L’Unione europea all’esame della crisi. Gli europei a quello delle urne

, di Matteo Cazzulani

L'Unione europea all'esame della crisi. Gli europei a quello delle urne

L’Integrazione è cosa buona e giusta quando tutto va bene. Ma quando la situazione peggiora, allora essa diventa causa di tutti i mali. “Solidarietà” resta una parola vuota di significato, l’Euro la causa di tutte le crisi, l’abbattimento del muro di Schengen un errore storico.

Si dice che l’unione fa la forza, specie in periodi di crisi, superabili più facilmente grazie all’aiuto reciproco tra più persone. Purtroppo, tale etica sembra non appartenere più all’Europa. Per lo meno ad una determinata parte di essa. La grande famiglia europea comincia a dividersi in piccoli gruppetti nazionali: movimenti antieuropeisti e populismo dilagante sono la causa di tutto ciò. Altra grande minaccia è dovuta ai movimenti sociali antigovernativi, cui ultimo esempio ci è dato dalle recenti ondate di scioperi e proteste in Grecia.

Sintomo della malattia di cui soffre l’Europa è quello dell’Olanda. Paese nel cuore del continente, protagonista dell’integrazione europea fin dai primissimi anni, tradizionalmente aperto e liberale. Oggi gli olandesi voltano le spalle all’UE e – come mostrano i recenti sondaggi – volentieri voterebbero a maggioranza per il Partito della Libertà di Geert Widers, populista e fortemente schierato contro ogni forma di migrazione. Proprio per questa ragione, il Segretario di Stato olandese per gli Affari Europei, Frans Timmermans, ultimamente ha dichiarato che “la diffidenza nei confronti dell’UE è un lusso che non ci si può permettere in tempo di crisi. Uno dei problemi più gravi, quello del lavoro, non sarebbe risolvibile senza un’adeguata politica comunitaria, né un’unica moneta”.

Occorre ammettere che la crisi economica è il test più duro per l’integrazione europea dopo mezzo secolo di sua storia. La bancarotta delle maggiori banche (i cui effetti si stanno a malapena avvertendo), la crescente disoccupazione, la recessione delle maggiori economie del continente: tutto ciò inevitabilmente cambierà la politica dell’UE nei prossimi anni. O, perlomeno, influirà sensibilmente le scelte prese a Bruxelles. Come ed in che modo è dura da stabilirsi.

Le iniziative protezionistiche assunte in settimana dalla Francia di Nicolas Sarkozy hanno provocato la pronta reazione della Commissione Europea e di un gruppo di Paesi coordinati dalla Repubblica Ceca, cui spetta la presidenza di turno dell’Unione in questi mesi.

I capi di governo dei singoli Paesi sono legati al giudizio dei propri elettori, e non ad una comune opinione pubblica europea. Per questa ragione, timorosi di perdere consenso, essi perseguono politiche miranti a favorire il proprio piccolo giardino, ignorando che senza l’UE la crisi è davvero imbattibile.

Quando ad essere minacciati saranno settori nevralgici dell’economia italiana, francese e tedesca – Paesi non citati casualmente – Roma, Parigi e Berlino con tutta probabilità si attiveranno per tutelarli. Se non sarà possibile farlo per mezzo delle Istituzioni europee, allora interverranno autonomamente dall’UE, se non addirittura contro di essa.

In occasione di ogni vertice dell’Unione, è ribadito che “il protezionismo non esiste”, che “l’UE è solidale” e che l’integrazione ne caratterizza il più forte tra i fondamenti. Ma alle buone parole occorrerebbe accompagnare sangue freddo e visione di più ampio orizzonte temporale.

La crisi inevitabilmente muterà la situazione. Così di recente ha dichiarato all’EUobserver l’ex Commissario UE Etienne Davignon, belga aristocratico: “E’ chiaro che il mondo non sarà più lo stesso dopo il settembre 2008”. Tale mese coincide con il crollo della grande banca di investimenti Lehman Brothers, evento ritenuto l’inizio della crisi. Tuttavia, il terrore agli occhi degli europei è arrivato dal momento in cui si è compreso che la stagnazione economica potrà durare anche più di un anno.

Per comprendere come la crisi possa minare il consolidamento ed il processo di integrazione europeo, è opportuno analizzare non solo ciò che accade in ogni singolo Paese, ma anche l’atteggiamento dei leader europei in diversi ambiti.

Per ciò che riguarda l’allargamento, sebbene esso sia stato utilissimo nel recente passato alla democratizzazione ed al progresso economico dei Paesi dell’Europa Centrale una volta liberi dalla barbarie – sia economica che politica – del comunismo, oggi nessuno più ne parla. La Commissione Europea si limita a dichiarare che “continuano i negoziati di pre-adesione con la Turchia”, sebbene all’ingresso in Europa di Ankara si oppongano tenacemente sia Francia che Germania. La via di ingresso della Croazia è stata arrestata dall’opposizione della Slovenia in nome di ferite che, seppur comprensibilmente dolorose, sarebbe necessario superare in un continente che ha finalmente chiuso – almeno sulla carta – con una lunghissima epoca di odi e di guerre fratricide.

Lo stesso vale per il caso della Macedonia, a cui l’UE è negata dall’ottusità del governo greco. Sull’integrazione della Serbia, è sceso un velo di inquietante silenzio. Per non parlare dell’Ucraina, della Georgia e della Bielorussia, verso le quali l’Europa – timorosa di irritare la Russia autocratica del duo Putin-Medvedev – ha intrapreso soltanto una timida politica di buon vicinato, ovviamente su iniziativa di Polonia, Svezia e Paesi baltici. Non a caso. E quando l’Islanda, fortemente colpita dalla bancarotta, ha umilmente richiesto l’ingresso nell’UE, le è stato risposto che “non è il periodo opportuno per tali passi”.

L’abbattimento dell’odioso muro di Schengen, che ha permesso finalmente la libera circolazione dei cittadini europei tra i Paesi del continente senza l’obbligo di controllo alle frontiere, è sicuramente la conquista più importante ottenuta dall’integrazione europea, i cui effetti positivi sono avvertiti persino dalle persone più comuni. Tuttavia, anche questo capitolo rischia di essere intaccato dalla crisi. Basti pensare che a causa dei tagli del budget europeo le forniture economiche ai paesi di confine dell’UE – in primis la Lettonia, gravemente colpita dalla crisi – diventeranno sempre più esigue. Questi Stati potrebbero essere così costretti a tagli in settori specifici come, ad esempio, il controllo alle frontiere, favorendo contrabbando ed immigrazione clandestina. Purtroppo, in base a tale teorema si stanno alzando molte voci in numerosi Paesi europei, soprattutto nell’odierno periodo pre-elettorale, nel quale movimenti populisti che fanno dell’antieuropeismo la propria bandiera, rischiano di incrementare pericolosamente il proprio consenso.

Per quanto riguarda l’area Euro, alcuni tra i maggiori economisti sono concordi nel ritenerla uno scudo efficace che protegge i suoi sedici membri da alcune manifestazioni della crisi come, ad esempio, l’oscillazione del corso delle valute. Tuttavia, il leggendario capo della Commissione Europea dal 1985 al 1996 Jacques Delors ha sottolineato in una recente intervista al mensile tedesco Capital come vi sia “il rischio che i Paesi più forti dell’area Euro possano esercitare pressioni su quelli più deboli affinché essi abbandonino l’unione monetaria”. Non a caso, inquietantemente negli ultimi tempi qualche voce circa la possibilità di svincolare da eurolandia alcuni Paesi è stata avanzata.

Sul tema immigrazione, da anni l’UE è incapace di accordarsi su un’unica politica a riguardo. Come conseguenza della crisi, alcuni paesi hanno persino pensato di chiudere le proprie frontiere, se non di rispedire indietro quegli immigrati in attesa di un permesso di soggiorno o richiedenti asilo politico. Ad esempio, la Svezia ha deciso di recente di rimpatriare parte degli immigrati di nazionalità irachena, sostenendo che la situazione a Baghdad si sia finalmente stabilizzata. La conseguenza di tale decisione è stato l’esodo di diversi iracheni nella vicina Finlandia.

Tutti questi esempi ci forniscono chiaramente il quadro della situazione: i prossimi mesi saranno cruciali nel capire se l’Unione Europea – tanto faticosamente costruita dal dopoguerra ad oggi – si rivelerà essere un castello di sabbia, distrutto dal populismo dilagante nel nostro continente (partiti e movimenti che vedono in Bruxelles la causa di ogni crisi sono in forte ascesa in molti Paesi, basti pensare al caso nostrano). Oppure – come da cinquanta anni a questa parte si è sempre creduto, arrivando a straordinari progressi in ambito politico, sociale ed economico – se l’UE si rivelerà un’istituzione elastica in grado di superare la crisi.

Ciascuno di noi può soltanto in apparenza fare poco: infatti, il voto alle prossime elezioni europee può essere determinante per il mantenimento di una cultura europeista, grazie alla quale, tra l’altro, l’Europa ha ottenuto finalmente pace e sviluppo dopo secoli di odi e divisioni.

Foto: la sede di Strasburgo del Parlamento europeo. Fonte: Flickr

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