Questa condanna è una vergogna?

, di Cesare Ceccato

Questa condanna è una vergogna?

Appassionati di true crime e opinionisti in Italia non mancano, basta aprire Twitter ogni qualvolta venga emessa una sentenza su un fatto di cronaca nera per rendersene conto. Sembra che ogni condanna sia sempre troppo poco, sia sempre una vergogna, sia sempre ingiusta. Ma è la giustizia che questi cercano o la vendetta?

Dall’uccisione di Re Umberto al delitto Matteotti, dai tentativi di colpo di Stato agli anni di piombo, dagli omicidi di mafia a Tangentopoli, passando per il disastro aereo di Ustica, Gladio e la P2, la storia d’Italia è stata, sin dalle sue prime ore, scandita da fatti di sangue, eventi misteriosi e strategie criminali. Forse è questo il motivo per cui lungo tutto lo stivale c’è un diffuso - e a tratti inquietante - fascino per la cronaca nera e giudiziaria, o forse è l’assuefazione che danno i telegiornali, o ancora una specifica condizione psicologica. Fatto sta che il cosiddetto true crime è stabilmente in cima alla classifica dei podcast più popolari, occupa buona parte di quotidiani, notiziari e programmi televisivi ed è incessantemente commentato da migliaia di utenti sui social, in particolare su Twitter (o, come piace a Musk, X).

Soprattutto qui, è ormai prassi che, davanti a un crimine che fa notizia, la qualunque si esprima a valanga, riportando le proprie considerazioni e chiedendo pene esemplari e dettagliate. Quando poi accade che la notizia non sia in sé e per sé il crimine ma la sentenza di condanna del giudice, che sia di primo grado, d’appello o di Cassazione, basta che la notizia esca dal tribunale perché dei non addetti ai lavori si siedano dietro la propria tastiera e dicano al mondo come questa sia una vergogna.

Ora, se una condanna è una vergogna significa che è una condanna ingiusta, che, davanti all’illecito o al reato, giustizia non è stata fatta. Perché a parole è sempre così: si cerca giustizia, non vendetta.

Ma siamo certi che questa frase non venga strumentalizzata solo per sentirsi più in pace con sé stessi? Nel Rapporto Italia Eurispes del 2022, solo il 15.8% degli intervistati si diceva favorevole alla pena di morte. Evidentemente, per la maggioranza, una barbarie degna solo dell’antico Codice di Hammurabi (quello dell’occhio per occhio, dente per dente) anche quando l’esecuzione avvenga non in maniera spettacolarizzata ma soft, come con l’iniezione letale applicata in quattordici Stati degli USA.

Eppure, nello stesso Rapporto si legge come il 75,3% degli intervistati non sia favorevole all’abolizione dell’ergastolo, il 72,7% non sia favorevole alla liberazione anticipata e il 70,5% non sia favorevole alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova ai servizi sociali. Questi dati, messi insieme, aprono a tre diverse letture che potrebbero pure coesistere: il carcere a vita o per una lunga durata e senza sconti per un condannato determina un maggior senso di sicurezza, l’avvicinamento del condannato all’aldilà giorno dopo giorno dentro una cella è più umanamente accettabile della pena di morte immediata, chi ha sbagliato deve pagare senza se e senza ma.

Secondo quanto dettato al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana - articolo che si occupa nello specifico della responsabilità penale - le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Già questo enunciato si pone in deciso contrasto alla pena dell’ergastolo e ad altri metodi che i commentatori social utilizzerebbero per punire chi delinque, da quelli che “solo 24 anni di carcere per i fratelli Bianchi, rei del vile assassinio di Willy Monteiro, sono una vergogna”, o che “una vita non vale 30 anni di carcere”, a quelli che “dovrebbero far provare agli stupratori di Palermo la loro stessa aggressione, vediamo poi come si sentono”, che “ci vuole l’evirazione, troppo poco la castrazione chimica” o che “se non vuoi essere linciato, non scippare le vecchiette”.

Attraverso la pena dell’ergastolo è estremamente difficile pensare di ottenere la rieducazione, men che meno con la pratica dell’evirazione o della castrazione chimica, che certi politici invocano, soprattutto in campagna elettorale, quale condanna per gli stupratori. A tal proposito, bisognerebbe ragionare se quest’ultima possa considerarsi lecita; come la Costituzione, pure la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, al suo articolo 3, dichiara il bisogno di un senso di umanità nei confronti dei condannati, stabilendo come nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.

C’è stato un caso di castrazione chimica in Repubblica Ceca nel 2014, per il quale la Corte di Strasburgo ha assolto lo Stato. Si trattava di una situazione molto particolare, l’imputato risultava essere un soggetto che, affetto dalla malattia degenerativa del sistema nervoso conosciuta come sindrome di Wilson, aveva sviluppato una pericolosa efebofilia. Volenteroso di guarire, questo aveva disposto il suo pieno consenso alla pratica. Ai sensi dell’articolo 51 del codice penale italiano, il consenso dell’avente diritto è generalmente causa di giustificazione, ma ciò non vale quando a essere presi in considerazione sono i diritti personali alla vita, alla salute, all’integrità fisica, all’onore e i diritti fondamentali di libertà. Dunque, è ipotizzabile che, in Italia, nemmeno con tale scappatoia la castrazione chimica sia legittima. Come per l’ergastolo, possibilmente più che per l’ergastolo, essendo questo previsto nell’elenco delle specie di pene all’articolo 17 del codice penale, sarebbe necessaria una approfonditissima valutazione di pericolosità sociale del criminale.

Se l’ergastolo, o pene come il regime speciale di detenzione (il cosiddetto carcere duro, o 41-bis dall’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario a cui fa riferimento), esistono ancora, è perché la rieducazione del condannato va bilanciata con la garanzia che questo non commetta ulteriori crimini e che chi ne è stato vittima viva in sicurezza. Il dibattito sull’utilità o meno di questi metodi è aperto, anzi, lo è da tempo, anche da prima dell’inasprimento del 41-bis, avvenuto in riferimento ai criminali di mafia dopo la strage che comportò la morte del magistrato Giovanni Falcone e della sua scorta il 23 maggio 1992. Ai funerali di questi, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, che pure pensò subito dopo l’assassinio alla vendetta, ebbe la lucidità di dire come anche per quei mafiosi vi fosse possibilità di perdono, qualora avessero avuto il coraggio di cambiare.

Ciò che è utile domandarsi è: supponendo che la rieducazione e la reintegrazione nella società del condannato, che è quello che costituzionalmente chiede l’Italia, sia quindi possibile, quando lo è? Con che pena? Quando è giusto che si aprano le sbarre per i criminali? La risposta più ovvia è: dipende. Dipende da cosa offrono le carceri, che teoricamente dovrebbero disporre di tutti gli strumenti utili affinché chi le popola possa rendersi conto del gesto commesso, possa istruirsi, diventare diligente, non essere più una preoccupazione per chi vive intorno a lui. Dipende dall’età del condannato. Se giovane potrebbe essere immaturo e quindi gli ci vorrebbe più tempo per ripulirsi ma, allo stesso tempo, crescendo isolato dal mondo, potrebbe non essere in grado di vivere all’esterno della cella passando dentro troppi anni (andate oltre il numero, pensate a dove e chi siete ora e a dove e chi eravate quindici, venti o trent’anni fa). Se adulto o anziano, con una condanna pesante in termini di anni di galera, potrebbe rinunciare all’idea di vivere di nuovo in una società civile e non pentirsi mai di quanto fatto. Dipende anche dal pregiudizio delle stesse persone davanti a un ex detenuto, scettiche nell’offrigli un lavoro o anche semplicemente nell’averci a che fare.

Spostando l’attenzione dai condannati alle carceri, che sono appunto uno degli elementi principali per determinare se la rieducazione sia possibile, è evidente come in Italia siano un grosso problema. Spesso mancano mezzi e personale necessari, come luoghi di culto, di studio, di attività e di socializzazione, o psicologi, insegnanti e medici. Secondo i dati emersi dall’indagine dell’associazione Antigone, poi, emerge preoccupantemente il tema del sovraffollamento e dei suicidi. L’ultimo, legatissimo all’incertezza dei condannati sul loro futuro.

Questa situazione dovrebbe essere la vergogna, non “questa condanna”. Se un condannato non viene rieducato, la colpa forse non è unicamente sua. Se Angelo Izzo, il mostro del Circeo, esce dal carcere e uccide di nuovo, forse non è perché ha scontato troppi pochi anni, ma è per come li ha scontati. Se si vuole dare fede alla Costituzione e alle Carte internazionali, non dovrebbe essere così dura prendere atto delle decisioni dei giudici, che comunque operano sempre e solo in forza di legge. Se invece si vuole la vendetta, che la si chieda e che non ci si nasconda dietro il termine “giustizia”.

Intanto osserviamo la Norvegia, dove è detenuto Anders Behring Breivik, autore degli attentati del 22 luglio 2011 a Oslo e Utøya e possibilmente il criminale più ignobile e temibile di questo secolo, a cui è stata irrogata una condanna di ventuno anni di carcere (il massimo della pena prevista nel Paese, che ha abbandonato l’ergastolo già nel 1981) prorogabili di altri cinque per un numero indefinito di volte qualora, a pena scontata, sia ancora ritenuto socialmente pericoloso.

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