25 Aprile, libertà e Federalismo

, di Davide Emanuele Iannace

25 Aprile, libertà e Federalismo

Olivier Roy, nel suo oramai classico “Il fallimento dell’Islam Politico” [1] descrive la diversità tra gli Islamisti comunemente intesi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e i neofondamentalisti, intesi come un gruppo nuovo, che prende piede da quei movimenti di massa terzomondisti diffusisi nei paesi arabi, inneggiando a una cosiddetta età dell’oro dell’Islam che, nella realtà, come molti altri studiosi affermano, non è mai esistita davvero.

Perché iniziare una riflessione sul 25 aprile proprio dalla riflessione del grande studioso francese? Il 25 aprile è, per la nazione, il giorno della Liberazione. La liberazione dall’autoritarismo quasi-totalitario fascista, la fine in qualche modo degli anni di conflitto civile e non, di guerra partigiana, di lotta. La Seconda Guerra Mondiale ha insegnato (o almeno avrebbe dovuto insegnare) tanto alle nazioni del mondo. Il mondo si è trovato sull’orlo di un baratro oscuro a causa di alcuni impulsi, oscuri ma totalmente umani, realizzatasi nelle abili mani di dittatori e di leader spietati come Hitler e Mussolini.

Il 25 aprile per l’Italia ricorda la fine di quel periodo nero, ma anche in qualche modo è una festa che non è solo una fine, ma è un inizio. Proprio in quest’ottica la si vuole qui interpretare. Non come semplicemente una data che sancisce la Liberazione, ma come una data simbolica, intoccabile (nonostante le parole di alcuni esponenti casualmente della destra [nazionale], che indica in qualche modo l’avvio di un nuovo percorso al di fuori del classico limite, fisico, geografico, culturale, dello stato nazionale e dell’identità culturale nazionale.

Non vogliamo qui inneggiare ora alla fine dell’identità culturale, chiariamolo prima di continuare. Tale identità non può diventare un totem completo, come nelle società arcaiche descritte da Durkheim, in cui si è tutt’uno con la cultura, si è in essa confinati, da essa espressi. No, la cultura individuale è una parte dell’essere umano, che per quanto possa plasmarlo e altamente influenzarlo (tutto, in fondo, è culturale, anche questo pezzo), non è inamovibile, né tanto meno statica. Il 25 aprile ha in qualche modo rappresentato la fine dell’immobilismo dei grandi totalitarismi, incubi che puntavano a una perfezione immaginata tramite storie e leggende fittizie, mai realmente esistite, una perfezione che non era che un miraggio costruito per aizzare gli istinti più bassi della razza umana, ai danni di tutto ciò che era diverso. La Liberazione in Italia ha rappresentato la rottura di quell’incubo, dei suoi schemi, delle sue costruzioni. La sua fine e al contempo l’inizio di un nuovo percorso, plasmato e indirizzato da menti diverse verso obiettivi diversi, e che noi vogliamo interpretare come un percorso che mira alla fine dello stato-nazione. Perché? Perché la Liberazione non è solo un atto politico, ma è anche un atto sociale e culturale. La Liberazione non solo dai regimi, ma dai limiti dello stato-nazione, limiti intrinsechi che hanno condotto più volte il mondo nelle fauci della guerra e del conflitto, dei genocidi e dei massacri.

La Liberazione è, ad oggi, una data di riflessione. La possiamo usare per ricordarci la fine dei regimi, per ricordare i morti che si son sacrificati per i rispettivi ideali su ogni fronte e per ogni schieramento e per non ripetere più quello stesso errore. Eppure, vi riflettiamo confinati ancora all’interno delle strette pareti del concetto di stato-nazionale, dell’idea monolitica di una cultura nazionale, di un mondo diviso da confini disegnati e invisibili dall’orbita alta dei satelliti che guidano la globalizzazione all’avvio di questi nuovi strani anni ’20.

Le nazioni, come le abbiamo sempre intese, sono state probabilmente una delle più grandi illusioni che ci potessimo inventare. Prima della loro nascita erano il miraggio di un’unità che doveva fuoriuscire dai confini delle città e dei feudi, di ducati e contee indipendenti. Quando si sono imposte, non solo son state protagoniste di un conflitto dopo l’altro, ma quella stessa millantata unità ha dato il via a movimenti separatisti, a lotte intestine. E non parliamo solo di Europa, qui. L’idea di nazione “occidentale”, in qualche modo, esportata e diffusa come prossimo passo dell’evoluzione umana, è finita per schiantarsi contro tribalismi, lotte intestine, lotte corporative. Queste ultime, in particolare, che da soggetti economici hanno trasceso i confini degli organi che avrebbero dovuto limitarli; le organizzazioni internazionali che avrebbero dovuto invece di per sé superare quei confini si son ritrovate comunque schiave di quelle stesse logiche nazionali che dovevano limitare. Un continuo gioco, in cui la sovranità viene continuamente rimodulata per adattarsi a quel corpo morto che è lo stato-nazionale, mentre le sfide diventano sempre più complicate, sempre più grandi, sempre più ampie. Il mondo cambia, eppure lo stato-nazione, che pur cerca in parte di corrervi dietro, arranca, rimanendo ancorato al suo limite intrinseco di creazione non a passo coi tempi.

La Liberazione dai totalitarismi e gli autoritarismi è anche l’occasione per ripensare al nostro modus vivendi, ai rischi che abbiamo corso e che ancora oggi corriamo quando neofondamentalisti come quelli odierni si rifanno ad una dialettica, un modo di dire e fare che è solo parzialmente esistito. Un’età dell’oro inarrivabile perché appartenente alla memoria, inventata e fantasticata. Nella realtà, ironia della sorte, i neofondamentalisti son spesso più rivoluzionari di molti di coloro che si considerano tali. Credono in delle magiche utopie collocate in un passato mitologico, piuttosto che ancora da generare nel futuro. Pur sempre però di invenzioni nuove si parla, di ottenere qualcosa che non c’è nel reale. Il federalismo è di per sé, ad esempio, ugualmente rivoluzionario proprio perché punta a rivoluzionare l’attuale sistema delle cose, lo stato del mondo, in qualcosa di nuovo ed innovativo, di diverso. Il 25 aprile ha rappresentato una prima rivoluzione, un cambiamento di sistema, da quello autoritario-totalitario fascista a un regime democratico, pur sempre però incastonato in quei limiti che abbiamo già citato dell’esperienza nazionale. La Federazione Europea, gli Stati Uniti d’Europa o come la si vuole chiamare, è ugualmente il punto di svolta del futuro sognato da chiunque pensi che i confini delle nazioni siano cappi al collo dei popoli, sempre che queste entità tutt’ora esistano e che non stiano sempre di più finendo per essere amalgama di tribù urbane e non, divise da caratteri sociali semplicemente diversi. Di per sé perfino la Federazione è non l’obiettivo finale, ma un intermedio. Vogliamo sognare di utopie? Lo scopo sarà sempre portarsi un po’ più in là, semplicemente perché le sfide del mondo ci porteranno sempre un passo avanti a cercare soluzioni più comuni. Se mai un giorno l’uomo solcasse le stelle e colonizzasse nuovi mondi, perfino una Federazione globale sarebbe solo un tassello di un puzzle più grande.

Rimanendo però lontano da questi sogni sul futuro remoto, il 25 aprile ha rappresentato la liberazione dal passato pesante degli autoritarismi e un nuovo rilancio per un modo di vivere che fosse più cooperativo che competitivo, in particolare poi per le prime sei nazionali della CECA. Di per sé, quello fu l’inizio di un percorso teso a ribilanciare secoli di competizione sfrenata che hanno avuto il loro culmine con le guerre mondiali. Non che la competizione sia finita, né che tanto meno tutti i dilemmi e i dubbi sulla cooperazione europea siano risolti. Non è però necessario dire che in fondo la competizione esiste anche all’interno dei singoli confini? Le questioni irrisolte sono per lo più un sistema complesso non solo di pregiudizi culturali, ma di sfide politiche cristallizzate in problematiche storiche e sociali che si ripetono ancora oggi nonostante, forse, perfino i motivi della loro stessa esistenza è oramai appartenente ai soli libri di storia. Gibilterra, ad esempio, e la sua complessa storia appartengono a queste diatribe (oggi di meno nel contesto del federalismo, vista la Brexit). Eppure, sono tutt’al più sfide affrontabili. Quello che è la vera lotta del XXI secolo è contro i neofondamentalisti. Roy li ritrova nei campi di addestramento afghani nella lotta contro i sovietici o nelle lotte etniche africane, oggi sono nelle strade dei centri europei e dei suoi paesi, limitando l’occhio al Vecchio Mondo. È quella la sfida che il 25 aprile ci ricorda. Una perenne sfida contro un’altra utopia, quella dello stato-nazione autarchico, indipendente, capace di veleggiare nella storia in autonomia. Un’utopia che nella Storia, al di là della retorica che spesso quelli che classifichiamo come sovranisti usano, non è mai esistita. Non è mai esistito uno stato davvero autarchico, separato dal resto del mondo, isolato completamente, nemmeno la Nord Corea che pure cerca di mantenere questa aura di indipendenza dalla rete globalizzata che tanto criticano.

Il 25 aprile è stata la Liberazione, che non è solo un punto di arrivo, ma uno slancio verso il futuro. La direzione che questo futuro prenderà è in mano a tutti noi. Siamo noi a stringere il timone del futuro. Ha rappresentato la liberazione dal fascismo e oggi può essere a sua volta un’indicazione per un futuro diverso, in cui si sfugge ad una nuova gabbia, quella del morente stato-nazione, per affrontare uniti e non divisi le sfide del futuro prossimo, sempre più complicate, sempre più globali.

Note

[1Come referenza: Roy, Ol. (1994). Failure of Political islam. Oxford University Press

Tuoi commenti
moderato a priori

Attenzione, il tuo messaggio sarà pubblicato solo dopo essere stato controllato ed approvato.

Chi sei?

Per mostrare qui il tuo avatar, registralo prima su gravatar.com (gratis e indolore). Non dimenticare di fornire il tuo indirizzo email.

Inserisci qui il tuo commento

Questo campo accetta scorciatoie SPIP {{gras}} {italique} -*liste [texte->url] <quote> <code> ed il codice HTML <q> <del> <ins>. Per creare paragrafi lasciare semplicemente delle righe vuote.

Segui i commenti: RSS 2.0 | Atom