Albania e Macedonia del Nord: dentro o fuori l’Unione?

, di Michelangelo Roncella

Albania e Macedonia del Nord: dentro o fuori l'Unione?

Mentre, dentro e fuori l’Unione Europea stanno accadendo una serie di eventi tra la Brexit (che ormai dovrebbe essere alla fase di applicazione), le proteste in Catalogna, l’aggressività turca verso i curdi e le difficoltà della nascente Commissione Europea, il Consiglio Europeo del 17 e 18 ottobre ha sospeso i negoziati di adesione di Albania e Macedonia del Nord.

Prima di entrare nel merito, avvertiamo che qui non parleremo dei precedenti allargamenti, presenti in qualsiasi sito o libro sull’Unione Europea. Accenniamo giusto che dalla zona balcanica hanno aderito la Slovenia e la Croazia, rispettivamente nel 2004 e nel 2013.

La zona balcanica, negli ultimi due secoli, è stata contesa tra l’Impero Asburgico e l’Impero Ottomano, ha fatto gola alla Russia degli Zar per avere uno sbocco sul Mediterraneo. Nel primo dopoguerra, alcuni territori sono stati rivendicati anche dai nazionalisti italiani quali l’Istria, la Dalmazia e Fiume, per poi finire in buona parte nel blocco comunista con l’allora Jugoslavia titoista e l’Albania filomaoista. Con la caduta del muro di Berlino, si sgretolò anche la Jugoslavia e durante gli anni ‘90 i vari paesi ottennero l’indipendenza, alcuni dei quali ad altissimo prezzo con le prime guerre sul continente dopo il 1945. Contemporaneamente, la vicina Unione Europea, fresca di Maastricht, dimostrava i limiti della mancata integrazione politica, in particolare la politica estera in mano agli Stati: una grave lacuna che persiste tuttora (basti vedere, un po’ più a sud-est, la Turchia).

Passando alla sponda orientale dell’Adriatico, negli ultimi anni, Albania e Macedonia del Nord, ma anche Kosovo e Montenegro (che ha adottato in modo unilaterale l’euro), hanno attuato riforme dolorose nei delicati ambiti dello stato di diritto, della giustizia e della lotta alla corruzione, nella prospettiva di entrare nell’Unione (1).

Inoltre, l’Accordo di Prespa del giugno 2018 tra la Macedonia e la Grecia, che prevede il cambio di nome della prima, ha tolto il decennale veto ellenico. Sempre per entrare nell’Unione, una settimana prima del Consiglio Europeo, i governi di Tirana e Skopje hanno firmato con la Serbia una dichiarazione d’intenti per la creazione di una “mini-Schengen” da attuare entro il 2021 e aperta agli altri paesi della regione (2): oltre ad un segno di svolta, per Belgrado sarebbe un occasione di riscatto dai crimini di Milosevich.

La Commissione Europea, monitorando i progressi delle riforme necessarie, ha espresso nel maggio 2018 una raccomandazione al Consiglio Europeo in favore dell’apertura dei negoziati di adesione. Una decisione che è stata rimandata a giugno 2019 (3) e poi ad ottobre di quest’anno, ma ancora una volta c’è stato un altro rinvio con il veto della Francia, seguita da Danimarca, Paesi Bassi e Spagna (4).

Le ragioni per cui Macron ha bloccato l’avvio delle trattative sono di natura sia politica sia istituzionale.

Politicamente, l’attuale presidente francese teme il calo di consenso (necessario per realizzare l’obiettivo di riforma dell’Unione) che sarà testato alle elezioni locali di marzo 2020: infatti, i francesi non hanno mai visto di buon occhio la politica di allargamento, considerato come un sinonimo di immigrazione clandestina, portatrice, a detta di Marine Le Pen, di un “pericolo islamista”. Un timore che richiama l’immagine «dell’idraulico polacco» ai tempi del grande allargamento del 2004.

Sul versante istituzionale, ovviamente in riferimento all’Unione Europea, Parigi sostiene che la procedura di allargamento vada revisionata, così come l’attuale assetto comunitario, principale scopo del mandato presidenziale di Macron.

Tornando ai due paesi Balcanici, è evidente il senso di frustrazione e di disillusione.

Una reazione condivisa da molti Stati membri (Italia inclusa) (6) e degli stessi presidenti delle Istituzioni Europee Jean Claude Juncker, Donald Tusk, Ursula Von der Leyen e David Sassoli che hanno firmato una lettera congiunta in cui si chiedeva, entro il mese di ottobre, l’apertura dei negoziati, considerati un’occasione per l’Unione di testare la sua capacità di mantenere le promesse e di guardare al futuro (7).

La Macedonia del Nord, candidata dal 2004 con l’accordo di Salonicco, sulla questione del nome non solo ha faticato molto per trovare un accordo con la Grecia, ma ha avuto (e potrebbe averli poi) problemi di legittimità democratica sulla decisione con il referendum dello scorso autunno, boicottato in modo efficace dalle opposizioni (era richiesto il quorum), spingendo il premier Zoran Zaev a “forzare” le tappe avvertendo che avrebbe fatto anticipare le elezioni in caso di mancato appoggio alle riforme (7).

Invece l’Albania, candidata dal 2014 (8), ha dovuto fare grandi sforzi in tema di giustizia e lotta alla corruzione e alla criminalità. Eppure, su quegli stessi ambiti il paese continua ad essere bloccato da Olanda e Francia (9).

I veti di Parigi e i rimandi dei negoziati (e le conseguenti attese) rischiano di vanificare gli sforzi, portando conseguenze politiche intrecciate tra di loro: a) La diffusione di un sentimento di sfiducia verso l’Unione Europea (la cui credibilità politica è poca o inesistente) che potrebbe diffondersi in altri paesi della regione come Serbia e Kosovo che vedevano nella stessa Unione un riferimento e una futura casa. Le forze di opposizione, per ragioni di politica interna, sfrutteranno questo senso di frustrazione etichettando come “inutili” le riforme e usando messaggi che inneggiano all’identità “nazionale”. Praticamente è quella situazione che Macron vorrebbe evitare in patria a marzo del 2020: insomma si scambia un rischio populista/nazionalista per un altro.

b) Un’altra conseguenza è di tipo geopolitico: i paesi balcanici potrebbero essere esposti all’influenza di paesi più forti, aggressivi e con ambizioni regionali come la Russia, la Turchia e la Cina: è un esempio del concetto realista secondo cui dove c’è un vuoto di potere, qualcuno lo colma.

C) Il permanere di una forte instabilità politica e l’inasprimento delle tensioni anche tra gruppi etnici – i Balcani sono una delle regioni più delicate d’Europa – con le minoranze che temono di non essere protette, in contrasto con i valori fatti propri dall’Unione Europea con il Trattato di Lisbona.

Adesso, in Macedonia del Nord, le forze politiche di maggioranza e di opposizione si sono accordate nel convocare le elezioni anticipate ad aprile 2020, con un governo tecnico che sostituirà Zaev, le cui dimissioni sono previste a gennaio (10).

Per quanto riguarda l’Albania, il primo ministro Edi Rama non si dimetterà, bensì continuerà a seguire la linea filo-comunitaria e afferma che l’entrata nell’Unione è l’unica alternativa per il suo paese, sostenendo che il veto è dovuto alle problematiche interne dell’UE che dovrebbe rifondare se stessa e cambiare le procedure per il processo di integrazione (11). Questi sono gli stessi motivi secondo cui Macron ha posto il veto.

Questo aspetto, quindi, sembra giustificare la chiusura della Francia, la quale sostiene che un allargamento può complicare l’approfondimento, cioè l’integrazione politica dell’Unione (12). E su quel punto non avrebbe tutti i torti. In effetti bastano due dati per capire le conseguenze di ulteriori stalli decisionali:

il primo è la regola dell’unanimità, di cui questa faccenda è l’ennesimo esempio; il secondo è l’implicazione dell’entrata nell’UE, cioè la modifica della composizione delle principali istituzioni, dal numero degli eurodeputati ai membri della Commissione.

Su quest’ultimo particolare avere una Commissione che comprende quasi trenta membri (benché le decisioni non richiedano il voto unanime) potrebbe sembrare piuttosto pesante: già il Trattato di Lisbona, prima del “NO” dell’Irlanda nel 2008, prevedeva, la composizione di due terzi degli Stati Membri con un meccanismo di rotazione.

Siamo quindi arrivati al punto del dilemma: l’allargamento e l’approfondimento “possono correre parallele, ma non è semplice”. Et voilà, la France et ses amies n’ont plus de justification: perché i negoziati richiedono molto tempo (aggravato da questi rinvii), quindi i paesi candidati non entrano subito. E questi ultimi durante le trattative potrebbero continuare ad attuare le riforme, considerando anche che hanno già fatto alcuni passi avanti. E intanto, potenzialmente si potrebbe modificare l’attuale sistema politico dell’Unione Europea.

Può sembrare scontato, ma siccome la politica di allargamento è generalmente considerata uno strumento di politica estera dell’Unione Europea (la quale si relaziona con degli Stati sovrani), in un modello federale, questo spetterebbe al governo “centrale”, superando così il problema dell’unanimità. Inoltre le decisioni, in materia avrebbero legittimità più democratica con il Parlamento Europeo e (il punto più difficile) con un ruolo degli Stati Membri modificato (per non dire ridimensionato). E questo dovrebbe essere reso evidente ad ogni occasione di riforma istituzionale, come la Conferenza sul Futuro dell’Europa proposta da Macron.

Per concludere, la questione dell’allargamento è stata rimandata, ancora una volta, al prossimo Consiglio Europeo che si terrà a Zagabria, in Croazia nel maggio 2020 (13). C’è molta incertezza sulla vicenda e non solo per l’oggi con l’Albania e la Macedonia del Nord (e altri paesi balcanici) ancora “extra-comunitari”, ma anche per il domani: questi Stati infatti, attualmente volenterosi, non sono ancora democrazie “mature” e non si sa se in un futuro prossimo potrebbero agire come i paesi di Visegrad.


1 Akri Çipa, Failing to deliver on Albania and North Macedonia will haunt the EU, EURACTIV, 14 ottobre 2019.

2 Julija Simić, Three countries agree mini Schengen in the Balkans, EURACTIV, 11 ottobre 2019 e «Mini-Schengen» formato balcanico, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (www.balcanicaucaso.org), 14 ottobre 2019.

3 Ornaldo Gjergji, Albania e macedonia del Nord: apertura dei negoziati di adesione, www.balcanicaucaso.org, 11 ottobre 2019 e Ue, ok a negoziati adesione per Albania e Macedonia del Nord, Ansa Europa, 29 maggio 2019.

4 Romano Beda, Il “No” della Francia dietro la fumata nera sull’allargamento UE a Macedonia del Nord e Albania, Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 e Lucio Palmisano, L’Europa rinnega le sue promesse: bloccare Albania e Macedonia del Nord destabilizzerà i Balcani, Linkiesta, 19 ottobre 2019.

5 Francia blocca negoziati Ue con Albania e Macedonia del Nord, Ansa Europa, 17 ottobre 2019.

6 Joint letter by Presidents Tusk, Sassoli, Juncker and President-elect Von der Leyen on the opening of accession talks with North Macedonia and Albania, Consilium (www.consilium.europa.eu), 3 ottobre 2019.

7 Elena Zacchetti, Luca Misculin, Il giorno che la Macedonia non è entrata nell’Unione Europea, Il Post, 1 ottobre 2018.

8 Council conclusions on Albania, Consilium (www.consiulium.europa.eu) , 24 giugno 2014.

9 Albania e Macedonia nell’UE, negoziati al via a giugno 2019, 26 giugno 2018, Il Sole 24 Ore.

10 Maurizio Caprara, Macron lo stratega su Albania e Macedonia danneggia la Ue, Corriere della Sera, 20 ottobre 2019.

11 Macedonia del Nord: elezioni anticipate il 12 aprile 2020, Ansa Europa, 21 ottobre 2019.

12 L’UE chiude ai negoziati con l’Albania. Rama: proseguiremo il nostro percorso europeo, Albania news, 18 ottobre 2019.

13 Relazione e osservazioni conclusive del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sulle riunioni del Consiglio europeo del 17 e 18 ottobre 2019, Consilium (www.consilium.europa.eu), 22 ottobre 2019.

Fonte immagine: Rivista Europa.

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