Perchè l’Europa ha bisogno del Kosovo

, di Paolo V. Tonini

Perchè l'Europa ha bisogno del Kosovo

Il fulcro della bilancia diplomatica fra Russia ed America nella regione balcanica giace fra le aulee del Parlamento di Pristina ed un solo interlocutore manca per risolvere l’enigma kosovaro: l’Europa.

Ma quale Europa? Secondo quanto insegna Ronald Dworkin, ad un solo concetto possono corrispondere indefinite concezioni, e di certo il grande assente non è l’Europa statica e confederale dei nostri giorni. Proprio per questo, una crisi regionale di dimensioni apparentemente ridotte è il miglior banco di prova per evidenziare lo stacco fra l’Europa che c’è sullo scacchiere internazionale e quella che ci dovrebbe essere.

Senza pretesa di esaustività, questo articolo cercherà di gettare qualche lume sulla situazione attuale in riferimento a (A) quello che è stato fatto prima di Lisbona e ciò che può essere ancora fatto e (B) perché tutto questo non basta e la definitiva costituzione di un organismo federale non può più essere procrastinata.

Cosa secondo i Trattati (TUE, TFUE)

1) EULEX

Le difficoltà dei vari stati Europei a trovare accordo sullo status del Kosovo non hanno stranamente impedito all’Unione, quando in gioco era la sua concreta credibilità internazionale, di raggiungere l’unanimità richiesta dalla PESC per lanciare il loro forse più ambizioso progetto di peace keeping: EULEX [1]. Lo scopo è chiaro: restaurare, mantenere e certificare lo stato di diritto nella regione. Tutto questo ad appena un giorno dalla dichiarazione a Pristina.

Il numero impressionante di poliziotti ed avvocati che è stato di seguito pompato nella regione rappresenta un interessante punto di partenza non soltanto per testare le concrete capacità operative dell’Unione, ma anche la compresa necessità di iniziare a produrre sicurezza e non continuare ad usufruire (quasi) gratuitamente dell’ombrello NATO e della macchina bellica americana.

Infatti nel mondo interdipendente e multipolare che si sta profilando all’orizzonte il declino del monopolio americano è ormai evidente e l’Europa non può permettersi di non essere in grado di mantenere la pace e lo stato di diritto in un’area che geograficamente le appartiene.

Nondimeno, quanto è stato fatto non è sufficiente. L’iniziativa kosovara per la Stabilità (IKS [2]) in un suo report, afferma che in un territorio piccolo quanto il Kosovo esistono ben quattro diversi ordinamenti giuridici, quello della missione ONU, quello kosovaro, la legislazione serba che le corti del nord del paese stanno autonomamente implementando e perfino i codici della vecchia federazione jugoslava.

In questo contesto, anche la situazione della sicurezza resta confusa: EULEX era nata con l’intento di prendere in mano le sorti del Kosovo, portarlo sotto l’ala protettrice delle nazioni europee e traghettarlo verso la normalizzazione e in futuro l’annessione. Le opposizioni serbe hanno portato la missione all’interno dell’ONU e così si hanno quattro diversi corpi di sicurezza, quello ONU, le forze EULEX, la polizia kosovara che tenta di liberarsi dalla tutela internazionale ed i contingenti di polizia serba che operano fuori da ogni schema in maniera autonoma e non ufficiale nei territori del nord.

La difficoltà di gestire questo numero consistente di competenze, la difficoltà di apparire super partes agli occhi dei kosovari e la tensione per i problemi irrisolti hanno portato proteste e contestazioni nei periodi di primo insediamento.

2) I LIMITI DELLA PESC

Se si analizza lo schema pattizio al cui interno la missione europea si incardina, ci si può facilmente rendere conto che ogni prospettiva d’azione dei ventisette paesi dell’Unione è praticamente congelata e l’unica speranza è l’avvio di una cooperazione permanente rafforzata.

Infatti, all’articolo 24 del quinto Titolo del Trattato si legge che (a) la politica estera di sicurezza comune soggiace al voto unanime di tutti gli stati che siedono nel Consiglio, (b) l’adozione di ogni misura legislativa è esclusa e (c) la Corte di Giustizia Europea non ha alcuna giurisdizione su ogni atto posto in essere dal Consiglio o dall’Alto Rappresentante dell’Unione.

Le stesse parole, quasi a voler enfatizzare lo spirito confederale, sono ripetute all’articolo 31, che però poi apre qualche spiraglio, seppure flebile, ad una maggiore efficienza, affermando che: (a) uno stato può decidere di non votare ed astenersi ma, se da un lato non è in alcun modo vincolato alla decisione, dall’altro non può nemmeno ostacolare l’azione dell’Unione; e (b) alcune decisioni, pur di secondaria rilevanza, possono essere prese a maggioranza qualificata.

L’efficacia di quanto affermato resta dubbia dal momento che l’unanimità è sempre richiesta per ogni decisione che abbia implicazioni militari o di difesa.

A questo riguardo pensano gli articoli 42 e 46. Infatti, se da un lato si autorizza espressamente l’Unione a porre in essere missioni di peace-keeping e prevenzione di conflitti, secondo i principi ispiratori delle Nazioni Unite, dall’altro la si obbliga a servirsi degli asset forniti dai singoli stati membri, e l’unanimità è anche qui sempre richiesta.

L’unica significativa breccia è offerta combinando gli articoli 42 (6) e 46, che autorizzano un gruppo di stati legati da interessi comuni e i cui standard militari soddisfano i più alti criteri di affidabilità e dedizione, e porre in essere una cooperazione strutturata permanente, dove sia il Consiglio che gli stati componenti possono prendere decisioni a maggioranza qualificata e incrementare notevolmente le capacità d’azione.

Perché tutto questo non basta

La scioccante lentezza burocratica, la complicatezza dell’apparato decisionale, la stessa difficoltà di poter porre in essere una cooperazione strutturata permanente sono facilmente comprensibili, e non necessiterebbero di ulteriori considerazioni, se non fosse che il resto del mondo avanza ad una velocità notevole mentre l’Europa è ancora concentrata su problematiche interne la cui risoluzione sembra lontana.

È ovvio che il Trattato di Lisbona se da un lato offre dei fulcri sui quali è non solo possibile, ma anche necessario, fare leva, l’attuale struttura pattizia non basta.

Chiarificando poi molti punti prima dibattuti, pone precisi limiti alle competenze ed impedisce o rallenta nuove interpretazioni evolutive.

La situazione del Kosovo offre all’Europa di oggi una notevole occasione di affermarsi sullo scacchiere regionale come potenza coerente in grado di garantire la pace e i diritti umani ai propri cittadini, con la quale non solo la Russia ma anche i piccoli potentati locali non possono non fare i conti.

L’unificazione delle forze armate, la creazione di un bilancio federale in grado di supportarle e renderle indipendenti da quelle dei singoli stati (la coesistenza di più eserciti, federale e nazionale non è stata sconosciuta nemmeno negli USA) si rendono esigenze sempre più pressanti, almeno tanto quanto la necessità di un governo europeo dell’economia.

È improvvido, nella prospettiva di un mondo costituito da macro-potenze continentali, tralasciare questo aspetto. Infatti secondo il principio di sussidiarietà, a crisi locali devono rispondere potenze (auspicabilmente democratiche) locali, producendo quel fondamentale bene comune che è la sicurezza, ad uso e consumo dei cittadini dei territori più disgraziati e (sempre auspicabilmente) sotto il patrocinio delle Nazioni Unite.

Prospettive d’azione e conclusioni

Nello scacchiere balcanico un’unità d’azione europea coerente è il solo bandolo che può sciogliere l’intricata matassa delle relazioni fra gli stati che ancora non fanno parte dell’Unione.

È sovranamente illogico, per chi non mastica di diritto, che l’Unione pur potendo, ad esempio, accedere alla Convenzione Europea dei Diritti Umani, non possa poi riconoscere l’indipendenza di un popolo emancipatosi proprio per la costante, brutale e provata violazione degli stessi.

Le contraddizioni evidenziate illustrano la mancanza di trasparenza e responsabilità verso i cittadini di una politica estera ancora basata sul prevalere degli interessi nazionali, giocata fra i corridoi delle capitali piuttosto che in pubblici dibattiti in Parlamento (Europeo oltre che nazionale).

Se non si agisce in fretta, i legami fra Belgrado e Mosca getteranno ombre inquietanti per la futura influenza europea nella regione, con non secondarie ripercussioni sul tema delle politiche energetiche, soprattutto dopo i reiterati tentativi russi di attuare un dividit et impera energetico e di boicottare il progetto Nabucco, in cui la Serbia gioca un ruolo cruciale.

Per questi motivi è necessario che l’Unione Europea

(a) riconosca la sovranità del Kosovo, anche come caso sui generis di emancipazione non suscettibile di applicazione analogica;

(b) prenda il controllo dell’ultima fase di transizione e con la forza della presenza militare sul campo di sieda ai negoziati di pace sullo status, portandoli ad una conclusione;

(c) garantisca agli abitanti del Kosovo lo stesso diritto ad accedere senza visto all’area Schengen che attualmente sta riconoscendo a tutti gli altri abitanti della regione;

(d) proceda ad esportare il modello di integrazione sopranazionale che già a seguito della dichiarazione Schuman ha portato alla pacificazione del non men o problematico confine francogermanico;

(e) ricucisca lo strappo sanguinante che ancora divide la cittadina di Mitrovica in due parti e proceda ai negoziati per l’annessione se non di tutti, perlomeno di una buona parte degli stati della regione il cui grido d’aiuto se non raccolto dall’Europa, potrebbe trovare orecchie più attente e meno democratiche delle nostre.

In conclusione, riporto una parte delle ultime considerazioni giuntemi da Pristina dall’Avvocato della Corte Suprema kosovara Kreshnik O.

Paolo, here situation is changing day by day, for the next few years...who knows what will be in the near future, for the moment we do not have President, going to have an elections, voting the government also...it will take a time and sweat again with billboards, empty promises, you know more or less, how the elections are...and after that (hoping to finish successfully) will start negotiations with Serbia concerning technical issues, such as customs, free movement of people, electricity, economic ones, but NOT for status, otherwise we don’t accept to sit...however, this will take a long time too and imagine to sit two countries, they have been in a war, so as what we see and think these issues are big enough to deal with, and if only these two especially the Negotiations will end with success, then WE in cooperation with EU and USA will start a new life, getting visa liberalization...and so on, the road to Europe is getting wearing and tearing.

Forse non è allora tanto l’Europa ad aver bisogno del Kosovo, quanto il Kosovo ad aver bisogno di noi, e, detto questo, è necessario non dimenticare mai quanto insegnava Lauterpacht:

“Non v’è dubbio alcuno che il diritto internazionale è fatto per gli Stati, e non gli Stati per il diritto internazionale, ma ciò è vero solo nel senso che gli Stati sono fatto per gli esser umani, e non gli esseri umani a consumo degli Stati [3].”

Immagine: bandiera del Kosovo. Fonte: Flickr

Parole chiave
Note

[2Image Matters, Report of Kosovar Stability Initiative, Pristina, 2008 - www.iksweb.org

[3(H. Lauterpacht “The function of law in the international community” (Cambridge, CUP, 1933 pp. 430-431)

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