APPUNTI SULLE CAUSE STRUTTURALI DELLA QUESTIONE TEDESCA

, di Sergio Pistone

APPUNTI SULLE CAUSE STRUTTURALI DELLA QUESTIONE TEDESCA

La crisi economico-finanziaria mondiale avviatasi nel 2007-2008 negli Stati Uniti e sviluppatasi in Europa in modo acuto a partire dal 2010 si è espressa in particolare nell’accentuato squilibrio economico, sociale e territoriale fra i paesi forti e i paesi deboli dell’Unione Europea (UE). In sostanza fra il nucleo centrale guidato dalla Germania, di cui fanno parte Benelux, Austria e Finlandia (Con la Francia in una situazione intermedia) e i paesi periferici, il più importante dei quali è l’Italia. Questo squilibrio, che si manifesta in una pluralità di divari (relativi a tasso di sviluppo, disoccupazione, squilibri interni agli stati, fasce di povertà, produttività, competitività, squilibri commerciali e nella bilancia dei pagamenti, indebitamento e connesso spread) è la ragione preminente della precarietà dell’euro ed il fattore fondamentale alla base del rafforzarsi delle tendenze contrarie all’avanzamento dell’unificazione europea a cui si accompagnano crescenti contrapposizioni di tipo nazionalistico fra i paesi europei. In questo contesto si segnalano diffuse preoccupazioni circa il ruolo egemonico della Germania nell’UE che evocano i fantasmi di un passato in cui la “questione tedesca” è stata il fondamentale fattore conflittuale sfociato nelle guerre mondiali.

Per contribuire utilmente a una discussione razionale su questo tema, è di importanza fondamentale cercare di chiarire le cause strutturali che sono alla base della questione tedesca che si è manifestata in due configurazioni. La prima riguarda il periodo fra il 1871 e il 1945 ed è riassumibile nelle connotazioni autoritario-militaristiche e infine totalitarie dello stato nazionale tedesco e nella politica imperialistica che si è manifestata nei due successivi tentativi di egemonia sull’Europa che costituiscono il filo conduttore delle guerre mondiali. La seconda configurazione riguarda l’esperienza della Repubblica Federale di Germania (RFdG). Da una parte, essa è diventata fra i grandi stati nazionali europei quello più avanzato sul piano liberaldemocratico e su quello della politica sociale. Dall’altra parte, la posizione della RFdG nel quadro dell’unificazione europea è caratterizzata da un profondo squilibrio economico rispetto ai partner (che si manifesta in particolare nei surplus commerciali), da una inadeguata solidarietà nei confronti dei paesi più arretrati dell’UE, dalla tendenza a imporre le sue posizioni circa il governo dell’economia europea. In sostanza c’è una preponderanza tedesca che si manifesta non con caratteristiche geopolitiche (come prima del 1945 che sono evolute nei tentativi egemonici), bensì geoeconomiche. La conseguenza fondamentale di questa situazione è il riemergere dei nazionalismi, che non implicano la prospettiva di conflitti di potenza (inconcepibili fra gli stati nazionali europei che hanno cessato in modo irreversibile di essere potenze autonome), ma che mettono in serio rischio l’unificazione europea.

Passando alla analisi strutturale della questione tedesca, ritengo che la visione più chiarificatrice relativamente alla prima configurazione (1871-1945) sia quella elaborata da Ludwig Dehio (1), integrata dalle considerazioni di Luigi Einaudi (2) e di Altiero Spinelli (3).

Presento qui sinteticamente questa visione, precisando in via preliminare che la ricerca delle cause oggettive che stanno alla base della questione tedesca non significa giustificare le tendenze autoritarie-totalitarie-imperialistiche ed i crimini interni e internazionali che le hanno accompagnate. In realtà si intende chiarire come queste cause hanno favorito in modo decisivo il prevalere di tali tendenze contro le tendenze liberaldemocratiche e contrarie ad una linea imperialista autodistruttiva presenti nell’esperienza prussiano-tedesca. Senza questo chiarimento non si può capire adeguatamente la questione tedesca e si finisce per cadere nella inconsistente teoria dei caratteri nazionali che sbocca nell’idea assurda dell’anima demoniaca della nazione tedesca (4).

Ciò detto, richiamo l’attenzione sui tre pilastri fondamentali della visione di Dehio.

Il primo è il discorso relativo al legame esistente fra la posizione della Prussia e quindi della Germania nel sistema degli stati e il carattere autoritario (sboccato infine nel totalitarismo) del suo sistema politico. Dehio si riallaccia alla teoria imperniata sulla distinzione (che caratterizza l’esperienza europea e nordamericana) fra potenze insulari e potenze continentali sviluppata da Alexander Hamilton nel saggio ottavo del Federalist (5), dalla scuola rankiana (6) e da John Robert Seeley (7). Gli stati insulari (esempi fondamentali: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti) godendo di una posizione strategica privilegiata per l’assenza di minacce provenienti da potenti vicini sono stati storicamente caratterizzati da una politica estera relativamente più pacifica e da una evoluzione interna in direzione di strutture politico-costituzionali e sociali liberali, elastiche e decentrate, mentre gli stati continentali (quali la Prussia-Germania, l’Austria e in minor misura la Francia) sono stati caratterizzati al contrario da una politica estera relativamente più aggressiva e bellicosa e, correlativamente, dalla tendenza all’accentramento autoritario al loro interno. Questa differenza è legata in ultima analisi all’influenza determinante della politica estera su quella interna. Negli stati continentali l’esigenza di sicurezza caratterizzata dalla necessità di difendere confini terrestri contro il pericolo di un attacco per via di terra ha imposto un orientamento tendenzialmente più offensivo (che cerca non di rado di prevenire l’avversario con l’attacco di sorpresa) e determinato la formazione di enormi apparati militari impiegabili con la massima rapidità possibile e, quindi, reso inevitabile l’affermarsi per la propria sopravvivenza di strutture politiche accentrate ed autoritarie in grado di realizzare una mobilitazione rapida e completa a fini difensivi e offensivi di tutte le energie disponibili. Tutte queste servitù hanno invece pesato nettamente meno sugli stati insulari, data la loro favorevole posizione strategica e la connessa possibilità di una difesa assicurata essenzialmente dalla flotta da guerra, evitando la costosa, in termini economici ma soprattutto politico-sociali, creazione degli enormi eserciti di terra degli stati continentali e dei connessi apparati burocratici accentrati, implicanti fatalmente il rafforzamento del momento dell’autorità rispetto a quello della libertà nella vita dello stato. In questo contesto la Prussia-Germania appare come lo stato continentale per eccellenza, circondata da potenti vicini e ossessionata dalla oggettiva prospettiva della guerra su più fronti. Ed è perciò comprensibile che le tendenze liberaldemocratiche abbiano avuto le comparativamente minori possibilità di affermarsi in confronto con le altre grandi potenze europee (8).

Il secondo pilastro della analisi strutturale proposta da Dehio della questione tedesca è rappresentato dal discorso sulla posizione di semiegemonia in Europa in cui la Germania si è venuta a trovare in seguito all’unificazione nazionale del 1871. In sostanza la Germania raggiunse una dimensione di eccessiva potenza, e quindi incompatibile con uno stabile equilibrio di potenza in Europa, ma d’altra parte non era abbastanza potente per realizzare una stabile e pacifica egemonia. Questa situazione strutturale era destinata a spingere le altre potenze europee a formare delle coalizioni per bilanciare il peso tedesco. Ciò a sua volta non poteva non far nascere in Germania il timore nei confronti delle coalizioni delle altre potenze (l’incubo delle coalizioni e, quindi, dell’accerchiamento) che spingeva a misure per proteggersi da esse. Ma queste misure inevitabilmente minacciavano le altre potenze e quindi acceleravano la formazione della coalizioni. Questa dialettica strutturale – esempio classico del dilemma della sicurezza – ebbe un’impennata decisiva allorché la Germania negli anni ’90 del XIX secolo avviò la Weltpolitik, cioè la partecipazione senza più le remore che aveva avuto Bismarck alla gara imperialistica. L’obiettivo era quello di costituire un grande impero coloniale e di raggiungere in tal modo dimensioni corrispondenti a quelle delle grandi potenze mondiali (Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti) e di ottenere quindi lo spazio vitale di sviluppo indispensabile per diventare un polo dell’equilibrio mondiale che si stava formando. Lo strumento fondamentale della Weltpolitik fu la costruzione di una potente flotta d’alto mare che doveva essere in grado di superare l’egemonia navale mondiale britannica. Essendo il primato navale la fondamentale garanzia della sicurezza britannica, la decisione tedesca costrinse Londra, oltre che a rafforzare la sua marina, a schierarsi con la duplice alleanza franco-russa, che divenne la triplice intesa contrapposta alla triplice alleanza, i cui pilastri stabili erano la Germania e l’Impero austro-ungarico, data la relativa debolezza dell’Italia e la sua incerta posizione. L’equilibrio europeo assunse pertanto una configurazione bipolare, il che rese inevitabile il passaggio da un grave conflitto fra due potenze appartenenti ai blocchi contrapposti (nel caso l’Austria-Ungheria e la Russia) a un conflitto generale. Dehio ritiene dunque che nella genesi della prima guerra mondiale il fattore decisivo non sia rappresentato da errori di calcolo o colpe dei protagonisti (in particolare della Germania), bensì da una causa sistemica, cioè dalla posizione tedesca di semiegemonia con il connesso oggettivo sviluppo verso il bipolarismo. Proprio per superare la estremamente difficile e instabile posizione di semiegemonia, la Germania ha perseguito, una volta scoppiata la guerra, l’obiettivo dell’egemonia sull’Europa, cioè il superamento dell’equilibrio delle potenze in Europa che implicava il costante pericolo dell’accerchiamento e bloccava la prospettiva di diventare una potenza mondiale.

In seguito alla sconfitta del 1918 la potenza tedesca subì importanti limitazioni a causa della perdita delle colonie, di vasti territori in Europa, di importanti sbocchi economici e a causa di pesanti limitazioni negli armamenti e del peso delle riparazioni di guerra imposti dal Trattato di Versailles. Ma la configurazione di base dell’Europa rimase invariata. In una situazione in cui la pace continuava a dipendere dalla balance of power – anche a causa dell’inconsistenza del tentativo di sostituire la politica di potenza con il sistema di sicurezza collettivo fondato sulla Società delle Nazioni, priva di un proprio potere coercitivo – la Germania si trovò di fatto ad essere in termini relativi più potente di prima, dal momento che gli altri imperi erano collassati, la Francia era esaurita per l’enorme sforzo bellico e pure la Gran Bretagna fortemente indebolita. In questo quadro di equilibrio instabile e di generale decadenza economica dell’Europa la Germania di Weimar perseguì l’obiettivo di recuperare la sovranità limitata da Versailles, di ottenere la parità formale con le altre potenze, di recuperare i territori perduti a vantaggio della Polonia. Questo obiettivo, condiviso dalla grandissima maggioranza delle forze politiche tedesche, fu perseguito cercando di sfruttare le divergenze fra le potenze occidentali e la tensione fra queste e l’Unione Sovietica ma con modalità diplomatiche e pacifiche, anche se era un dato di fatto che il revisionismo avrebbe portato ad uno squilibrio nel sistema europeo ancora più acuto di quello prebellico. La situazione cambiò in conseguenza della crisi del 1929, che ebbe conseguenze disastrose in Europa e in particolare in Germania, in cui si restrinsero fortemente le prospettive di sviluppo economico, già indebolite in seguito alla sconfitta del 1918. In questo quadro giunse al potere il partito nazista e poté costruire uno stato totalitario avente come obiettivo della propria politica estera non solo il revisionismo rispetto alla sistemazione di Versailles ma il perseguimento consequenziario e con i mezzi più brutali dell’egemonia sull’Europa, in modo da superare definitivamente la condizione di semiegemonia. La guerra scatenata da Hitler con questo disegno si concluse invece con la sconfitta definitiva della Germania e nello stesso tempo con il superamento della centralità del sistema europeo degli stati ed il suo assorbimento nel sistema mondiale dominato da USA e URSS.

La terza fondamentale chiarificazione proposta da Dehio è il discorso, che non è alternativo alla tesi della semiegemonia, ma rafforza nettamente la sua capacità esplicativa come filo conduttore dell’epoca delle guerre mondiali. In sostanza secondo Dehio la giustificazione della politica guglielmina con l’esigenza di ampliare lo spazio statale e quindi economico tedesco in una situazione in cui lo sviluppo industriale apriva il futuro al dominio su scala mondiale degli stati di dimensioni continentali era una risposta a un problema reale. Esso era costituito dalla crisi storica degli stati nazionali europei, le cui dimensioni erano davvero strutturalmente superate nel contesto dell’avanzata rivoluzione industriale che richiedeva effettivamente dimensioni statali continentali. Di fronte a questa sfida si poneva una alternativa drastica: o l’unificazione europea pacifica e federale (che a partire dalla fine del XIX secolo comincia faticosamente ad emergere nel dibattito politico-culturale), o l’ampliamento delle dimensioni statali su base imperialistica. Proprio perché in tutte le classi dirigenti delle potenze europee non c’era ancora alcuna disponibilità in direzione della prima scelta, prevalse la scelta imperiale che si sviluppò logicamente in disegno egemonico europeo da parte del più forte stato nazionale europeo che partiva da una posizione semiegemonica.

La spinta egemonica tedesca che si manifesta con le guerre mondiali rientra nella continuità dei tentativi egemonici che nel corso della storia moderna hanno perseguito i più forti stati continentali europei nel momento in cui sono giunti all’apice della loro potenza, prima la Spagna, poi la Francia e infine la Germania. Nel caso della Germania il dato nuovo è il tentativo egemonico come risposta imperiale (con la “spada di satana” come ha detto Einaudi) alla crisi storica degli stati nazionali europei, il cui fallimento ha coinciso con il crollo della potenza degli stati nazionali e con l’apertura di una nuova fase storica, il cui filo conduttore è rappresentato dalla spinta all’unificazione pacifica dell’Europa (con la “spada di Dio”) (9). Con ciò veniamo alla analisi della evoluzione tedesca dopo il 1945 e del riemergere in questo contesto della questione tedesca. Propongo qui sinteticamente la visione della scuola federalista avente come suo maestro Mario Albertini (10).

L’evoluzione tedesca dopo il 1945 si articola in questa visione in due fasi: la fase dal 1945 alla riunificazione nazionale del 1990 e la fase successiva alla riunificazione. La prima fase ha come filo conduttore il superamento nella Germania di Bonn del nazionalismo. E qui vanno sottolineati due aspetti fondamentali.

Anzitutto, nel contesto dell’esaurimento storico della potenza tedesca (un fenomeno che coinvolge in sostanza tutti gli stati nazionali europei e quindi anche quelli usciti formalmente vincitori dalla seconda guerra mondiale) e della connessa stabile egemonia degli Stati Uniti sull’Europa occidentale, viene sradicata la tendenza espansionistica e, quindi, all’uso della potenza militare come strumento decisivo per ottenere la sicurezza e lo sviluppo economico. Queste esigenze vengono perseguite attraverso lo stabile inquadramento nella Comunità Atlantica a guida americana e nel processo di integrazione europea, che vengono considerate come le basi insostituibili per la realizzazione della riunificazione nazionale. L’impiego delle forze militari tedesco-occidentali, che vengono ricostituite dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa con forti limitazioni degli armamenti e soprattutto inquadrate strettamente nella NATO, è consentito, su base costituzionale (un limite che verrà superato alla fine degli anni ’90), solo nell’area europea per la difesa della Comunità Atlantica. In sostanza il modello a cui tende ad ispirarsi la Germania occidentale è quello della “potenza civile”, che non significa soltanto potenza commerciale contrapposta a potenza militare, ma stato la cui politica estera ha come obiettivo fondamentale il superamento della politica di potenza (la sicurezza fondata essenzialmente sulla forza militare nazionale), cioè la realizzazione di un monopolio multilaterale dell’uso della forza analogo al monopolio dell’uso della forza nel contesto domestico, in altre parole la pace in senso kantiano (11).

L’altro aspetto fondamentale del nazionalismo tedesco che, in collegamento con l’inquadramento nella Comunità Atlantica e nell’integrazione europea, viene radicalmente superato nell’esperienza dalla Germania di Bonn è l’opposizione ai valori liberaldemocratici occidentali, il Sonderweg. Qui si realizza quella che Einrich August Winkler definisce la lunga marcia verso l’occidente, la quale trova la sua conclusione con la riunificazione nazionale (12). La Germania occidentale diventa uno dei più avanzati stati liberaldemocratici del mondo, anche per la struttura federale interna e per il sistema dell’economia sociale di mercato. In collegamento con l’occidentalizzazione (la Westbindung), in cui si inquadra la sua europeizzazione (la scelta in direzione della “Germania europea” in contrapposizione alla scelta in direzione della “Europa tedesca”) si manifesta la condanna sempre più sistematica e coinvolgente del passato autoritario e ancor più di quello totalitario, con il riconoscimento dei suoi crimini spaventosi. La Germania occidentale è il paese che, esprimendo un forte senso di colpevolezza storica, ha fatto più di tutti i conti con il passato. La sua identità si è venuta fondando proprio sulla condanna radicale dei crimini commessi dal nazionalismo specialmente nella sua fase finale totalitaria. Si parla in effetti di un’identità tedesca fondata sull’orrore per Auschwitz (Auschwitz Identität).

Se la questione tedesca appare superata nell’esperienza della Germania di Bonn (la cui conclusione con la riunificazione nazionale è addirittura percepita, sulla scia di Winkler, come l’equivalente tedesco dell’idea di Francis Fukuyama della “fine della storia”), successivamente agli avvenimenti del 1989-1990, che hanno introdotto un mutamento geopolitico drammatico come quello del 1871, la situazione cambia in modo evidente. Nel nuovo quadro internazionale l’evoluzione tedesca dalla riunificazione nazionale fino ad oggi è in effetti caratterizzata dal progressivo riemergere della questione tedesca con un crescendo che ha la sua manifestazione più netta negli anni della crisi europea iniziata nel 2010.

Il dato più evidente è costituito dal ripresentarsi di una situazione di semiegemonia tedesca, con caratteristiche diverse rispetto a quella precedente il 1945, e cioè non geopolitiche – gli stati nazionali europei hanno perso definitivamente il ruolo di grandi potenze – bensì geoeconomiche. In sostanza nel quadro dell’integrazione europea la Germania è diventata troppo grande sul piano economico per stare alla pari con i suoi vicini ai quali tende perciò a imporre le sue posizioni circa il governo dell’economia europea e le modalità con cui affrontare la crisi. D’altra parte, è troppo piccola per assumere un ruolo di egemonia piena con tutti i costi che ciò comporterebbe. In altri termini si è prodotto un profondo squilibrio rispetto ai partner, ma c’è il rifiuto di assumersi gli oneri per rilanciare le loro economie. Questi dovrebbero consistere in misure per ridurre i surplus commerciali e nel contributo decisivo al lancio di un New Deal per le economie indebitate dell’Europa. Questo approccio è per contro sistematicamente rifiutato e al suo posto c’è la monocorde insistenza sulla austerità, la quale rende più difficile il ritorno alla crescita per i paesi periferici, acutizza il loro squilibrio rispetto alla Germania e impedisce di affrontare in modo adeguato la crisi. La conseguenza più generale e preoccupante della posizione tedesca nel quadro dell’integrazione europea è una crescente instabilità, che si manifesta nel riemergere dei nazionalismi e anche nella tendenza alle coalizioni che cercano di limitare la preponderanza tedesca. Non si tratta certamente di coalizioni diplomatico-militari implicanti la prospettiva di conflitti (inconcepibili, come si è già detto, fra gli stati nazionali europei che hanno cessato in modo irreversibile di essere potenze autonome), ma si sta comunque sviluppando una instabilità che mette a serio rischio l’integrazione europea.

Ciò detto, il contributo più importante della visione che qui presento della questione tedesca nella sua configurazione dopo la seconda guerra mondiale e in particolare dopo la riunificazione nazionale e il collegamento della posizione semiegemonica tedesca nel quadro dell’integrazione europea alla questione dell’incompletezza di questo processo.

Da una parte, l’integrazione europea – come risposta alla crisi storica degli stati nazionali europei che nella fase in cui essi erano grandi potenze è stata la causa di fondo dell’imperialismo egemonico tedesco – ha costituito il quadro decisivo del superamento della questione tedesca emersa nel periodo 1871-1945. Sono stati certamente importantissimi il crollo della potenza degli stati nazionali e la conseguente egemonia americana che hanno sradicato i rapporti di potenza fra gli stati europei, aprendo la strada alla loro cooperazione pacifica duratura. Però in questo contesto l’integrazione europea, favorita nel suo avvio dal Piano Marshall che subordinò un aiuto vitale al superamento delle chiusure nazionali, è stata determinante in quanto via al superamento pacifico delle asfittiche dimensioni economiche degli stati nazionali. Questi hanno potuto così perseguire il loro sviluppo economico, e quindi il recupero del ritardo rispetto agli Stati Uniti, tramite la pacifica costruzione di un sistema economico di dimensioni continentali invece che attraverso la ricerca imperialistica degli spazi vitali. Il progresso economico (e conseguentemente sociale) non più bloccato dai protezionismi nazionali, assieme al superamento della politica di potenza (la guerra è diventata praticamente impossibile fra gli stati nazionali europei) è stato il fattore decisivo del progresso democratico generale in Europa, che, nel caso della Germania, ha significato la sua occidentalizzazione nel senso del superamento delle radicate tendenze autoritarie. In ogni caso, l’integrazione europea è incompleta dal momento che non è ancora giunta ad una piena federalizzazione ed è qui la causa di fondo degli squilibri fra paesi forti e paesi deboli e, in particolare, fra la Germania e i suoi partner. In effetti questo squilibrio è legato al mancato passaggio da un’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi, di cui è una componente essenziale l’unificazione monetaria in quanto elimina il protezionismo legato alla fluttuazione dei cambi) a una integrazione economica positiva (cioè forti politiche di coesione economica, sociale e territoriale, in modo da poter affrontare gli squilibri inevitabilmente prodotti dal mercato non adeguatamente governato). L’aver integrato economicamente paesi con forti differenziali di crescita, di produttività e di efficienza senza introdurre una strutturale solidarietà (che con i cosiddetti fondi strutturali ha un carattere appena embrionale) non poteva non produrre, pur nel quadro di una crescita complessiva dell’economia europea, i gravi squilibri che conosciamo e che sono all’origine della precarietà dell’euro e del diffondersi delle tendenze nazionalistiche (13). Se ciò è chiaro, deve essere altresì chiaro che l’integrazione economica positiva, e quindi una organica solidarietà fra paesi forti e deboli richiede un sistema istituzionale sopranazionale efficiente (e quindi implicante l’eliminazione senza residui dei diritti di veto nazionali) e democraticamente legittimo (le istituzioni sopranazionali devono fondarsi sul consenso dei cittadini europei raccolto contestualmente nei paesi forti ed in quelli deboli) (14).

Ciò significa una scelta federale in senso pieno, la quale è dunque la condizione per salvare l’integrazione europea e nello stesso tempo il quadro in cui si supera la questione, gravida di pericoli, del rapporto fra la Germania e suoi partner europei. Se in effetti si apre una concreta prospettiva di sviluppo economico armonico che coinvolga l’insieme dei paesi europei, sono destinate ad essere superate le preoccupazioni suscitate dalla posizione economicamente dominante della Germania. D’altra parte, il passaggio da un sistema prevalentemente confederale (qual è quello attuale dell’UE) ad uno federale è destinato a relativizzare gli squilibri politici legati alle dimensioni demografiche (la Germania non ha nessuna colpa se è il paese più popoloso dell’UE), dal momento che si deciderebbe inderogabilmente a maggioranza e quindi senza veti nazionali, sia pure con le ponderazioni proprie dei meccanismi federali. Va anche sottolineato che la piena federalizzazione, che deve ovviamente comprendere una politica estera, di sicurezza e di difesa unica, comporterebbe anche l’introduzione, oltre alla solidarietà economico-sociale, di una organica solidarietà fra i membri dell’UE relativamente alle questioni della sicurezza. Ciò porterebbe al superamento degli atteggiamenti opportunistici consistenti nell’essere più consumatori che produttori di sicurezza, il che è un fenomeno diffuso nell’ambito dell’UE e riguarda anche la Germania.

Se il problema è quello della federazione, la difficoltà è rappresentata dalla resistenza strutturale dei governi nazionali ai trasferimenti di sovranità, pur essendo essi d’altro canto costretti dalla situazione storica di impotenza in cui si trovano gli stati nazionali a portare avanti una politica di integrazione europea. In questo contesto si deve rilevare che fra i grandi stati europei la Germania è quello che si è dimostrato relativamente più disponibile rispetto a una consequenziaria scelta federale. Certamente tende a frenare un sistema di organica solidarietà da realizzarsi in un quadro intergovernativo, cioè al di fuori di un vero sistema federale fondato su decisioni democratiche a maggioranza. E ciò è comprensibile perché nel sistema intergovernativo i governanti nazionali, dei quali è richiesto l’accordo unanime per realizzare una politica economica europea implicante la solidarietà dei più forti rispetto ai più deboli, sono responsabili di fronte agli elettori nazionali e non agli elettori europei (si pensi a cosa avverrebbe se le politiche economiche a livello nazionale dovessero essere decise da un consiglio di presidenti di regioni decidenti all’unanimità!). La posizione dei responsabili politici tedeschi è in effetti contraria ad una “unione dei trasferimenti”, ma è anche stata generalmente integrata – anche se meno chiaramente negli ultimi tempi - dalla affermazione secondo cui i trasferimenti di risorse devono essere collegati ai trasferimenti di competenze, in altre parole a un sistema federale. La questione di fondo da risolvere è d’altra parte il superamento dall’atteggiamento recalcitrante rispetto a una chiara scelta federale da parte del partner europeo più importante della Germania e cioè della Francia, caratterizzato dall’insistenza sulla solidarietà sul piano economico-sociale, e anche su quello della sicurezza, ma accompagnata da residui di sovranismo di stampo gollista.

A partire dall’avvento di Macron alla presidenza della repubblica è però emerso un significativo cambiamento in direzione federalista europea da parte della politica francese che comprende anche l’indicazione di importanza strategica di procedere con il metodo dell’avanguardia, in modo da non farsi frenare dalle tendenze nazionalistiche alimentate dai limiti del processo incompleto di unificazione europea. Come afferma nel modo più autorevole Habermas, la Germania è chiamata a dare una forte e coerente risposta positiva alla posizione francese (15). E questa sarebbe la risposta più valida ed efficace alle preoccupazioni relative alla questione tedesca oggi.

N O T E

(1) I testi fondamentali di Dehio a cui fare riferimento sono: Equilibro o egemonia (1948), ultima ed. it. Bologna, Il Mulino, 1988; La Germania e la politica mondiale del XX secolo (1955), ed. it. Milano, Comunità, 1962. Per una ricostruzione complessiva dell’opera di Dehio si veda Sergio Pistone, Ludwig Dehio, Napoli, Guida, 1977. L’analisi di Dehio della questione tedesca viene ripresa da Hans Kundnani, The Paradox of German Power, London, Hurst Company, 2014, il quale, realizza una ricostruzione sintetica e di buon livello del rapporto fra Germania ed Europa dall’epoca dell’unificazione nazionale fino al 2014. Non coglie però due punti essenziali dell’analisi di Dehio e cioè il discorso sulla differenza fra stati continentali e stati insulari e quello sulla crisi storica degli stati nazionali europei. Per quanto riguarda la Germania dopo il 1945 non coglie il nesso fra la questione tedesca e il carattere incompleto dell’unificazione europea. Rimando alla mia recensione del libro di Kundnani, in “Il Federalista”, 2015, n. 1-2.

(2) Si veda Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, a cura di Giovanni Vigo, Bologna, Il Mulino, 1986.

(3) Si vedano di Altiero Spinelli in particolare, Il progetto europeo, a cura di Mario Albertini, Bologna, Il Mulino, 1985; L’Europa tra Ovest e Est, a cura di Cesare Merlini, Bologna, Il Mulino, 1990; La crisi degli stati nazionali, a cura di Lucio Levi, Bologna, Il Mulino, 1991. Inoltre Piero S. Graglia, Altiero Spinelli, Bologna, Il Mulino, 2008.

(4) Si vedano Sergio Pistone, La Germania e l’unità europea, Napoli, Guida, 1978; Id., Bolscevismo, nazionalsocialismo e crisi dello stato nazionale in “Il Federalista”, 1988, n. 3; Francesco Rossolillo, La Germania e il “passato che non vuol passare”, in “Il Federalista”, 1999, n. 3.

(5) Cfr. l’edizione curata da Lucio Levi di Alexander Hamilton, John Jay, James Madison, Il Federalista, Bologna, Il Mulino, 1997.

(6) Rimando a: Sergio Pistone, Friedrich. Meinecke e la crisi dello stato nazionale tedesco, Giappichelli, Torino, 1969, e id. (a cura di), Politica di potenza e imperialismo. L’analisi dell’imperialismo alla luce della dottrina della ragion di stato, Milano, Franco Angeli 1973.

(7) Cfr. John Robert Seeley, L’espansione dell’Inghilterra (1883), ed. it. Bari, Laterza, 1928. Vedi anche Luigi Vittorio Majocchi, John Robert Seeley, in “Il Federalista”, 1989, n. 2, pp. 164-195.

(8) Sono significative in proposito l’affermazione di Seeley secondo cui “il grado di libertà politica di uno stato è inversamente proporzionale alla pressione politico-militare che grava sui suoi confini” e una considerazione di A.I.P. Taylor in Storia della Germania (1945), ed. it., Longanesi, Milano, 1961: “Se un cataclisma naturale avesse creato un vasto mare fra i tedeschi ed i francesi, il carattere tedesco non sarebbe stato dominato dal militarismo. Se (ipotesi più facilmente concepibile) i tedeschi fossero riusciti a sterminare gli slavi loro vicini, così come gli anglosassoni nel Nordamerica riuscirono a sterminare gli indiani, l’effetto sarebbe stato lo stesso che sugli americani: i tedeschi sarebbero diventati sostenitori dell’amore fraterno e della riconciliazione internazionale”.

(9) Nel discorso che Einaudi tenne nel 1947 all’Assemblea costituente per perorare la firma del trattato di pace indicò nel problema dell’unità europea come risposta alla crisi storica degli stati nazionali il filo conduttore delle guerre mondiali. Esse furono un tentativo di risolvere il problema su base imperialistico-egemonica (“con la spada di Satana”), dopo la sconfitta del quale doveva affermarsi la costruzione pacifica e democratica della federazione europea (“con la spada di Dio”). Cfr. in Luigi Einaudi, op. cit., il testo del discorso intitolato La guerra e l’unità europea.

(10) Di Mario Albertini si vedano in particolare: Il federalismo, ultima ed., Bologna, Il Mulino, 1997; Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, a cura di Nicoletta Mosconi, Bologna, Il Mulino, 1999; Nazionalismo e federalismo, a cura di Nicoletta Mosconi, Bologna, Il Mulino, 1999; Lo stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997. Si vedano inoltre: Lucio Levi, Il pensiero federalista, Bari, Laterza, 2002; Flavio Terranova, Il federalismo di Mario Albertini, Milano, Giuffrè, 2003. L’opera di Albertini è stata pubblicata integralmente in 9 volumi, a cura di Nicoletta Mosconi, Tutti gli scritti, Bologna, Il Mulino, 2006-2010. I fondamentali contributi sulla questione tedesca degli allievi di Albertini (Elio Cannillo, Alessandro Cavalli, Anna Costa, Alfonso Iozzo, Lucio Levi, Alberto Majocchi, Luigi Vittorio Majocchi, Nicoletta Mosconi, Giovanni Vigo,Sergio Pistone, Franco Spoltore, Mario Stoppino, Francesco Rossolillo, Giulia Rossolillo, Luisa Trumellini, Antonio Padoa Schioppa, Umberto Morelli, Roberto Castaldi) si trovano nella rivista “Il Federalista”, che è arrivata al LX anno ed è consultabile sul sito www.ilfederalista.eu.

(11) Sul concetto di “potenza civile” si veda in particolare Hanns W. Maull, Zivilmacht Bundesrepublik Deutschland. Vierzehn Thesen für eine neue deutsche Aussepolitik, in “Europa-Archiv, 1992, n. 32.

(12) L’opera fondamentale a cui si fa riferimento è Einrich August Winkler, Germany: The long Road West, 2 volumi, Oxford University Press, 2007.

(13) Si veda Sergio Pistone, L’affermazione nazionalpopulista in Italia, in “Il Laboratorio”, novembre 2018.

(14) Cfr. Sergio Pistone, Il dibattito in Germania su democrazia e unificazione europea: il confronto fra Habermas e Streeck, in “Il Federalista”, 2013, n. 2-3.

(15) Si veda il discorso pronunciato da Habermas il 4 luglio 2018 a Berlino (e pubblicato su “Le Monde” del 27 luglio) in occasione del ritiro del Grand Prix franco-allemand des medias 2018.

Fonte immagine: Wikipedia.

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