Alla Lituania non piace il polacco

, di Jacopo Barbati

Alla Lituania non piace il polacco

La questione delle minoranze in Europa è sempre viva; ma, a dispetto di ciò che il buon senso farebbe credere, va peggiorando. E non solo per l’ormai nota e annosa problematica che riguarda i cittadini europei di etnia Rom, ma anche per dinamiche tra Stati confinanti ormai in atto da secoli e per le quali affiliarsi all’Unione europea non è servito a molto. Come, per esempio, le recenti tensioni tra Slovacchia e Ungheria.

O quelle tra Polonia e Lituania.

Già, perché questi due Paesi che si affacciano sul Mar Baltico hanno un passato comune non trascurabile: dal 1569 al 1795 le due regioni sono state unite in una confederazione, la Confederazione Polacco-Lituana (a forte influenza polacca), che ha portato come conseguenza una attuale e cospicua presenza di cittadini lituani di etnia polacca, nonostante i vari anni di influenza sovietica nel XX secolo. Influenza sovietica che, accusa la stampa polacca, sarebbe ancora forte dalle parti di Vilnius, soprattutto per ciò che riguarda accordi commerciali. Ma non solo: a quanto pare, i giovani lituani reputano interessante usare neologismi di origine russa nei loro discorsi. E i polacchi storcono il naso.

Questione d’ortografia

Perché mai dovrebbero? Perché il nodo delle tensioni polacco lituane giace proprio nell’ambito linguistico. Ortografico, più precisamente: infatti i cognomi dei cittadini lituani di origine polacca sono rigorosamente trascritti usando l’ortografia lituana anziché quella polacca; e a Vilnius si rifiutano di modificare tale scelta, su suggerimento della Corte costituzionale. Per lo stesso motivo, la Lituania non ha ancora ratificato la Carta europea per le lingue regionali e minoritarie.

Il problema non è di poco conto, considerato che i polacchi lituani sono oltre 250.000 e rappresentano il 6,74% della popolazione del Paese baltico, e che le incomprensioni non si fermano alle sole questioni linguistiche. Per esempio, i polacchi che rivendicano la restituzione dei terreni espropriati durante la Seconda Guerra Mondiale in Lituania (possibile grazie a una legge del 1997) trovano mille difficoltà burocratiche: i documenti legali redatti o conservati in Polonia non hanno valore in Lituania; quegli stessi terreni, quindi, vengono riassegnati a lituani.

Non si deve dimenticare, però, che in Lituania esistono eccellenti istituti scolastici polacchi; anche se da Varsavia fanno sapere che le chiusure di dette scuole sono sempre più frequenti e che le motivazioni date, di carattere finanziario, non sono credibili in quanto si è registrato un contemporaneo aumento per gli istituti scolastici lituani.

Brutto esempio

C’è da dire che polemiche e tensioni di questo tipo, tra due Paesi limitrofi nell’Unione europea che usa una moneta unica e che ha deciso di trasferire alcune competenze di bilancio dagli Stati membri all’Unione, è desolante. Deve altresì servire da monito per i federalisti: esistono ancora Paesi dove il riconoscimento di diritti fondamentali per le minoranze, come quelli linguistici, è anticostituzionale; con simili premesse, chiedere a questi Stati di far parte di una federazione il cui motto dovrebbe essere “In varietate concordia” potrebbe risultare ostico.

Ulteriore dimostrazione che non è possibile fare la Federazione europea senza prima aver “educato” i cittadini: il cambiamento deve venire dal basso, Stato per Stato, per dimenticare le vecchie tensioni e aprirsi ad accettare il diverso: diventa più difficile se ciò è imposto piuttosto che sentito.

Immagine ottenuta per gentile concessione de lospaziodellapolitica.com

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Tuoi commenti
  • su 11 novembre 2010 a 00:30, di Federico Brunelli In risposta a: Alla Lituania non piace il polacco

    Jak, resto dell’opinione che sarà l’Europa a creare gli europei (ovviamente valorizzando al contempo le appartenenze locali - cosiddetta cittadinanza federale), così come l’Italia ha creato gli italiani.

    Sono le istituzioni, che racchiudono la saggezza accumulata dagli uomini nel tempo, ad incanalare i comportamenti delle generazioni future.

    Penso quindi che sarà la Federazione europea ad «educare» i cittadini a superare vecchie contrapposizioni, spingendoli a pensare che il futuro va costruito insieme.

    L’attuale Unione europea ha già avuto un ruolo importante: grazie all’allargamento ad est dell’UE non c’è guerra tra paesi che erano usciti debolissimi dalla dominazione sovietica e che per entrare nell’UE hanno volontariamente compiuto grossi progressi economici e sociali.

  • su 11 novembre 2010 a 01:29, di Jacopo Barbati In risposta a: Alla Lituania non piace il polacco

    Ciao Federico, grazie per il commento. In linea generale concordo col tuo ragionamento; però, nel caso specifico di molte nazioni dell’Est Europa, ci sono delle dinamiche che non si possono ignorare.

    Un paio d’anni fa ebbi modo di poter poter parlare con dei cittadini di un piccolo villaggio lettone; scoprii che molti di loro temevano che l’UE si potesse trasformare in una seconda Unione Sovietica. Ovviamente la mia esperienza non ha valore statistico; ma i sondaggi scientifici fatti su scala nazionale attestano un euroscetticismo (in Lettonia) nell’80% circa della popolazione (c’è da dire che in Estonia, ad es., le percentuali sono invertite).

    Tutto questo per dire che, pur non sottovalutando ciò che l’UE ha fatto per queste genti e quel che farà, esiste ancora il ricordo vivo, specialmente sulle sponde del mar Baltico, di una precedente e non tanto remota entità sovranazionale di carattere più dittatoriale che democratico che ha umiliato e soffocato la storia, le lingue, i sentimenti e la cultura di interi popoli, i quali hanno reagito con forza non appena tornati indipendenti (la rigidezza di Vilnius sulle questioni ortografiche ne è un esempio).

    Insomma, anche la «Baltijas ceļš» (la «Catena baltica») sembra una cosa lontana adesso. Quello che intendo dire è che l’UE, prima di procedere verso una doverosa ulteriore integrazione, deve dimostrare ai suoi cittadini che può essere una Federazione efficiente pur non opprimendo nessuno, rispettando i principi di sussidiarietà e le lingue e le culture di tutti i popoli. I lituani non devono sentirsi minacciati o preoccupati da una eventuale liberalizzazione dell’ortografia polacca nei loro confini. Ma invece lo sono, perché? Perché l’UE, specialmente su tematiche linguistiche, sta mostrando numerose lacune e involuzioni: un esempio è costituito dalla recente bozza sui brevetti europei. Chi vorrà farne richiesta, dovrà presentare la documentazione del proprio progetto in inglese, francese o tedesco. Escludere delle lingue può non interessare agli italiani, ma a popoli che hanno vissuto per anni nel terrore di non poter parlare la propria lingua senza subire ritorsioni, può sembrare un affronto. Queste sono tematiche cui l’UE deve assolutamente prestare attenzione prima di andare avanti con l’integrazione; altrimenti qualcuno potrebbe pensare di rivivere un incubo non ancora dimenticato e allora lì sarebbero dolori per tutti.

  • su 24 novembre 2010 a 12:21, di Andrea In risposta a: Alla Lituania non piace il polacco

    Salve! Scrivo per la prima volta un commento su Eurobull. Concordo pienamente con le osservazioni di Jacopo. Ritengo pero’ sia necessario fare delle precisazioni per quanto concerne nello specifico il caso lituano.

    Come nel caso delle altre due Repubbliche del Baltico orientale, la lingua rappresenta in Lituania il principale elemento su cui l’identita’ nazionale e’ costruita. Quando nel 1988 il lituano fu dichiarato unica lingua di Stato, vedendo poi ulteriormente confermato il proprio status nella Costituzione lituana del 1992, l’obiettivo perseguito era la garanzia di due elementi: 1) la titolarita’ dello Stato quale entita’ legata alla nazione etno-linguisticamente lituana e al suo territorio; 2) l’utilizzo del lituano quale simbolo della lealta’ allo Stato pur nel rispetto delle diversita’ linguistiche e nazionali delle comunita’ presenti sul territorio della Repubblica. Nelle intenzioni, l’introduzione nella Costituzione del 1992 del lituano quale unica lingua di Stato intendeva porre - proprio attraverso la lingua - le premesse per la creazione di un patriottismo costituzionale efficace. A tal fine venne costituite la Commissione linguistica (CL) - incaricata di standardizzare il lituano - e vide la luce lo Statuto delle minoranze.

    La questione della scrittura dei nomi secondo le regole dell’ortografia lituana (basata su un Decreto d’inizio anni ’90) ha tuttavia evidenziato il funzionamento sclerotico dell’auspicato patriottismo costituzionale. Fedele alla visione civica della nazione che ne aveva ispirato la creazione, nel 1997 la Commissione linguistica (legalmente deputata a decidere in merito alla corretta scrittura dei nomi propri e dei cognomi) si disse in favore del mantenimento dell’ortografia originale per i nomi di origine straniera, pubblicando il relativo Decreto sulla Gazzetta ufficiale. Tuttavia, dopo che la Corte costituzionale lituana ebbe stabilito l’incostituzionalita’ della norma, il potere politico si e’ dimostrato poco interesato metter mano al cambiamento della norma costituzionale responsabile del rigetto del Decreto della CL.

    Nel caso lituano, quindi, il problema e’ prettamente politico. Da un lato, le istituzioni deputate al controllo della lingua seguono lo spirito civico che le ispiro’. Dall’altro, il potere politico - senza sensibili distinzioni di fazione - continua nella poco edificante costruzione di un’alterita’ etno-linguistica interna che richiama non solo i fantasmi del Primo dopoguerra, ma anche una certa politica sovietica.

    Scusate se mi sono dilungato, Andrea

  • su 26 novembre 2010 a 13:31, di Jacopo Barbati In risposta a: Alla Lituania non piace il polacco

    Ciao Andrea, e grazie mille per le tue precisazioni di carattere storico, molto interessanti.

    Concordo con la tua opinione: il problema è politico. La Corte Costituzionale fa ovviamente il suo lavoro, ma sta al Governo capire che, in tempi di Unione Europea e quindi di libera circolazione delle persone, avere leggi che obbligano alla uniformazione linguistica addirittura dei nomi stranieri, possa risultare un po’ anacronistico.

    Perché le mantengono, allora? Per pigrizia? Forse, ma secondo me soprattutto per non rischiare che, una volta cambiata la legge, esca fuori qualche avversario politico che aizzi le folle al grido di: «Il Governo vuole inabissare la nostra lingua!». Ed è un problema non solo lituano (basti pensare alle campagne elettorali dei partiti di estrema destra, in tutta Europa). Il popolo europeo è pronto ad accettare il resto di sé stesso? Questa è la domanda, secondo me, ed è più culturale che politica.

    Certo, poi la politica può fare tutto: basta cambiare programmi scolastici e scommetto che le prossime generazioni avranno meno paura degli altri europei. Ma ciò verrà fatto?

  • su 3 dicembre 2010 a 09:16, di Andrea In risposta a: Alla Lituania non piace il polacco

    Io penso che il problema sia di prospettive e punti di vista. Mi spiego meglio. L’Europa è un animale strano perché riassume (fino ad oggi senza riuscire a sintetizzarle) esperienze culturali e storiche assolutamente divergenti. Forse proprio in base a queste differenze talvolta riesce difficile capire il perché di certe scelte effettuate da partner “lontani”. Riesce talvolta difficile alla “Vecchia Europa” capire le ragioni delle scelte della “Nuova Europa” e viceversa. E’ necessario avere chiaro in testa che per i Paesi dell’ex blocco di Varsavia, il 2004 è stato innanzitutto l’anno dell’ingresso nella NATO, solo in secondo, magari addirittura in terzo luogo, quello dell’ingresso nell’EU. Il problema (psicologico) principale non era quello di “integrarsi” col continente, ma quello di salvaguardarsi da Mosca e avere una garanzia per la sopravvivenza dello Stato nazionale. L’“anacronismo linguistico”, che c’è, è evidente e preoccupante, è tuttavia “anacronismo” per chi guarda da Occidente, mentre per chi vive nell’Europa centrorientale (specialmente nei Paesi “piccoli”), quell’”anacronismo” è parte integrante di una precisa concezione dello Stato e dell’economia nazionale. Questo per dire che – pur con le (poche) eccezioni – l’”europeismo” di buona parte dell’Europa centrorientale non è sinceramente rivolto all’integrazione (certo, non che la posizione della “Vecchia Europa” lo sia maggiormente…), ma rappresenta una sponda per il consolidamento (per così dire, “postmoderno”) dello Stato nazionale. Una posizione forse psicologicamente comprensibile, ma che – almeno sul Baltico – pare ripetere pari pari gli errori e le ossessioni del Primo dopoguerra. “E il Popolo europeo è pronto ad accettare il resto di se stesso?”. Io no lo so. La politica di certo no. Non solo sono lontani i tempi dei padri fondatori. Paiono già preistoria quelli di Kohl e Mitterand. Paiono preistoria l’Havel intellettuale e riflessivo della fine degli anni ’70, l’”europeicità” di Solidarność e della Primavera di Praga. L’allargamento dell’UE è stato un fatto meccanico che a Est come a Ovest non solo non ha interessato il “Popolo” – che è rimasto nazionale o regionale o “di campanile” – ma non ha intellettualmente stimolato nemmeno la classe politica, mancata protagonista del ripensamento delle strutture dell’Unione che oggi assomiglia sempre più a una nuova Mitteleuropa in fieri. Come giustamente accennavi tu, la coscienza civile europea è una questione culturale. Ma considerando come la costruzione dell’Europa odierna si basi, comprensibilmente, sulla democrazia degli Stati e non possa pertanto evitarne i caratteri plebiscitari (cari non solo, ahimè, all’Italia), dubito che la coscienza politica possa avere solide possibilità di sviluppo senza una chiara presa di posizione della politica. Noi, comunque, continuiamo nel nostro lavoro...

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