Cosa ci rimane da sognare del futuro?

La fine delle utopie

, by Davide Emanuele Iannace

La fine delle utopie

Una delle discussioni più interessanti che si fa in casa Iannace – in formato online e in presenza, come nelle migliori conferenze – parte dai seguenti presupposti: la fine del mondo è vicina? Se no, quanto siamo paranoici? Se sì, perché non siamo più paranoici. Questo non è il tema di questo articolo, ma è una premessa importante, perché si lega alla più importante e vitale domanda a cui vogliamo rivolgere la nostra attenzione, ovvero: come vediamo, leggiamo, ascoltiamo, osserviamo, il futuro?

Il futuro è la chiave di lettura fondamentale del mondo. Gli scrittori apocalittici pensavano che il mondo stesse finendo già un centinaio di anni fa, e lo hanno detto più e più volte a ripetizione. Quando il mondo sta per finire, cos’altro resta da fare se non pregare e sperare che vada tutto per il meglio? La posizione degli apocalittici è quindi abbastanza chiara. Eppure, il mondo non è finito – o forse un mondo, il loro, lo è – e si è andati avanti nel solito giro d’affari dei comuni mortali: nascere, uccidersi, fare cose orribili, bellissime, salvare vite, riprodursi, infine morire e poi lasciare a qualcun altro la palla per ricominciare il giro di valzer.

Se prendiamo gli apocalittici medievali, ovviamente la loro visione del mondo era abbastanza limitata dagli strumenti tecnologici dell’epoca e dal loro grado di esperienza con una serie di fattori socio-culturali. Possiamo ben credere che, se dei tuoi quattordici parenti, tredici sono morti di peste nera, la fine del mondo possa davvero essere percepita come dietro l’angolo. Oggi, abbiamo una visione abbastanza globale di quello che ci avviene intorno. Di questa palla di acqua salata imbevibile e rocce coperte di fango sappiamo molto di più di quanto un cronista medievale possa anche solo sperare di conoscere. È il progresso. Loro hanno la bellezza delle armature pesanti e di vivere Vikings sulla propria pelle, noi di sapere che stiamo riscaldando il pianeta ad un punto di non-ritorno per la vita dei mammiferi – come noi. Ad ognuno il suo.

I dati a nostra disposizione – che, ricordiamo, sono dati e quindi vanno presi e letti almeno trenta volta prima di essere sbattuti sul giornale in prima pagina -, sembrano aver suggerito ai più grandi esperti di clima, cambiamento climatico, e sostenibilità, che le cose stiano andando male. I report dell’IPCC, e non solo, sembrano non troppo timidamente dire che il mondo stia andando verso la sua fine. Che questo sia vero, o falso, non lo sappiamo.

Il mondo è una evoluzione progressiva continua, che vuol dire tanto passi in avanti che indietro. Potrebbe voler dire la scoperta del perfetto sistema energetico domani, o il più grande movimento luddista che ci riporterà indietro di duecento anni tra due giorni. Potrebbe voler dire fondare la prima colonia spaziale in vent’anni, come in cento, come in mai. Si può essere tanto ottimisti verso il futuro, che cronicamente pessimisti.

Dove queste visioni diventano più chiare ed esplicative è nell’arte e nella politica. L’arte, per sua natura, cattura l’immaginazione dell’umanità, realizzando sotto forma di diversi possibili manufatti – videogiochi, giochi da tavolo, libri, CD, libri, fumetti - la stessa visione. La politica, a sua volta, intercetta quella stessa visione – unita ad un set di interessi in cui ora non ci caleremo. Arte e politica sono spettri e motori di cambiamento, e al contempo riflettono le tendenze, oltre che potenzialmente influenzare le stesse. È una specie di loop a feedback interno, che continua e continua ancora.

Se guardiamo al mondo dell’arte, oggi, che visione ricaviamo del futuro prossimo venturo? Non direi ottimista. Una delle serie di maggior successo dell’ultima decade è stata Black Mirror, e la maggior parte dei film di fantascienza partono fondamentalmente dalla premessa che qualcosa andrà terribilmente storto – tranne poche eccezioni - o che già sia andato storto. Prendiamo due grandi esempi: Foundation e Star Trek.

Foundation è una serie TV prodotta da Apple TV, che prende ispirazione – e lo fa male – dalla serie di libri dedicati alla Fondazione di Isaac Asimov. Nei libri originali, quello che viene rappresentato è la caduta di un grande Impero umano e lo sforzo fatto da uno scienziato, lo psicostorico Hari Seldon, di ridurre il tempo oscuro che si crea inevitabilmente dopo la crisi di una cultura di tipo globale e completa. Non è utile ora buttarsi nei dettagli dei libri, ma conta piuttosto l’approccio che Asimov segue. La psicostoria non è altro che, detto brutalmente, un’applicazione della teoria dei giochi in campo probabilistico con metodi avanzati e per ora impossibili, atta a prevedere il comportamento umano – meno alcuni errori dovuti a eventi non prevedibili come super-intelligenti mutanti dai poteri sovrumani. L’applicazione della psicostoria, nei libri di Asimov, porta alla creazione della Fondazione omonima, il cui scopo è far transitare la galassia dall’anarchia a un nuovo ordine, qualunque esso sia. Il libro non parla di utopie in senso stretto, ma tocca profondamente temi come pacifismo, accettazione sociale – dall’apprezzamento di ciò che è di solito invisibile ad una profonda riflessione sul genere e sui suoi confini nella morale -, nonché a cosa voglia dire ricostruire e sognare il futuro.

Alcuni di voi conosceranno la Fondazione solo tramite invece la recente serie TV, che non cattura in nulla lo spirito dell’opera iniziale. L’Impero – che nei romanzi originali è una entità per lo più neutra – qui diventa il grande nemico, la nemesi della pace, uno spietato nemico a cui ci si oppone con tutta la propria forza perché, appunto nemesi. Non un male cieco e brutale, ma anche ben costruito – si plaude, anzi, agli attori, alla regia, alla sceneggiatura. Ma quello che vediamo non è la Fondazionedi Asimov. È un mondo diverso, più violento, più ostile, dove il sogno del futuro si infrange contro l’amaro pragmatismo della nostra realtà.

Questo ragionamento molto breve si applica anche all’universo fantascientifico di Gene Roddenberry, creato negli anni ’60 più o meno non in anni distanti da quelli di Asimov. Meno “realistico”, ma molto più radicato nel senso di voler costruire un futuro idilliaco, dove l’umanità è riuscita a superare le brutali sfide che la Guerra Fredda aveva messo in campo durante gli anni di vita dello scrittore e sceneggiatore americano.

L’universo di Star Trek, in tutte le sue iterazioni, è un universo con forti tracce di un sentimento utopico, è il tentativo di dire “Cosa si potrebbe fare meglio”. La Federazione, l’entità a cui i protagonisti appartengono, riunisce razze aliene diverse sotto un unico comune tetto. Era già con Deep Space 9 che il sogno della Federazione viene in qualche modo mostrato nei suoi lati oscuri - quelli di una intelligence spietata pronta a tutto per difenderla, o nemici così potenti da incrinare il sogno sotto il peso di una guerra mortale. Rimaneva però di fondo l’idea che per quell’utopia valeva la pena combattere, che la scienza e la tecnologia, insieme a una forte morale ed etica, avrebbero condotto l’umanità – e le specie aliene – su un cammino migliore.

Questo è sparito nelle recenti iterazioni, Picard e Discovery, in parte per catturare quella richiesta di mercato di sane aree grigie, nonché per una semplice reazione a quello che consideriamo progresso tecnologico in chiave illuminista e razionalista. I lati oscuri, in queste serie, diventano sempre di più rispetto i lati positivi. L’utopia si rompe, lo specchio cade, i vetri si infrangono e quello che abbiamo sono sistemi corrotti e sbagliati, infiltrati, devastati dall’interno. Diventa incomprensibile trovare il senso del sogno che vedeva sulla plancia della USS Enterprise ufficiali russi, giapponesi, americani, una donna di colore – la grandissima Nichelle Nichols -, un alieno, uniti nel semplice scopo di esplorare l’universo e fare di meglio. Il tiro è stato aggiustato, ma le opere d’arte più recenti degli universi di Roddenberry e Asimov ci dicono qualcosa di come leggiamo il futuro: non con speranza, ma con vacuo orrore.

Ne abbiamo tutte le ragioni, ovviamente. Crisi climatica, crisi globale geopolitica, guerra e conflitti, sbilanciamenti sociali, povertà diffusa, fame, problemi che credevamo di risolvere e che abbiamo peggiorato. Sembra che, ad ogni nuova scoperta tecnologica, i problemi risolti spariscano e poi tornino alla carica, peggio di prima.

Questo cambia radicalmente la nostra percezione sia di quello che accade oggi, sia di come possibilmente affrontarli in futuro. Perché, in fin dei conti, il problema e il come esso viene letto include in parte anche la costruzione della sua soluzione. La politica, nel framing del discorso pubblico, segue il medesimo processo. Dare la colpa agli immigrati per gli innumerevoli problemi socioeconomici del paese – a qualcuno fischiano le orecchie? – vuol dire creare un framework in cui le soluzioni si muovono sull’asse contenimento-apertura confini. Ma perché i migranti migrano? Se il discorso si ponesse sul problema delle nazioni di partenza, allora anche le soluzioni finirebbero per ricadere sul piano delle domande “Cosa succede lì?” e “Come affrontare i problemi in quella zona del mondo?".

Come vediamo e studiamo l’Europa e l’Unione Europea non è diverso. Non è diverso dal pensare che dopo il crollo dell’Impero è possibile fondare una nuova società, democratica e ben organizzata. Non è diverso da pensare che una Federazione – guarda un po’ il caso – possa aiutare a mettere sotto un tetto comune le diverse divergenze dei popoli, anche se alieni, anche se percepiti come diversi l’uno dall’altro. Esattamente come queste duplici entità nascono dopo una crisi radicale e sconvolgente, così anche l’Unione Europea ha preso lentamente piede dopo il grande conflitto mondiale, grande motore scatenante dei cambiamenti che hanno colpito il nostro pianeta.

Eppure, riusciamo a vedere ancora nell’Unione, anzi, nel sogno di una Federazione Europea, una progettualità utopica realizzabile o ci si è arresi dinanzi, semplicemente, l’horror vacui di questa realtà sempre di più dominata da una sottospecie di pragmatismo che ha il sapore del conservatorismo più becero e del nichilismo assoluto? L’idea di una “confederazione” di nazioni che spesso le destre nazionalistiche – e non solo – tirano in ballo come futuro dell’Unione è uno scalare in basso il sogno di superare i confini nazionali e tentare un nuovo approccio verso le crisi, i problemi quotidiani e non, il senso del vivere un territorio e una entità non più nazionale – e di sua natura escludente – ma che sia naturalmente tesa all’apertura.

È un sogno, in parte utopico, in parte invece ben radicato in un processo politico apparentemente invisibile che ci ha lentamente portati da EURATOM e CECA fino all’Euro stesso. Non basta certamente il sogno, ma se l’attitudine globale – che vediamo tra arti e spettacoli ma anche nei discorsi politici – è un ancorarsi disperato alla realtà e alle sue problematiche, in cui il sogno di “tornare ai fasti del passato” diventa l’iconografia lancinante e dominante del creato, allora entità come la Federazione Europea diventano sogni irrealizzabili.

Ma anche l’Unione è stata per lungo tempo un passo troppo in avanti per essere fatto, così come l’euro. In un mondo di sfide globali, accettare la fine dei confini potrebbe essere il primo passo per contrastare quei drammi socio-climatici che ci colpiscono ogni giorno di più, e che radicalizzano e spingono frange della popolazione tra le braccia delle semplici soluzioni racchiuse in stantii inni come “Dio, Patria, Nazione”.

Una realtà che si è vista delusa dalle promesse del passato tende a vedere senza illusioni – o forse, al contrario, illudendosi proprio che sia tutto un futuro nero negativo -, quello che verrà dopo. I problemi sono insormontabili, la crisi imminente, gli eroi sconfitti, il futuro grigio. Eppure, forse, ci serve vedere il passato per trarne un potente insegnamento: è stato sognare che ha permesso di andare ancora un passo in avanti, e superare problemi – anche quelli poi creati dalle soluzioni stesse. Il sogno di volare, come il sogno dell’elettricità, ma anche quello della cura di malattie ritenute implacabili nemici dell’umanità. Sono state la scienza, il progresso e soprattutto l’agire umano in maniera etica, a portare un passo alla volta la specie dove si trova adesso. A un punto critico, certamente, ma al contempo terribilmente ricco di possibili futuri dai risvolti positivi, che devono solo essere prima immaginati, per poi essere realizzati.

Lo strapotere delle grandi corporazioni, un clima allo sfacelo e un tessuto socio-economico devastato da ineguaglianze e promesse non mantenute, fame nel “sud del mondo”, così come migrazioni massicce dovute al clima, ma anche semplicemente una pessima gestione della cosa pubblica, sono alcuni dei problemi che ci affliggono, la cui soluzione è però a portata di mano, ed è radicata nell’idea che dinanzi problemi che non conoscono confini, la soluzione non risiede nel potere politico di uno stato-nazione, che per sua natura stessa non è capace di affrontarlo.

La geopolitica classica tenta continuamente una lettura della realtà ancorata ai paradigmi dello stato come nazione, della morte degli enti nazionali e tutta quella sequenza di concetti che, dinanzi il COVID o anche il conflitto russo-ucraino, hanno mostrato pesanti incrinature. Forse ci sarà d’aiuto anche l’arte, in questa battaglia che è tutta culturale, di una ricostruzione di una egemonia nel senso più gramsciano del termine, che semplicemente si ponga come egemonia del “sognare” un futuro, e portare gli strumenti in campo perché quel futuro si possa realizzare.

Con futuro, voglio specificare concludendo, non intendo quello di un astruso incubo nazionalista in cui il confine, sigillato come il cuore di un buco nero, diventa la divisione tra noi e loro. Per quello si può giocare a Europa Universalis senza problemi. Nel mondo reale, bisognerà iniziare a sognare un futuro che sia più equo – per tutti senza discriminazioni -, giusto, che sia sostenibile e soprattutto che non diventi una imboccata verso la strada dell’estinzione della specie umana.

Perché l’estinzione sarà quella umana. Il pianeta Terra, perla blu del sistema solare, continuerà i suoi giri intorno il Sole insieme ai suoi fratelli pianeti. Gli Dei Oscuri continueranno a vivere e sognare - o siamo noi il loro sogno? - e gli affari galattici continueranno esattamente come prima. Però, sognare è tutta una prerogativa umana e dobbiamo continuare a farlo. Sognare un mondo migliore vuol dire poi non rimanere sul cuscino a sonnecchiare, ma progettare e partecipare al tentativo di fare del mondo un posto migliore, a partire dall’Europa stessa.

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