Crisi dell’eurozona e BRICS

, di Nelson Belloni

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Crisi dell'eurozona e BRICS

Le dimensioni e la durata della crisi dell’eurozona continuano a preoccupare i leader di tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e nei Paesi BRICS; persino la Cina teme fortemente gli effetti della prolungata recessione in Europa e Wen Jiabao, recentemente, si è più volte espresso a questo proposito. Da parte sua, il Fondo Monetario Internazionale ritiene che, se in Europa non si uscirà dalla crisi in tempi ragionevoli, si tornerà ad una condizione simile a quella degli anni Trenta.

Come effetto della crisi la Cina registra, quest’anno, un notevole calo della propria produzione, che gli analisti economici stanno cercando di esaminare in dettaglio per dare una precisa dimensione al fenomeno e tentare di prevenirne gli effetti. Anche il Brasile nel 2012 non crescerà quanto l’anno scorso, proprio perché l’esportazione di materie prime in Europa, mercato essenziale per il Paese sudamericano, è diminuita sia in termini di quantità sia in termini di prezzo, a causa della contrazione della produzione industriale europea. Inoltre il Brasile soffre per il calo della produzione cinese (manifatturiera e non), dato che ormai la Cina è diventata il suo primo partner commerciale, avendo superato la quota degli Stati Uniti.

Anche l’India non cresce in base al trend degli scorsi anni ed è proprio in India, a New Delhi, che si è tenuto, a marzo, l’ultimo summit BRICS che ha confermato la volontà di questi Paesi di rafforzare la cooperazione reciproca, sia in termini economici che politici. I BRICS si sono espressi anche a favore del fatto di far crescere la domanda interna e di aumentare la quota di commercio all’interno del loro gruppo iniziando ad utilizzare, a questo scopo, le proprie valute; vista la crisi che investe i Paesi occidentali, l’obiettivo è dunque quello di rendersi più autonomi nei confronti del mondo occidentale e, a questo proposito, è stata discussa anche l’istituzione di una banca di investimenti, divenuta nota tra gli analisti con il nome di “Brics Bank”, per promuovere gli investimenti nei mercati emergenti e nei Paesi in via di sviluppo. Dilma Rousseff e Hu Jintao si sono pronunciati a favore di questo progetto, per contrastare la World Bank e l’Asian Developement Bank e per favorire gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo sganciandosi dal mercato europeo e dalla sua crisi nel medio-lungo periodo. Obiettivo di termine più breve è invece quello di rafforzare il mercato tra BRICS per le medesime ragioni. I cinque leader si sono espressi anche in opposizione alle posizioni americane in Siria e in Iran ed hanno discusso in merito all’imminente ritirata di americani ed europei dall’Afghanistan.

Nonostante la crisi abbia rallentato la crescita dei BRICS, il peso che questi Paesi hanno ormai acquisito nella politica internazionale non è infatti destinato a calare: questi Paesi continuano a rappresentare il 30% del PIL globale. In particolare la Cina si colloca al secondo posto tra i Paesi produttori con la quota del 18% della produzione mondiale, rispetto al 21% statunitense: si tratta di un dato comunque imponente, nonostante il differenziale tra i due Paesi quest’anno sia aumentato a favore degli USA. Non solo, ma la crisi non impedisce certo alla Cina di mettere in difficoltà il Giappone e gli USA nel Mar Cinese mediorientale ed orientale dove la tensione sta crescendo al punto che il governo Noda sta valutando l’ipotesi di acquistare armi dal Regno Unito per incrementare il proprio arsenale militare e cercare di compensare la crescita della marina cinese. Né il rallentamento della crescita cinese, come auspicato da molti, cambia il fatto che la Cina detiene sul proprio territorio il 23% delle terre rare mondiali, essenziali per produzioni ad alto valore aggiunto in ambito elettronico, e che è riuscita ad accaparrarsene il 95%, potendo così imporre limiti alla produzione e quote alle esportazioni di questi materiali.

Gli Stati Uniti, che hanno una lieve crescita intorno al 2% del PIL, insistono nel domandare alla Cina la rivalutazione del tasso di cambio del Renminbi per limitare le esportazioni cinesi, ma senza successo. La Cina continua a destinare la metà delle proprie risorse agli investimenti, sia esteri, sia interni, e questo dato rappresenta il doppio della media mondiale. Il suo consumo interno è infatti fermo al 40%, mentre un valore del 60% sarebbe più corretto. Questi dati indicano dunque una bassissima distribuzione della ricchezza tra la popolazione ed invece una enorme quantità di risorse destinate agli investimenti strategici nel mondo.

Recentemente Angela Merkel si è recata in Cina per un incontro con Wen Jiabao per concludere importanti contratti di vendita per Airbus, Volkswagen ed altre imprese, per un totale di oltre 3,5 miliardi di dollari. L a Cina ha però imposto che una parte degli stabilimenti vengano costruiti in Cina, per formare e far lavorare ingegneri e tecnici specializzati cinesi: di fatto, ha così ottenuto una vendita di know how di alta tecnologia, come dimostra l’esempio del progetto joint venture tra Airbus e industrie cinesi per costruire aerei alimentati a biogas. Si tratta, ancora una volta, della dimostrazione di come le potenzialità della tecnologia europea non vengano pienamente sfruttate per mancanza di investimenti, al contrario di quanto accade in Cina, e di come questo fatto si traduca in uno stato di inferiorità da parte dell’Europa.

Il secondo obiettivo della visita a Pechino della Cancelliera tedesca era quello di assicurare alla Cina che la Germania mostrerà un “impegno assoluto” nel salvaguardare l’euro e mantenerlo forte, stabile ed apprezzato dai mercati. Con questa garanzia – di carattere politico – la Merkel ha convinto il Presidente cinese ad aiutare l’Europa con l’acquisto di titoli dei debiti sovrani anche dei Paesi più fragili. Questo impegno della Cina, sommato ai contratti chiusi, potrebbe ridare una certa fiducia ai mercati anche nei confronti di Italia e Spagna. Wen Jiabao ha accettato il coinvolgimento del suo Paese nel sostegno alla zona euro perché ritiene che la Germania sia il Paese chiave per l’uscita dell’Europa dalla crisi. Un simile risultato non avrebbe certo potuto ottenerlo la Baronessa Ashton che, al di là del nome altisonante della sua carica (Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica estera), non ha alcun potere di agire e dialogare con i leader delle potenze mondiali perché non ha alle spalle né un governo, né una politica estera, ma solo divisioni e rivalità reciproche tra gli Stati che dovrebbe rappresentare.

Ancora una volta, quindi, si devono constatare i costi della divisione dell’Europa, costi per se stessa in termini di declino, e per il mondo, che subisce la crisi dell’Unione europea, ma che intanto non si ferma e prepara strategie di crescita economica e politica. Solo trasformando l’eurozona in una federazione gli europei potrebbero superare l’impasse: sta solo a loro farlo davvero!

Fonte immagine Flickr

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