Per comprendere a fondo la situazione, è opportuno fare un’analisi anzitutto storica di cosa sono le politiche sociali europee, o meglio, in Europa. Dalla fine della seconda guerra mondiale si è avuta la realizzazione nell’Europa continentale di un modello sociale profondamente diverso da quello degli Stati Uniti d’America, almeno quello dei governi repubblicani. Un modello sociale che con il Piano Marshall furono proprio gli States a contribuire a fondare ed a realizzare.
Nell’Europa post-WWII bisognava dare risposta alle necessità dei cittadini che sin da prima del conflitto essi avvertivano. In generale: un’istruzione su larga scala, la garanzia di una casa, un servizio sanitario accessibile a tutti, un lavoro. Il contrasto tra governi e categorie sociali dette vita nei diversi stati a differenti modelli di stato sociale, e l’amministrazione europea si è posta, sin da allora, verso questa tematica in maniera piuttosto discontinua e non sempre adeguata. In questo contesto risultò vincente il modello CECA, che se ne occupò nei suoi primi anni di vita, tentando il concerto tra lavoratori ed imprese, nel periodo della Cold War, tentando di avvicinare esigenze monetarie, fiscali, e politiche, a quelle dettate dalle condizioni storiche, dai rapporti con gli Stati Uniti, e da quello che era
...nell’Europa post-WWII dare una risposta alle necessità dei cittadini usciti dalla guerra...
l’approccio dei sindacati, per la maggior parte decisamente troppo vicini ai vari partiti comunisti nazionali. In sostanza la politica sociale realizzata dalla CECA è stata quella di rispondere ai problemi sociali da essa stessa creati, nella riorganizzazione dell’industria estrattiva e carbon-siderurgica di cui ad essa era stata demandata la tutela. Il mezzo utilizzato fu il più comune: l’impiego di fondi al fine di tutelare i lavoratori e le industrie stesse. Le successive comunità non si impegnarono nel medesimo modo, principalmente perché dei loro 6 firmatari, solo l’Italia premeva per un interesse europeo nella questione; attenzione dovuta soprattutto ai forti squilibri regionali ch’essa viveva al suo interno. Questo significò un forte impulso alla libera circolazione della manodopera, il profondo interesse alla tutela dei diritti dei lavoratori nei paesi di destino, misure per combattere la disoccupazione dilagante e dare speranza ai lavoratori, piani di formazione e preparazione professionali, per cui si lavorò a lungo per l’inclusione nei Trattati di Roma.
Alla fine degli anni 60 i problemi che la Comunità europea si trova sostanzialmente ad affrontare sono nuovamente il ricollocamento dei disoccupati, la questione dei migranti, la formazione. Importantissima, ma spesso dimenticata innovazione dei Trattati di Roma, progressivamente svuotata delle reali opportunità ch’essa poteva dare fu il Comitato Economico Sociale. Quando gli imprenditori e le loro associazioni capiscono la possibilità di altri canali per far passare la loro voce, esso viene abbandonato, sostanzialmente alla mera partecipazione dei sindacati. È inoltre da osservare come sia d’altronde lo stesso funzionamento del CES a far sì che questo velocemente si eclissi: pareri restati inascoltati, raccomandazioni mandate troppo in ritardo, un po’ l’emblema di quello che le istituzioni europee non sono state per lunghi anni capaci di fare: sfruttare la loro posizione per farsi ascoltare. Ma sono gli anni 70 la vera svolta per il sociale in Europa. Cambia radicalmente la costruzione europea. La discriminante è il movimento del 1968. Fino a quegli anni sono la Politica Agricola Comune e la libera circolazione le uniche politiche unitarie e riconducibili al sociale su cui lavora la CEE. Sarà il Consiglio di Parigi del 1974 il primo a decidere che le politiche sociali devono rientrare tra le occupazioni della CEE. Le ambizioni sono forti, e per garantirle è fondamentale un’azione comunitaria.
Gli anni 70 sono anni di forte crisi (soprattutto per i giovani in cerca di primo impiego). L’obiettivo è risolvere la disoccupazione. Gli strumenti utilizzati sono i finanziamenti alla formazione professionale. A questo proposito nasce proprio il Centro Europeo di Formazione e Sviluppo Professionale. Comincia ad attrarre attenzione ma la realtà è sotto gli occhi di tutti. Per la realizzazione di politiche sociali adeguate e reali servono soldi. E questi non si vogliono trovare. Per questo la legiferazione principale avviene tramite procedimenti meramente normativi. È il caso delle pari opportunità, dei portatori di handicap, della costituzione del Dialogo Sociale Europeo (al cui interno nasce la Confederazione Europea dei Sindacati). Sono tutti procedimenti che in definitiva non costano soldi alle istituzioni europee e lasciano ampio spazio alla gestione nazionale, sollevando la Comunità da tutti i problemi. Solo dopo l’85 si ricomincerà a parlare nuovamente di politica sociale europea. È proprio il caso questo del Libro Bianco della Commissione Delors: “Il completamento del mercato interno”. È l’applicazione, parrebbe giusta, di una visione neoliberista, ma è palese come la proposta venga da persone che liberiste non sono (Mitterand, Kohl, Delors). Più che un modello sociale europeo unico però, sarebbe opportuno parlare di consigli che l’Unione manda agli stati nazionali. L’unico settore dove l’intervento europeo sembra sempre più reale è quello dell’occupazione, ma principalmente è l’aggiunta di risorse a programmi unilaterali già avviati dagli stati europei.
A questo punto sorge spontanea una questione: perché in un contesto in cui è difficile prevedere una reale politica europea, quale quello del sociale, non si è proceduto dalla base, cercando di fondare una reale società europea su cui poi agire per sviluppare la questione del sociale in maniera unita ed uniforme. Non dobbiamo però lasciarci distrarre da quelli che sono i reali raggiungimenti dell’Unione.
...il Welfare costa!...
Forse numericamente sono pochi, ma bisogna vederli alla luce di quello che è realmente stato il punto di partenza: un continente devastato dalla più grande guerra di tutti i secoli. Al giorno d’oggi sarebbe stupido nascondersi dietro un dito e non vedere la realtà delle cose: il welfare costa! Gli stati sociali sono nati in un momento in cui era possibile nascessero, e la riallocazione delle risorse, non sempre così semplice da affrontare, era alleggerita da una grande crescita, in una situazione di concorrenza globale relativamente molto scarsa. Alla luce di quello che succede oggi, il vero problema è dunque salvare quello che c’è, quello che resta: salvare, purtroppo, il salvabile.
La proposta tedesca in questo frangente va rapportata dunque al piano globale, in rapporto ai tempi che corrono. In un sistema economico globalizzato, la concorrenza è elevatissima, e le società più veloci e leggere (Cina ed India) possono competere maggiormente grazie a sistemi di welfare meno sviluppati e costi del lavoro minori. La rapida decrescita delle risorse odierne, non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa. Nell’Unione qual è stato il ruolo della Commissione e quale quello dei singoli stati? Essi rispondono sempre nel breve periodo, e la domanda è sempre la stessa. Chi paga per la crisi? Possiamo permetterci di continuare a spendere relativamente di più perché la nostra Unione è tutelata dall’euro, che ci fa da scudo? Ma se chi regge lo scudo in questione è debole, come pensare che esso continui a reggere? Palese diventa dunque il pericolo di un effetto domino per l’Europa ed il mondo, quando si raggiungerà quello che sarà l’ultimo punto di rottura.
L’unica funzione dell’euro è quella di difenderci? O serve qualcos’altro per lo sviluppo? Non dimentichiamo perciò lo strumento monetario. Gli americani giocano sul dollaro perché alle spalle hanno qualcuno che decide. La maggior integrazione europea dovrebbe farci capire che la moneta può essere usata come uno strumento,
...le funzioni dell’euro...
ma bisogna capire in che modo usarlo. E per poterlo usare c’è una sola maniera. Tornare alla parità della moneta con i valori reali, in quanto il problema, quest’oggi, sono le economie sostanziali, ed i governi che le reggono. Ciò non significa che l’euro sia stato gestito male. Anzi. Ma sostanzialmente la sua buona gestione è dovuta ad una BCE statuita sulla “responsabilità”, che ha affrontato bene la crisi, ma che rimane caracollante perché al suo fianco non trova il supporto di un governo unito, che agisca seriamente, supportandosi vicendevolmente, ma le singole ed autonome politiche di 27 stati.
L’economia europea, in questo contesto di crisi, chi la regge? E chi la reggerà in futuro? L’ipotesi di un’uscita dall’euro proposta da Zingales per la Grecia quanto è possibile? Creare divari sui divari? Ancora una volta la soluzione auspicabile è una
...Unirsi o perire!...
sola. Una reale politica fiscale ed economica per l’Unione europea, retta da un governo europeo che sappia tenerne le redini e guidarla adeguatamente. Un bilancio unico per l’Europa a sostegno dell’economia, ed ancor prima delle persone. L’uscita dalla crisi non deve avvenire necessariamente a scapito della gente. Unirsi o perire. Per l’ennesima volta.
Segui i commenti: |