.

Per la PAC, andiamo ad avviare e continuiamo investimenti precedenti su monoculture e allevamenti intensivi. Per i mercati del credito di carbonio, si fallisce nel Green Deal nel riconoscere l’urgenza di tagliare le emissioni. Si continua un po’ con il business as usual. In generale, manca una politica industriale forte che preveda un intervento pubblico massiccio, e questo probabilmente sarà un problema. Lo stiamo già vedendo. Se pensiamo al caso francese di EDF, pensare che si possa andare avanti senza aiuti è complicato.

È importante riconoscere che gli Stati - perché l’Europa è fatta di Stati ad oggi - che se manca il riconoscimento di obiettivi più ambiziosi, sarà difficile pensare che cali qualcosa semplicemente dall’alto. Per questo noi continuiamo a spingere perché le posizioni del governo italiano cambino. L’Italia avrebbe un ruolo chiave in molte di queste partite. Specialmente però col governo attuale, le possibilità di spingere le stiamo perdendo in partenza.

Proprio sul tema PAC, il nostro è un Paese dove la produzione agricola è di grande rilievo. Potresti approfondire il tema all’interno del commitment deal a cui hai già fatto riferimento, anche inquadrando un po’ quella che è la PAC per te? La PAC forse è una sigla non nota a tutti.

Ester Barel: Si, certo. Quando parlo di PAC, parlo di Politica Agricola Comune. Di come insomma viene indirizzato sostanzialmente un terzo dei fondi comunitari, tramite sussidi e aiuti all’ambito agricolo, all’allevamento e così via. Questa politica dovrebbe andare nella direzione di considerare la biodiversità, tenendo ovviamente in considerazione le esigenze delle economie dei territori locali, e sviluppare un settore fondamentale quale quello agricolo qui in Europa. Purtroppo, ad oggi possiamo dire che la PAC finanzi ancora allevamenti intensivi, e va nella direzione di aiutare maggiormente chi ha già dei grandi appezzamenti, grandi monocolture. Questo è dovuto alla modalità con cui si gestisce la PAC e il pacchetto di aiuti e sussidi che vengono dati.

Ci si dimentica anche la parte della biodiversità e nemmeno si affronta con la dovuta attenzione il tema delle frontiere e di altre che sono che sono fondamentali sia a livello di ecosistema che a livello di emissioni di CO2. In senso generale, si nota ancora uno sguardo verso gli interessi economici come se però essi fossero contrapposti al benessere sia sociale che ambientale. Invece, le carenze della PAC le vediamo, e verranno viste, nella vita di tutti i giorni, perché non solo la biodiversità è fondamentale per noi esseri umani, ma anche perché esiste un mercato di piccoli agricoltori e allevatori italiani che è messo in difficoltà da questa politica. Noi collaboriamo con l’Associazione Rurali Italiana, che presenta anche un coordinamento europeo, e che si occupa di tutelare i piccoli allevatori e agricoltori. Nel parlare con loro, vediamo cosa significa avere delle politiche che dimenticano un’intera fascia di lavoratori e lavoratrici, specialmente in un ambito così tradizionale per noi come quello della cura della terra.

Bene, grazie mille. Facevi degli anni di ciò prima anche tu, cioè quanto ruolo ha secondo te l’Italia all’interno del Green Deal, e in particolare il governo italiano? Qual è la tua percezione a riguardo? Il governo si sta muovendo per dare con credibilità aiuto alle istituzioni europee al Green Deal o cosa ne pensi?

Ester Barel: In Italia stiamo andando nella direzione opposta, nonostante avremmo davanti a noi le vittime del cambiamento climatico, o della costante crisi climatica. Parlo ora di questi giorni di alluvioni nell’Emilia-Romagna, per esempio. Vediamo le persone perdere la vita nel nostro paese, non abbiamo nemmeno più la scusa che questa sia qualcosa di lontano da noi. Noi comunque stiamo andando, in Italia, nella direzione del gas. Non ci stiamo nemmeno avviando a sbloccare progetti su fonti rinnovabili, su cui invece dovremmo assolutamente puntare. Manchiamo sia di precisione che di tempismo in tal senso, anche in ambito di attuazioni di Comunità Energetiche Rinnovabili e Solidali (CERS). Diciamo che il nostro paese potrebbe avere un ruolo di leadership per la storia che ha, e anche per il peso che rappresentiamo e che abbiamo. Non lo stiamo avendo, anzi, quando è possibile rallentiamo una serie di cambiamenti che potrebbero essere portati avanti. La prima cosa che mi viene in mente è il tentativo di evitare che si passi allo stop delle auto a combustione. In questo momento, il nostro ruolo è di freno e non di ambizione, quando invece dovremmo puntare a qualcosa anche in più rispetto il Green Deal stesso.

Quello che si può fare oggi in Italia è comunque continuare a parlare del tema, in maniera puntuale e precisa, più di quel che avvenga nel dibattito pubblico che spesso continua ad opporre tra di loro bisogni primari come il diritto all’ambiente sano e un ecosistema funzionale e il lavoro. C’è molto da fare a livello di discussione, perché le decisioni che vengono prese in questi anni determineranno molto del nostro futuro, e non solo. In questo senso, anche il Piano Mattei di cui il nostro Governo attuale si vanta molto, è in chiaro contrasto con quelli che sono gli obiettivi del Green Deal.

Cosa ne pensi su questo punto?

Ester Barel: Quando parliamo di influenza, di influenza che abbiamo a livello istituzionale e che hanno attori economici importanti, parliamo di situazioni come questa. Pensiamo alla posizione che ENI ha avuto nel corso degli anni, anche dentro la transizione. Non siamo stupiti che si vada in una certa direzione, che è una direzione fatale e lo vediamo in tanti aspetti - dalle bollette ai disastri ambientali Made in Italy.

Diciamo che è come cambiare spacciatore della stessa sostanza. Non sarà mai una soluzione, specialmente se si parla di combustibili fossili. In più, c’è un forte problema di colonialismo quando si parla di questo tipo di risorse. Non possiamo fingere di non avere un mondo interconnesso ora. Dobbiamo fare delle grandi distinzioni però quando parliamo di garantire crescita e sviluppo in altri paesi, dove però preleviamo tutto senza dare nulla e con una tendenza e un assetto economico di sviluppo assolutamente in chiave colonialista. La crisi climatica in sé è fortemente legata al colonialismo, perché il colonialismo è esattamente quell’idea di sfruttamento delle risorse che ci ha portato dove siamo ora. Per cui, né dal punto di vista ideologico né da quello pratico questo piano può essere una soluzione per noi. È importante riconoscere il ruolo che ENI ha nel rallentamento della transizione, considerando che il 96% dei suoi profitti proviene dai combustibili fossili stessi e che il settore “Oil and Gas” della compagnia è in crescita del 4,6%, invece di andare dal lato diminuzione. Ora, Plenitude è una bella pennellata di verde come controllata. Dice di fare il lavoro da “braccio armato” verde ma non è che lo stia facendo benissimo, e non possiamo pensare che questi siano ritmi della transizione né che con queste premesse sia ENI a guidarla.

Chiaramente, ci troviamo dinanzi forti mancanze da parte degli attori pubblici, però accanto a questi attori pubblici ci sono attori privati, associazioni, cittadini e cittadine così come ONG, multinazionali perfino. Secondo te, come bisogna muoversi su questo fronte? Cioè, come possiamo dare slancio all’iniziativa privata tesa a combattere il cambiamento climatico e soprattutto in sostegno al Green Deal?

È una domanda da un milione di dollari, nel senso che ci sono vari aspetti da considerare. IN senso ampio, bisogna spingere perché l’Italia abbia posizioni non negazioniste e che rimanga al passo - cosa che fa bene ai lavoratori e alla lavoratrici. È necessario continuare come cittadini e cittadine, come italiani e italiane, a parlare del tema e a mobilitarsi, a scendere nelle piazze e fare massa critica. Soprattutto bisogna evitare che vi sia una contrapposizione tra lavoratore e lavoratrici e la transizione energetica. Questo è vitale, perché altrimenti i fronti risulterebbero separati e ciò danneggia la lotta. A livello più ampio, penso che dobbiamo iniziare a considerare e a guardare alla responsabilità dell’industria, ad avere piani industriali seri. Questa è una mancanza del Green Deal. Questo a livello nazionale potrebbe essere fatto, ed avere una spinta poi ulteriore sugli altri paesi membri potrebbe unificare la lotta.

Questi sono ruoli che hanno attori diversi, che possono essere fatti ad esempio da una parte da movimenti dal basso. Dall’altro lato, vi è chi si occupa più del lato tecnico della transizione e sicuramente a livello più ampio, europeo, è necessario mettersi in testa che la crisi climatica è qui, ora, che non è più un problema futuro, che abbiamo responsabilità storiche e che come attivisti e attiviste dobbiamo prenderne atto. Fatte nostre queste responsabilità, dobbiamo immettere nel dibattito storico anche dei temi quali il “loss and damage”, la necessità di dare riparazione a quei paesi che sono stati maggiormente colpiti dalla crisi climatica e che non sono gli stessi paesi che l’hanno causata. Ci sono davvero tanti fronti aperti e le ONG, le associazioni che si occupano di questo, devono cercare di fare rete quanto più possibile - anche con quelli che sono i movimenti di altro tipo e con organizzazioni diverse. Avviene già a livello europeo. Condividere informazioni e portare le persone ad attivarsi nel concreto richiede sempre però nuovi metodi, attività e quindi non c’è mai un punto fermo di arrivo.

Ci raccontavi anche tu all’inizio che il Green Deal lo abbiamo ottenuto anche grazie alla forte spinta di protesta di Fridays for Future e non solo. Secondo te, questi movimenti dal basso, funzionano ancora oggi sia per quanto riguardi le proteste a cui siamo un po’ più abituati, che penso anche ai nuovi tentativi di azione come i lanci di vernice di Ultima Generazione. Funzionano ancora? C’è stato un impatto come in quella fase pre-Green Deal?

Ester Barel: Secondo me c’è stata un’evoluzione della situazione politica internazionale e negli obiettivi politici che all’interno dei movimenti si hanno. Sono comunque due attori congiunti a modo loro. Certamente è stato necessario far parlare del tema e coinvolgere persone completamente depoliticizzate. Questo non era scontato. Se la battaglia ecologista rimanesse di pochi intellettuali o di quelle comunità indigene che per resilienza e sopravvivenza l’hanno fatta propria, non saremmo dove siamo e non potremmo ottenere un reale cambiamento. È vero che abbiamo ottenuto che se ne parlasse di più. Ci sono i dati di quante volte le emissioni di CO2 sono state nominate agende politiche dopo che si è iniziato a scendere in piazza. Questo è un percorso di cui essere consapevoli per potere fare altre valutazioni.

Ad oggi, FFF si concentra su nuovi e diversi aspetti della collettività, a continuare a politicizzare chi sente questo tema ancora distante da sé. Esplora costantemente nuove vie, modalità e pratiche di azione. Dire che è il modo giusto, che è la cosa efficace, penso sia impossibile. Ci sono tanti problemi, ci saranno tante soluzioni e servono tanti metodi allo stesso tempo. Sta ancora funzionando, nel senso che continuare a fare rete non è mai sbagliato e, anzi, permette di non avere un’avanguardia senza che ci sia un seguito poi. Non vedo questi diversi metodi in competizione tra loro, tra attivisti e attiviste, perché poi ognuno si pone obiettivi chiaramente diversi. Abbiamo un problema di percezione ad oggi. C’è una responsabilità politica nello scegliere di indicare gli attivisti climatici come dei vandali in un momento storico in cui, invece, è necessario e cruciale tagliare le emissioni per evitare di arrivare a quel 1,5 gradi in più, che è indicato come uno degli scenari da evitare per gli effetti che avrebbe e di aumento esponenziale di tutte le conseguenze della crisi climatica.

Non penso che i metodi che abbiamo usato fino ad ora non abbiano portato risultati, ma non penso che siano gli unici metodi efficaci. La lotta ecologista non è nata da persone bianche o europee, è necessario rimanere umili e consapevoli di come abbiamo ruoli diversi e di continuare su strumenti nuovi. A livello mediatico, oggi, la cosa più facile da fare è mettere in atto diversi atti di azione, e i media lo dicono mentre titolano che la crisi climatica è maltempo. È importante tenere l’attenzione sull’obiettivo, avere tante pratiche diverse, comunicazione, unire gli attori dal basso e continuare a mostrarsi e proporsi come una soluzione mentre si richiede che anche dall’alto scendano quelle decisioni che sono fondamentali per indirizzare tutti i livelli della società.

Restando ancora per qualche istante sul tema dei movimenti dal basso, anche se può essere una domanda un po’ vasta e a cui può essere difficile dare una risposta precisa, cosa si non si sta facendo bene e quali sono le best practices da seguire per migliorare le attività quotidiane della pratica dal basso?

Non è facile trovare una risposta univoca e non posso parlare per tutti i movimenti. Conoscendo FFF è importante rimanere in contatto coi territori dentro cui si opera, parlare con le persone che conoscono i problemi locali, le loro evoluzioni, eventuali soluzioni. Questo significa essere in contatto con varie parte della cittadinanza, e a volte non solo della cittadinanza, ma anche con chi non fa parte di questa “categoria”, e riuscire a evitare nella pratica concreta che chi lavora, o chi appartiene a delle categorie marginalizzate, non riesca ad accedere agli ambienti dell’attivismo. Su questo si può sempre lavorare, si tratta di metterlo continuamente in pratica. Bisogna avere forti campagne nazionali che possono arrivare fuori dalla bubble, a chi non sente che l’attivismo possa essere in alcun modo relegato e per questo quelle pratiche che non allontanino per noi sono funzionali. Allo stesso tempo, bisogna aiutare quelle comunità che riescono a mettere in pratica le soluzioni e a mostrare alla gente che siano alternative valide, come nel caso delle CERS. Bisogna quindi non solo chiedere soluzioni dall’alto, ma mettersi in campo, offrirle e dire che esistano. Sono best practice che esistono, ma che vanno potenziate continuamente. Per l’attivismo ambientale in Italia, molto va fatto verso il Sud Italia, bisogna arrivarci in maniera più capillare. È difficile avere gruppi di attivismo attivo in aree che hanno problemi qualitativamente e quantitativamente ancora maggiori. Bisogna lavorare nelle periferie e in aree storicamente meno attive dal punto di vista sociale, per poter essere davvero un movimento dal basso.

Perfetto. Ricongiungendosi sul tema iniziale, dall’attore pubblico europeo, cosa vi aspettate come Fridays For Future? E cosa ti aspetti individualmente? Se il Green Deal è più o meno abbastanza, cosa pensi manchi ancora da parte dell’Unione Europea?

Ester Barel: Sicuramente una presa di coscienza del potenziale che abbiamo e davvero il coraggio di eleggere i leader, nonché mostrare che la politica europea abbia ancora una forza rispetto alle multinazionali e agli agenti meramente economici. Non so se me l’aspetti, nel senso che ho fiducia. Me l’aspetto nel senso che è fondamentale, perché in questo momento solo i paesi come i membri UE hanno la forza di opporsi a determinate spinte che, invece, soffocano sostanzialmente altri paesi e spesso quelli più colpiti dalla crisi climatica. Questo sicuramente. Politiche industriali, perché senza di quelle, senza un forte intervento pubblico in questo senso, sarà difficile concretizzare una serie di cose che continuiamo a dirci. Ancora, iniziare un discorso serio in merito ai limiti planetari e al nostro modello di sviluppo. Siamo il mercato più ricco al mondo, e dobbiamo farci delle domande e darci delle concrete risposte su quanto possiamo produrre. Le risorse della Terra non sono infinite. IL MIT ha sviluppato una serie di parametri che dobbiamo considerare - dall’acidificazione dell’oceano alla perdita di biodiversità per esempio - e noi invece guardiamo solo la CO2 quando parliamo. Non basta questo. Bisogna prendere coscienza che non possiamo avere sviluppo infinito in un pianeta con risorse finite e non possiamo quindi fare piani che mirino a sviluppi infiniti.

È il grande salto che dobbiamo fare. Il Green Deal non lo fa assolutamente. Dovremmo arrivare a parlarne in maniera molto più concreta. Non è che abbia, forse, grande fiducia. Penso piuttosto che sia giusto continuare a spingere in questa direzione. Penso che ci siano delle potenzialità attraverso gli strumenti normativi dell’UE in tal senso. Che, però, se all’interno degli stati-membri i governi non ricevono determinate pressioni, poi non agiranno in seno agli spazi UE nella direzione giusta.

Chiaro che sicuramente far fronte al cambiamento climatico in maniera efficace, richiede mettere in discussione tutto il nostro sistema in generale, in particolare dalle sue basi economiche. Però, chiaramente, sopra la struttura economica poggiano diversi elementi. In questo senso, dimmi un po’ cosa ne pensi, potrebbe essere interessante se l’Unione Europea rimarcasse in maniera particolare l’intersezionalità delle lotte e se, parallelamente alla lotta al cambiamento climatico, ponesse al centro anche la lotta alle diseguaglianze, i diritti LGBTQ+ e delle minoranze etniche.

Ester Barel: Questo sicuramente, ma nel senso che non sono lotte collegate solamente a livello ideologico. Sono concretamente, le categorie marginalizzate o le persone a basso reddito, a soffrire gli effetti della crisi climatica. Non è una mera presa di posizione ideologica - che comunque, condividerei - ma è una necessità che dobbiamo mettere al centro della discussione. l’1% degli europei più ricchi inquina per il 50% delle emissioni. Pensiamo che esistono ancora, e sono normalizzati, una serie di mercati di lusso che a livello di emissioni impattano molto - pensavo al tema dei jet climatici. Se vogliamo parlare di crisi climatica e delle sue case, dobbiamo metterci nell’ottica di ridurre drasticamente le disuguaglianze. Sicuramente, l’internazionalità è naturale, va evidenziata ma c’è. Poi, dovremmo iniziare anche a operare dei discorsi più ampi di colonialismo, responsabilità storiche e presenti, perché è facile da cittadino UE parlare di intersezionalità. Se ne parlassimo con i miei colleghi, attivisti e attiviste di paesi colonizzati, evidenzierebbe le ingerenze di molte multinazionali europee nelle economie dei loro paesi. È fondamentale. Abbiamo ancora bisogno di rafforzare, anzi forse ora più che mai, un’indipendenza di organi istituzionali UE dalle spinte di lobby molto forti. Se pensiamo ai rapporti tra i lobbisti e le istituzioni, le compagnie energetiche responsabili di emissioni e disastri ambientali anche fuori dall’Europa, si ritrovano ogni due giorni a parlare con l’Unione, anche per campagne come l’ERCI.

Quindi di intersezionalità si, con la consapevolezza che mancano ancora oggi la possibilità di mettere in campo gli strumenti di democrazia diretta e partecipativa che potrebbero essere, in quanto un passo, e una presa di posizione netta nei confronti di attori che non sono parte della politica istituzionale che ci parlano molto più di quanto dovrebbero. Questa è una prospettiva anche da individuare sul tema.

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom