Zona euro: niente contratto sociale senza Costituzione

, di Bernard Barthalay, Traduzione di Francesco Pigozzo, Ulrike Guérot

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Zona euro: niente contratto sociale senza Costituzione

Parigi brandisce gli euro-bonds (obbligazioni pubbliche europee emesse in euro) come un simbolo della solidarietà nella zona euro. Si tratta in sostanza di gestire insieme lo stock dei debiti nazionali sovrani esistenti e un nuovo debito europeo. Questa comunitarizzazione è perfettamente in linea con il metodo fondativo della Comunità Europea: trovare una soluzione comune a un problema comune. Il presidente francese ha ragione a concepirlo come un punto di partenza; come l’affermazione, nel momento della crisi, che gli europei della zona euro sono ormai una comunità di destino. Se siamo solidali nelle avversità, allora siamo un popolo, formiamo cioè un corpo politico che può dotarsi di una forma democratica di governo, aperta alla partecipazione di chi ci sta. La cancelliera Merkel lo concepisce invece come un punto d’arrivo: emettere euro-bonds implica l’esistenza di un soggetto emettitore. Nella pratica normale, le obbligazioni pubbliche sono titoli di Stato, buoni del Tesoro. Ma la zona Euro non è uno Stato, e non ha quindi un Tesoro. Prima di emettere debito, gli Stati che utilizzano l’Euro devono innanzitutto risanare le loro finanze pubbliche, poi fondare uno Stato aperto a chi ci sta, il cui Tesoro potrà infine emettere, se necessario, degli euro-bonds.

Queste due posizioni, entrambe logicamente inappuntabili, sono evidentemente inconciliabili. Tanto più che l’ambizione iniziale del processo è caduta ormai nel dimenticatoio da diversi lustri: «Noi non coalizziamo degli Stati, noi uniamo degli uomini», diceva Jean Monnet. A Parigi, come a Berlino, l’Europa è stata vissuta negli ultimi anni come un dispositivo capace di trarre d’impaccio gli ormai inadeguati Stati nazionali: preferibilmente il proprio Stato nazionale e non quello altrui. E in Francia, dopo la ricostruzione del sistema produttivo finanziata attraverso il Piano Marshall, l’affare di Stato fu la crescita economica, gestita dal «Commissariat du Plan»; dopo l’acquisizione dello statuto di potenza nucleare che ancora oggi è vissuta come l’«eccezione» francese, l’affare di Stato rimase la crescita, amplificata dall’apertura delle frontiere e coronata dall’«imperativo» industriale. Si può datare al trattato dell’Eliseo, nel 1963, il restringimento dell’orizzonte europeo della Francia al vicino tedesco, mentre la cosiddetta crisi della «sedia vuota» nel 1965 sancì la riduzione dell’integrazione europea a una cooperazione intergovernativa: non potendo ottenere una Francia allargata a spese della tutela americana sui paesi vicini, la Francia esagonale preferiva un direttorio franco-tedesco da lei condotto e capace di dominare una Europa degli Stati. Questa realtà rimasta stabile per un lungo periodo era in perfetto accordo con la visione franco-francese dell’Europa come affare di uno Stato, la Francia appunto, e di conseguenza come affare degli Stati, in netto contrasto con la visione che aveva prevalso dopo la sconfitta della Comunità Europea di Difesa (1954) e che prevale ancora nelle opinioni di molti, cioè la visione dell’Europa-mercato, che si sta mostrando in balìa dei mercati.

Nel frattempo, l’unità tedesca ha però cambiato le carte in tavola. Berlino ha dovuto indebitarsi a livelli cui non era abituata per poter finanziare i trasferimenti massicci verso i cinque nuovi Länder. Per far rientrare il deficit, fonte potenziale di inflazione, mantenendo al contempo un tasso di crescita sufficiente, Berlino è rimasta fedele alla sua politica tradizionale dell’eccedenza commerciale: la sua competitività di prezzo, diminuita, è stata recuperata diminuendo i salari reali. Nell’unione monetaria, dove non esiste più un tasso di cambio, questo equivale a una svalutazione. Per Berlino, l’unione monetaria senza unità politica - questa anomalia europea - è apparsa dunque, nel mezzo della crisi, un colpo di fortuna. Una volta acconsentito ai sacrifici interni necessari per recuperare competitività di prezzo, la Germania con bilancia commerciale in attivo, che beneficia di tassi di interesse bassi, ha potuto imporre gli stessi sacrifici - nel nome dell’autodisciplina di bilancio necessaria per far sopravvivere l’Euro - ai suoi partners, indebitati e schiacciati da tassi di interesse molto più elevati. Il risultato è stato un ulteriore stimolo alla crescita tedesca e un freno a quella degli altri, è stata la reificazione se non l’accentuazione degli squilibri industriali sul territorio della zona Euro: un modo insomma di far funzionare la moneta unica, cui non si affianca un bilancio europeo, come un formidabile strumento di protezione dell’economia tedesca. Questo atteggiamento mercantilista, che sostituisce con la concorrenza fiscale e sociale fra gli Stati la concorrenza leale fra le imprese in un mercato unificato, è una spaventosa ricetta di divisione. Senza unità politica, l’unione monetaria rompe il mercato interno, il quale a sua volta non poteva esistere senza la medesima unione monetaria, a meno di trasformarsi in una semplice zona di libero scambio - esito insignificante agli antipodi degli obiettivi di chi aveva ideato il mercato unico.

È in questa situazione di fatto in cui si trova lo spazio europeo privo di frontiere che la Germania si illude di poter imporre il proprio modello agli altri e di fare dell’Europa una Germania allargata, rovesciando a proprio beneficio il direttorio divenuto ormai germano-francese, credendo di trasformare l’Europa in una questione di mercato e con ciò stesso consegnandola in mano ai mercati, risuscitando infine dappertutto contro le libertà di circolazione la voce mortifera delle frontiere. È il culmine dell’approccio intergovernativo neoliberale. Tocca ripartire da capo.

Ci saranno voluti sessant’anni per chiudere il cerchio. Economica per difetto, l’Europa ritorna politica. Il metodo comunitario dell’integrazione graduale si scontra contro il proprio limite: l’unione monetaria non funziona senza unità politica. La ritirata verso il metodo intergovernativo ha inoltre dimostrato una volta per tutte, in questa crisi, la propria tragica inanità: l’Europa non è né affare degli Stati né affare dei mercati, e non è nemmeno affare di uno Stato che pretende di imporre il proprio modello. È affare, l’affare, degli Europei, almeno di quelli che abitano nella zona Euro, legati dalla moneta unica che i loro Stati hanno creato senza saperne trarre le conseguenze. È affare della loro libertà e della loro sicurezza, diritti riconosciuti a tutti gli Europei da quella Carta dei diritti fondamentali che i loro Stati, in un altro momento di inconseguenza, hanno concesso. Dalla crisi è nato un dovere preciso per questi Stati: riconoscere questa doppia inconseguenza e correggerla. Spinoza vedeva nella libertà e nella sicurezza degli uomini le due ragioni d’essere dello Stato. L’unione di uomini, cittadini di diversi Stati, implica la creazione di uno Stato, che è al contempo il loro Stato e lo Stato dei loro Stati: è una cosa semplice per la quale esiste un nome ben preciso, si chiama Stato federale.

Unione monetaria, unione bancaria, unione di bilancio, unione fiscale: nulla di tutto ciò può esistere senza Stato. Agli Europei che non vorrebbero pagarne il prezzo oggi, che hanno la fobia dei trasferimenti di ricchezza o di potere, dobbiamo dire con chiarezza che questo prezzo lo pagheranno comunque e ben presto, così come faranno poi i loro figli e nipoti. Pagheranno la loro mancanza di senso della realtà circa l’attuale situazione dell’Europa e del mondo: e la pagheranno con la loro libertà, nella violenza civile legata al ritorno degli estremismi e delle frontiere, e con la loro sicurezza, nella disoccupazione, nello spreco delle forze giovani e nella miseria degli anziani, il precariato per tutti, la deflazione, il declassamento, il declino.

Sì, gli euro-bonds sono un punto di partenza! Che lo siano per diminuire il peso del debito, per riassorbire i grandi squilibri territoriali della zona euro e più in generale dell’intero continente, per finanziare investimenti nello sviluppo sostenibile, per garantire i depositi o consolidare le nostre banche… l’unione monetaria non sarà comunque mai compiuta, l’unione bancaria, quella di bilancio o quella fiscale non nasceranno mai se non si crea un nuovo potere, limitato ma effettivo, indipendente dai poteri degli Stati. Gli euro-bonds, a dispetto dell’apparente tecnicismo finanziario, sarebbero allora un legame (bond), un simbolo forte di grande solidarietà fra gli Europei, come la moneta e per salvare la moneta, il compimento d’una esperienza unica che da più di sessant’anni li unisce nella pace; il simbolo di un contratto sociale europeo.

Sì, gli euro-bonds sono un punto di arrivo! Perché questo contratto sociale non potrà esistere e durare senza contratto politico, senza Costituzione. Il 28 giugno, Angela Merkel e François Hollande hanno la possibilità di mettere fine in modo semplice alla loro opposizione, ammettendo che il contratto sociale ha bisogno di un contratto politico e viceversa. Il contratto sociale riguarda alcune decisioni che tutti i capi di Stato e di governo della zona Euro, più quelli che vorranno unirsi a loro, possono prendere quel giorno stesso e mettere in opera nel giro di una settimana. Queste decisioni da sole, senza bisogno di effetti d’annuncio e di ostentazioni eccessive di autocompiacimento, sono capaci di sottrarre in modo duraturo l’Europa alle minacce di depressione che vanno moltiplicandosi in questi giorni, a patto che si tratti di decisioni coerenti e complete in aperta rottura con il rimandismo dei passati vertici. La promessa del contratto politico, dal canto suo, sarebbe la garanzia della legittimità democratica di queste decisioni (no taxation without representation), persino agli occhi del Bundestag e del Tribunale Costituzionale tedesco, a patto di essere sancita con un impegno solenne, corroborato da un calendario rigoroso che non è affatto difficile immaginare.

Sì, il 28 giugno o al massimo poche settimane dopo: euro-bonds e impegno Costituente, o la fine. Vita o morte per l’Europa.

L’articolo è stato pubblicato in francese da LeCercleLesEchos.fr

Immagine: Angela Merkel e François Hollande. Fonte: Flickr

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