Il Green Deal tra reticenze e interessi contrastanti

, di Alessandro Casorella

Il Green Deal tra reticenze e interessi contrastanti
Foto di Freddy da Pixabay

Dalle proteste degli agricoltori alle concessioni sul clima al Parlamento europeo, passando per il tracollo dei verdi nei sondaggi e il percepito scostamento verso destra del PPE a pochi mesi dalle elezioni, pare pronto a cascare come un castello di carta il Patto Verde europeo per la neutralità climatica.

Cinque anni fa, all’apice del successo dei partiti verdi e di Fridays for Future, Ursula von der Leyen approdava alla presidenza della Commissione europea e nominava l’olandese Frans Timmermans Commissario per l’azione climatica.

In questo periodo, il Green Deal è stato lo strumento dell’Unione volto a promuovere, tramite la condizionalità del sostegno finanziario, l’adozione di legislazioni nazionali in linea con le esigenze di neutralità climatica e di riduzione delle emissioni di gas serra.

Benché la tedesca del CDU sia a oggi la Spitzenkandidat del Partito Popolare Europeo (PPE) per un’eventuale riconferma in testa alla Commissione, gli interessi agricoli e industriali delle élite economiche e gli attriti all’interno dello stesso PPE potrebbero mettere a dura prova il Patto Verde.

Un’opposizione contadina

La Lega accennò a una “fine dell’era Green Deal” dopo che, a giugno dell’anno scorso, la legge ripristino degli ecosistemi fu bocciata al Parlamento europeo da una coalizione composta da Identità e Democrazia (ID), Conservatori e Riformisti Europei (ECR) e PPE. Se è vero che la Direttiva in questione fu poi rivista al ribasso e finalmente adottata, il ridimensionamento delle ambizioni ecologiste europee venne riconfermato nei mesi successivi.

La Direttiva sulla riduzione dei fitofarmaci, per esempio, relativa alla strategia “farm to fork” per una produzione alimentare più verde, fu ritirata a febbraio dalla Commissione europea in seguito a un’intensa attività di lobbying agricolo. L’abbandono della legge fu seguito, per lo stesso motivo, da una revisione a marzo della Direttiva sulle emissioni industriali, in seguito a cui i bovini vennero esclusi dalle strette agli allevamenti intensivi.

Regolamentazioni riguardo l’uso di pesticidi, di allevamenti intensivi, di ripristino della natura o ancora di estensione delle colture biologiche; che si parli dell’uno o dell’altro, le pressioni del mondo contadino si sono fatte particolarmente pesanti dall’approvazione della nuova Politica Agricola Comune, entrata in vigore il primo gennaio 2023. Il sistema degli ecoschemi in particolare, secondo cui il 25% almeno dei pagamenti diretti ricevuti dagli agricoltori debbano essere dedicati al Green Deal, è stato duramente contestato.

Le proteste dei contadini, che in Polonia condussero lo scorso febbraio allo sciopero generale, hanno espresso come esigenza capitale il prioritizzare la sovranità alimentare alla transizione ecologica. La limitazione alle colture intensive e gli incentivi alla produzione biologica in linea con le esigenze del Green Deal, di fatto, non garantirebbero una resa agricola sufficiente a soddisfare la domanda europea, costringendo a importare da Paesi i cui metodi, in quanto ad agricoltura e allevamenti, sono tutt’altro che sostenibili.

Nel mirino degli ambienti contadini, infatti, non vi è solamente l’accordo di libero scambio con il Mercosur, in fase di stallo dal 2019 per via del veto francese, ma, più importante ancora, la liberalizzazione del commercio del grano ucraino, iniziata nel 2022 e ulteriormente estesa il 22 marzo di quest’anno dal Consiglio europeo. Il crollo dei prezzi causato da tale liberalizzazione, abbinato al rincaro dell’energia provocato dalla guerra in Ucraina, ha afferito un duro colpo ai lavoratori agricoli di tutta Europa. Per molti di loro, la precarietà derivata dall’esposizione a una concorrenza aggressiva, almeno in parte spiegata da un approvvigionamento regionale insufficiente, basta e avanza a supportare con decisione una politica agricola che altro che intensiva non può essere.

Forze elusive tra Italia e Germania

Prototipi della produzione automobilistica europea e riferimenti storici della sua manifattura, Italia e Germania hanno presentato, nell’ultimo anno, posizioni poco concilianti in quanto a sostenibilità climatica.

Un blocco di Europarlamentari padani si era opposto un anno fa alla revisione della Direttiva sulla qualità dell’aria, presentata fine ottobre 2022 dalla Commissione europea con lo scopo di porre soglie più rigorose in quanto a inquinanti. Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia, per giustificare la mossa definì le misure del testo “irragionevoli”; secondo lui, avrebbero condotto alla chiusura di tre quarti delle attività industriale e agricole della pianura padana. A marzo 2023 invece, i Capi di Governo italiani e tedeschi fecero scivolare il Regolamento legato al divieto di vendita, entro il 2035, di nuovi veicoli a benzina e diesel.

L’asse italo-tedesco, trainato dagli interessi industriali rispettivamente della Pianura Padana e della Baviera, rappresenta un interessante punto di snodo in vista delle elezioni europee. Punto di snodo simboleggiato dall’incontro del 5 gennaio tra Giorgia Meloni, Presidente di ECR, e Manfred Weber, presidente del PPE e membro del CSU bavarese. Un incontro, visto anche il recente cambio di retorica del partito e la sua partecipazione al veto di numerose politiche legate al Green Deal, che suggerisce un futuro sbilanciamento a destra del gruppo politico più folto del Parlamento europeo.

Nicolas Schmit, il lussemburghese Spitzenkandidat dell’Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici (S&D), ha recentemente raccomandato ai rappresentanti del PPE di rimanere fedeli al loro europeismo e di non stringere alleanze con la destra di ECR e ID. La temuta polarizzazione dei popolari, dettata in gran parte dall’influenza di Weber e del CSU (a maggior ragione per le questioni climatiche), è stata resa emblematica dal nuovo manifesto del partito, approvato inizio marzo all’occasione del Congresso tenutosi a Bucarest.

Intitolato “La nostra Europa, una casa sicura e bella per le persone”, il programma strizza l’occhio agli interessi di agricoltori e industrie. Si afferma la necessità di un Green Deal senza ideologie, che possa garantire la competitività delle attività economiche europee proteggendo il mondo imprenditoriale. Il manifesto mette l’accento sull’incoraggiamento all’innovazione e sulle incentivazioni allo sviluppo di tecnologie “verdi”, ripudiando tutti i divieti e le regolamentazioni volte a frenare l’attività economica: “Soprattutto in agricoltura e pesca – si legge – gli obiettivi dovrebbero essere raggiunti con innovazioni tecnologiche, non con divieti”.

Rimediare alle perdite di competitività

In un’intervista rilasciata a Le Monde il 5 marzo, l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard ha chiamato i Paesi membri dell’Unione europea a investire maggiormente nelle politiche climatiche e nella difesa contro la Russia. Ha sottolineato l’importanza dei fondi strutturali e l’inadeguatezza delle attuali politiche di austerità, una spina nel fianco alla crescita della zona euro. I criteri budgetari andrebbero flessibilizzati in modo da consentire una maggior disponibilità di capitale, da dedicare a settori strategici a costo di sacrificare almeno in parte le stringenti regole del debito. Senza di ciò, il Green Deal sarebbe un buco nell’acqua.

Il discorso di Blanchard solleva una problematica importante, presente tra l’altro nel manifesto del PPE sopracitato e nelle rivendicazioni degli agricoltori: quello della competitività. Rispetto ad altri Paesi, in Europa la transizione energetica si sta facendo secondo un modello basato su regolamentazioni stringenti nei confronti delle industrie inquinanti anziché su sussidi su larga scala che incentivino all’uso di fonti energetiche e tecnologie sostenibili. L’Indonesia, che domina a oggi il mercato delle terre rare e in particolare le esportazioni di nichel, così come la Cina, oggi maggiore produttrice di veicoli elettrici, hanno negli ultimi anni profondamente rimodellato la loro economia grazie a una politica basata su massicce sovvenzioni statali. Questa stessa strategia è stata recentemente messa in atto negli Stati Uniti attraverso l’Inflation Reduction Act, la quale ha permesso di sostenere a furia di sussidi e deduzioni fiscali le ditte locali coinvolte nella transizione energetica.

La Meyer Berger ha recentemente chiuso uno dei più grandi stabilimenti di produzione di pannelli solari in tutta Europa, licenziando 500 persone, per delocalizzare negli Stati Uniti e favorire di migliori condizioni finanziarie. Le restrizioni e le penalità imposte dal Green Deal a industrie e agricoltori, così come l’assenza di sovvenzioni massicce in favore dei settori chiave della transizione climatica, hanno provocato all’interno dell’economia europea une dura perdita di competitività in tutti i settori (si pensi all’invasione di macchine elettriche e di pannelli solari cinesi nel vecchio continente).

L’opposizione odierna alle misure del Green Deal è spiegata, almeno in parte, dalle implicazioni in termini di guadagni e perdite che ne derivano per i principali settori economici del continente. Una politica di sovvenzioni come quella cinese potrebbe aiutare a risolvere questa opposizione?

È difficile rispondere. Sicuramente, la mania tedesca volta a uno stretto monitoraggio del debito e a una rigorosa austerità rende questa soluzione poco realista. Il complesso sistema decisionale dell’Unione europea, invece, potrebbe agevolare la continuazione di misure a molti impopolari, quali le politiche dell’attuale Green Deal, dato che difficilmente gli elettori riescono a trovare per esse un partito responsabile. Ciononostante, è importante che l’Unione europea si impegni per adattare il Green Deal alle esigenze di tutti, certo senza doverlo sacrificare e perseguendo la strada della sostenibilità climatica.

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