Scriveva a metà novembre, durante la crisi di Gaza, Gianni Guasto (uno psichiatra genovese che ha sposato una docente universitaria di origini palestinesi) [1]: «Non ci sarà mai lo Stato Palestinese. Troppo avanti si è spinta la colonizzazione: ha ormai superato il punto di non-ritorno. Ogni insediamento israeliano è un fatto compiuto dal quale non si ritorna, e nessuna convivenza sarà mai possibile in Cisgiordania, per il troppo odio accumulato. Come potranno mai vivere i palestinesi di Gaza sotto la pena dell’embargo?»
Negli stessi giorni ho letto di un ricercatore palestinese che lavora negli Stati Uniti, Ahmed Moor [2], che ha scritto: «Now I’m working on the idea of federalism in Palestine-Israel, just one model. I am now working on a book together with some Israeli and Palestinian partners. It’s still in the early stages, but it’s about developing a concrete proposal on what a one-state could look like. So what I’m working on is taking the American or Indian models, and thinking about four federal states; the West Bank, the Gaza Strip, and then the Tel-Aviv northern quarter and central Israel and the Negev (with Jerusalem as an independent capital a bit like Washington DC).»
Dopo aver letto queste due osservazioni mi sono chiesto: ma siamo sicuri che la soluzione “due popoli, due Stati” sia la via giusta?
Tutti, dai pacifisti alle diplomazie, sostengono che la soluzione della “questione palestinese”, cioè la convivenza pacifica di israeliani di religione ebraica e arabi di religione musulmana, si raggiungerà solo attraverso la costituzione di due Stati indipendenti, che si riconoscano reciprocamente e con la garanzia internazionale dei rispettivi confini.
Questa “soluzione” incontra difficoltà enormi: (i) gli insediamenti dei coloni ebrei nei territori della Cisgiordania sono ormai numerosissimi e una divisione territoriale su base etnico-religiosa è impraticabile (ii) non c’è continuità territoriale dei territori oggi amministrati dalla Autorità palestinese (iii) non c’è riconoscimento di Israele da parte di Hamas (iv) non c’è maggioranza all’interno di Israele disponibile a concedere sovranità ai palestinesi (v) non c’è una garanzia internazionale credibile che tuteli la sicurezza dei due Stati (vi) non è mai stata firmata una pace tra Israele e Siria per i confini del Golan.
Se a tutti questi motivi aggiungiamo i divergenti interessi delle potenze regionali e mondiali che interferiscono pesantemente in quell’area, ne risulta che il problema è molto complesso.
Per dipanare la matassa proviamo a vedere di trovare nella storia recente degli esempi di pacificazione riusciti per vedere se è possibile ripercorrere strade già sperimentate. La mente va alla pacificazione franco-tedesca in Europa attuata dopo la seconda guerra mondiale. Ci sono sia similitudini che grandi differenze.
Anche in Europa vi erano due nazioni che si erano confrontate in passato in guerre sanguinose. Anche in Europa non c’erano famiglie che non avessero avuto morti, feriti o prigionieri per causa del “nemico”. Anche in Europa lo stato vincitore (la Francia) non voleva la ricostruzione della potenza del vicino tedesco.
Le differenze tra lo scontro israelo-palestinese e quello franco-tedesco consiste nel fatto che:
- Francia e Germania sono entità statali consolidate e riconosciute,
- le differenze etnico-linguistico-religiose non hanno in Europa peso rilevante,
- alla fine della guerra c’era una Germania sconfitta e occupata dalle truppe alleate
- c’era un comune nemico, l’URSS.
- Israele e Palestina non hanno un comune nemico,
- la Palestina non è mai esistita come stato indipendente,
- il contrasto religioso pesa fortemente (partiti confessionali),
- non c’è un paese che ha vinto e uno che ha perso.
Queste differenze vanno considerate, ma prima di affermare che non ci può essere un paragone vediamo quali sono le tappe della riconciliazione franco-tedesca e vediamo se tali tappe potrebbero essere ripercorse in Palestina pur con le diversità esistenti tra le due situazioni.
A fine guerra gli USA lanciarono un piano di ricostruzione dell’Europa (19 miliardi di dollari di allora) a condizione che i fondi fossero gestiti e coordinati da una autorità comune europea (ERP - European Recovery Plan, più noto come Piano Marshall). Questo permise a francesi e tedeschi non solo di affrontare il problema alimentare, ma anche di far ripartire le industrie e le infrastrutture. Essenziale fu la condizione imposta dagli USA di gestire i fondi attraverso una comune autorità, perché questo permise a francesi e tedeschi di lavorare insieme ad un comune progetto dopo sette anni di guerra.
Decisiva ai fini della pace fu però la seconda iniziativa, lanciata da Robert Schuman il 9 maggio del 1950 : unire sotto un’unica autorità la gestione delle risorse carbonifere e siderurgiche di Francia e Germania, proposta da cui nacque la prima comunità europea, la CECA – Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. La proposta di Schuman era frutto di un compromesso intelligente fra l’esigenza di non permettere alla Germania di ridiventare una potenza indipendente e temibile e l’esigenza di sfruttare il potenziale industriale tedesco ai fini dello sviluppo dell’economia europea e del contrasto al pericolo sovietico. La soluzione della CECA permetteva la rinascita della Germania e nello stesso tempo la sicurezza della Francia, in quanto energia (carbone) e industria di base (acciaio) non sarebbero più state in mano a due diversi Stati “nemici”, ma amministrate da un’Autorità sovranazionale nell’interesse di entrambi i popoli.
Ma perché Francia e Germania accettarono di “cedere sovranità” nei due fondamentali campi dell’energia e dell’industria ? Non certo perché lo volessero gli USA (l’Inghilterra infatti ne restò fuori), ma perché la CECA non era fine a sé stessa, ma fin dalla Dichiarazione Schuman era indicata la prospettiva di una unione federale fra i due Stati con pari dignità. Solo in questa prospettiva il tradizionale nazionalismo francese e l’orgoglio ferito della Germania poterono essere messi a tacere.
Piano Marshall, CECA e Prospettiva Federale, hanno creato le condizioni per una pace fra i popoli europei che dura tuttora e che verosimilmente è irreversibile.
Possiamo ripercorrere una via simile anche per i popoli israeliano e palestinese ? Si possono riprodurre le tre condizioni anche in terra palestinese? Io penso che sia una strada percorribile.
Il finanziamento di un “ Piano Marshall “ non è certo un problema: oggi se mettiamo insieme i fondi che USA, Paesi arabi e Unione Europea elargiscono a Israele, Autorità palestinese e Hamas abbiamo una massa finanziaria cospicua; tale massa non è purtroppo indirizzata allo sviluppo (come fu l’ERP) ma prevalentemente ad armare i contendenti, inoltre non è legata ad una unica programmazione (come fu l’ERP) ma disperso in tante iniziative. Se le potenze su indicate che oggi finanziano Israele e Palestinesi concordassero di convogliare i loro finanziamenti in un unico fondo e condizionassero l’elargizione ad una gestione comune pensate che Hamas, Autorità Palestinese e Israele non si siederebbero ad un tavolo di trattativa ?
Mettere in comune le risorse. Anche questo è fattibile; le risorse sono essenzialmente l’acqua e le infrastrutture: un problema più semplice del carbone e dell’acciaio del dopoguerra europeo.
La prospettiva federale. Di fronte allo stallo in cui ci troviamo continuando a insistere sulla soluzione dei due Stati, la prospettiva federale può farsi strada. Il piccolo gruppo di studiosi palestinesi e israeliani che ci sta lavorando negli Stati Uniti e che ho citato all’inizio può essere il germe da cui può nascere una proposta forte a condizione di sostenerli e diffondere la loro idea. Del resto la proposta non è né nuova né bizzarra: era stata in passato sostenuta da Johan Galtung, che citava proprio l’esempio della CECA come esempio di riconciliazione [3].
Uno stato federale Israelo-Palestinese dovrebbe adottare un sistema analogo al bicameralismo USA, con un Senato in cui gli stati sono rappresentati in egual misura indipendentemente dalla popolazione rappresentata, e con una Camera proporzionale alla popolazione. In questo sistema necessariamente i temi della sicurezza e della politica estera sarebbero affidati al solo Senato e le questioni economiche e sociali al bicameralismo. In tal modo si salvaguarderebbero le ossessioni sulla sicurezza degli israeliani da una parte e si garantirebbero scelte democratiche che integrino i palestinesi in uno stato che inevitabilmente sarebbe inizialmente costruito prevalentemente sulla burocrazia israeliana.
Per questa soluzione servirà una reale garanzia internazionale (analoga, per continuare il parallelo, a quella che nel dopoguerra garantirono le truppe USA in Europa). Garanzia non solo economica ma anche militare, per scoraggiare coloro (e ci saranno, ad iniziare dall’IRAN) che fomenteranno ogni forma di opposizione alla riconciliazione. In questo scenario si può anche parlare di “due Stati”, ma solo come passaggio iniziale verso la prospettiva di uno Stato Federale, come già ipotizzato da Uri Avnery nel 2009 [4], che proponeva anche un nome per il nuovo stato “Semitic Union”.
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