L’Unione europea prova a regolare la finanza e a rispondere alla crisi: lo stato dell’arte

, di Salvatore Sinagra

L'Unione europea prova a regolare la finanza e a rispondere alla crisi: lo stato dell'arte

“Avanti ma in ordine sparso” potrebbe essere una buona sintesi di ciò che ha prodotto lo sforzo regolamentare dell’economia e della finanza promosso dalle istituzioni dell’Unione europea. Dal 2009, quando divenne palese la situazione della Grecia, sono state avanzate molte proposte nella sede europea: l’introduzione di un’imposta sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin tax); il varo di un’autorità di controllo unica sulle banche (la cosiddetta Unione bancaria); nuove regole per la finanza, si pensi per esempio alla Volcker rule, e l’emissione di titoli di debito dell’Unione europea. Nonostante la significativa agenda, per il momento sono stati conseguiti ben pochi risultati; il Parlamento europeo continua con la sua insistente attività di pressione e sensibilizzazione, ma il Consiglio, ove sono rappresentati gli Stati e con cui il Parlamento deve trovare un’intesa sui singoli provvedimenti, per il momento sembra orientato verso compromessi al ribasso per via del veto di taluni Paesi. In particolare la Gran Bretagna sembra contraria o disinteressata a molti punti dell’agenda fin qui dibattuti a Bruxelles, ambiguo è il comportamento dei tedeschi, che sempre più spesso prendono tempo.

La scelta in assoluto più utile potrebbe essere l’emissione di titoli di debito pubblico europei; esistono a proposito due varianti, la prima è quella dei così detti project bond, titoli di debito europei emessi per finanziare grandi investimenti (si potrebbe trattare delle classiche infrastrutture delle comunicazioni, ma anche per esempio di progetti di riqualificazione ambientale – si pensi per esempio allo stabilimento Ilva di Taranto – o di progetti di riconversione industriale di settori poco competitivi); la seconda è quella dei così detti Eurobond, titoli che servirebbero a “mettere in comune” o per meglio dire a “mutualizzare” una parte del debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona (che per esempio potrebbero conferire in un meccanismo comune il debito che eccede il 60% del proprio prodotto interno lordo). La prima alternativa è quella meno efficace e sta procedendo abbastanza a rilento (a fine 2012 è stata lanciata la fase pilota con ritardo; tali emissioni più che un mutamento di contesto sembrano suggerire un potenziamento dell’attività già svolta dalla Banca Europea degli Investimenti; forse si tratterà di un passo utile, non del cambio di passo necessario), la seconda alternativa potrebbe rappresentare il più grande salto di qualità per l’Unione Europea (più realisticamente dell’Eurozona) verso la federazione e potrebbe rendere definitivamente sostenibile il debito di Paesi come Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. Se l’Eurozona venisse considerata dai mercati un debitore unico, sarebbe probabilmente percepita come un soggetto molto più virtuoso di altri “giganti” come il Giappone e gli Stati Uniti, che hanno debiti maggiori in assoluto ed in relazione al prodotto interno lordo; purtroppo per il momento i veti alla mutualizzazione del debito pubblico dei Paesi dell’area euro (in primis quello della signora Merkel) appaiono insormontabili e nella migliore delle ipotesi qualcosa si muoverà solo dopo le elezioni tedesche del 2013.

L’idea di una tassa europea sulle transazioni finanziarie, lanciata da Van Rompuy nel 2009, potrebbe dotare l’Unione europea di maggiori risorse proprie (per la verità poche, perché il gettito difficilmente supererebbe qualche decina di miliardi), e potrebbe comportare benefici di immagine e legittimazione – la capacità di imposizione fiscale è fondamentale per le ambizioni federaliste dell’Unione e inoltre una tassazione del mondo della finanza rilancerebbe l’idea di “Europa sociale”-. Angela Merkel a proposito aveva sostenuto la possibilità di utilizzare i proventi della Tobin tax europea per aiutare i Paesi in difficoltà. I risultati sono purtroppo per il momento modesti, la Gran Bretagna (che pure ha un’imposta di bollo sugli strumenti finanziari che somiglia alla Tobin Tax) e la Svezia, le due più importanti piazze finanziarie che fanno parte dell’Unione europea ma non dell’Eurozona, hanno escluso l’adozione di tale misura; a quel punto si è capito che realisticamente al massimo sarebbe stato possibile arrivare ad una tassa applicata dai paesi che adottano la moneta comune. Oltre alla Francia, alla Germania ed all’Italia di Monti altri otto Paesi dell’Eurozona hanno aderito alla proposta di una cooperazione rafforzata. Si sottolinea che tra questi vi sono due piccoli Stati dell’Europa orientale, Estonia e Slovacchia, che negli ultimi anni sono state nazioni-bandiera del neoliberismo. Purtroppo, i Paesi favorevoli all’imposta stanno procedendo ciascuno per proprio conto, anche con riguardo alla riscossione del tributo. In Francia l’imposta è già in vigore da agosto, e a breve il Parlamento italiano potrebbe licenziare un provvedimento «copiato» da quello francese (che tra l’altro per il momento ha conseguito entrate fiscali sotto le attese). Undici imposte nazionali potrebbero essere deludenti sia in termini di gettito che in termini di immagine, tra l’altro non pochi sostengono che la strategia della signora Merkel sia quella di costituire un piccolo fondo di solidarietà con i proventi della Tobin tax, obbligando in cambio i partner europei a rinunciare all’emissione di obbligazioni europee.

Inoltre vi è il tema della regolamentazione delle banche. A Bruxelles non si fa altro che parlare di un meccanismo europeo di supervisione bancaria, garanzia sui depositi e ricapitalizzazione delle banche in difficoltà, la cosiddetta Unione Bancaria; il Parlamento europeo vorrebbe che si applicasse a tutto il comparto bancario europeo, mentre il Consiglio, cedendo alle pressioni tedesche, si accontenterebbe di applicare il provvedimento alle “grandi banche” (circa un centinaio di istituti). Anche in questo caso le resistenza della Gran Bretagna sono palesi e appare improbabile un compromesso (anche solo tra i Paesi dell’Eurozona) che metta in moto la macchina, come auspicabile, per il 2013. Infine le proposte relative a banche e finanza non si limitano alla supervisione unica, il gruppo di Liikanen (dal nome del suo presidente, il governatore della banca di Finlandia) ha presentato un dossier alla Commissione, che tra le altre cose propone la separazione tra la banca di deposito e la banca di investimento; anche in questo caso la situazione appare confusa, sia perché la Francia ancora una volta pare pronta allo scatto in avanti, mentre sono ancora ambigue le posizioni di Gran Bretagna, Germania e Italia, sia perché le proposte sul tavolo (anche quelle della Francia di Hollande) paiono più di forma che di sostanza.

In conclusione, (almeno) i governi dell’Eurozona, dovrebbero trovare una vera intesa su un’unione bancaria che riguardi tutti gli istituti di credito, sulla volcker rule e su una tobin tax europea; poi si dovrebbe pensare ad un debito in comune. Raggiunto questo obiettivo avremmo davanti a noi significativi elementi economici di una federazione europea, la parola toccherebbe poi ai costituzionalisti (o alla Costituente), che dovrebbero definire il quadro politico della federazione. I Paesi che adottano l’Euro facciano uno scatto senza cercare compromessi con gli Stati euroscettici. Londra almeno in un primo momento rimarrà fuori, ma la globalizzazione nel lungo termine la spingerà verso la federazione europea. Gli inglesi saranno quindi costretti a scegliere tra la federazione che ci sarà e una loro identità e un loro ruolo “fuori dai blocchi” (Stati Uniti, Giappone, Unione europea) che probabilmente sarebbero ambigui e di dubbia sostenibilità.

Fonte immagine Flickr

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